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Read Ebook: Manfredo Palavicino o I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana by Rovani Giuseppe

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Ebook has 3431 lines and 197378 words, and 69 pages

--Ma lasciatemi dire.

--Ho compreso bene, non si sbaglia; ma ? grossa, torno a ripetere. Se d? la sorte, i Francesi che voi dite non san forse nemmanco che esista il marchese. Il marchese ? noto qui fra noi, perch? semina, come suol dirsi, i ducati per le contrade. ? noto pei grossi guai che ha detto qui Carl'Ambrogio, per le tante lagrime che ? costato a quella cara donna di sua madre, la quale avrebbe avuto a ringraziar Dio se fosse caduta morta il d? stesso che and? sposa del vecchio marchese: per queste cose dunque esso ? noto fra noi; ma fuori del Ducato chi volete che sappia nulla di tutto ci?? E i Francesi?... Ma posto anche che i Francesi conoscan lui, com'io conosco voi.... e cos?.... che credereste?... potrebbe lor forse dar ombra codesto giovane, per quanto sia buona la lama della sua spada?.... ? grossa, insomma; ? grossa, e non mi par vero che abbiate parlato voi!

Facendo questi e simili discorsi quelle tre o quattro persone, passo passo, allontanandosi da quel luogo, trassero sotto la piazza del duomo, attraversata la quale, si ridussero verso al portico de' Figini, dove tornarono ad unirsi in crocchio permanente innanzi ad una bottega di merciaio.

N? basta che anche in oggi sia quell'area medesima di tre secoli fanno, quel medesimo duomo; quel portico, quel palazzo ducale istesso. La mano del tempo, quella degli uomini, il progresso, e talvolta, se pur vuolsi, il regresso, coll'assiduo mutare e rimutare, tanto e poi tanto vi ha tolto ed aggiunto, che se il buon Burigozzo, che noi abbiam veduto ridursi alla sua bottega, tornasse, per un miracolo, tra' vivi, assai penerebbe ad orientarsi.

Quella gran macchina del duomo incompiuta, coperta di tanti impalcamenti quante sono adesso le sue guglie, era tale ormai che gi? faceva inarcar le ciglia di stupore a' riguardanti; ed anzi non dando luogo a determinare precisamente, per la sua imperfezione medesima, quel che ne sarebbe riuscito, condotta che fosse all'ultimo termine, faceva che nella fantasia degli spettatori, come suole avvenire, pi? ancora se ne ampliassero le gi? colossali dimensioni. N? la natura e pi? che tutto la forma degli edifizi che le stavano intorno contrastavano a quella gotica mole. Il portico de' Figini, surto da quasi due secoli, non presentava quell'incomportabile miscuglio d'architettura che tanto offende oggid?. Su quelle colonne, su quegli archi a sesto poggiava un sul piano di case co' finestroni di forma al tutto gotica, ornati di pietre cotte ad arabeschi e aventi nel mezzo una sottile colonna sulla quale si congiungevano due piccoli archi; tutta quella parte d'edificio che dalle colonne s'innalzava al tetto, per la forma, per gli ornati, per la tinta di un rosso fatto cupo dal tempo, rendeva immagine press'a poco dell'odierna facciata dell'Ospedal Maggiore. Rimpetto al portico dove or sorge quel rozzissimo corpo d'edifizi, senza un colorito al mondo n? di tempi, n? di civilt?, n? fosse pur anco di vetusta barbarie, l'area era allora affatto sgombra, e soltanto sorgeva qui e col? alcune trabacche, le quali per altro non impedivano che l'occhio da quel lato spaziasse per un ambito infinitamente pi? ampio che non sia oggid?, e per cui tutto si vedeva il palazzo ducale, d'architettura gotica esso pure, esso pure contesto di pietre cotte, alle quali il tempo aveva dato quella tinta severa, che segna, se pu? passar l'espressione, l'aristocrazia degli edifizi; archi a sesto acuto in fila, finestroni larghi, alti, a due archi, ad ornati arabeschi. Stemma visconteo e sforzesco in vetta a tutte le porte.

L'uniformit? dunque dell'architettura in due distinti edifizi che sorgevano accanto al duomo, la loro tinta severa era ben lontana dal produrre quella sensazione disgustosa che oggi per avventura pu? nascere in chi stia contemplando quel pensiero sublime, gigantesco, incomparabile del tempio, in mezzo alle tante incompatibili, dir?, sgrammaticature che gli stanno intorno.

Un altro edifizio poi concorreva col resto a far s? che la piazza si mostrasse allora con aspetto s? diverso da quel d'oggigiorno, ed era la chiesa di santa Tecla, l'antichissima ausiliaria del maggior tempio milanese, la quale gli sorgeva quasi di fronte e guardava colla facciata la strada Marzia che le si apriva rimpetto.

E quale all'epoca, a cui ci troviamo, presentavasi la piazza, si pu? anche dire si presentasse la citt?, su la cui faccia architettonica, parlando de' principali edif?zi, v'era un colorito di et? e di grandezza che presso noi ? al tutto scomparsa. Ad onore del vero si ha a dire bens? che immensamente ha guadagnato in quanto a comodo ed a pulitezza; e come potrebbe essere altrimenti? che scomparvero quelle vie bistorte, quelle fronti mostruose di case, gl'impuri angiporti, le corrompenti chiaviche, le lobbie, i cavalcavia, le bicocche, le impalcature che allora la deturpavano; ma con queste quante altre cose scomparvero! Quanto ha perduto in faccia all'arte, in faccia alla storia! A vederla com'? oggi, sembra in tutto una citt? surta da ieri; per conoscere la sua vita ? mestieri ricorrere al volume, n? per richiamarsi in mente le sue epoche memorabili non basta un colpo d'occhio che si getti su lei da qualche eminenza; tutto fu raschiato via, parrebbe a bell'apposta, dagli artistici pregiudizi, costringendola, direi quasi, a far la figura d'un patrizio, il cui nome per demeriti siasi voluto scancellare dal libro d'oro.

E almeno si fosse atterrate le vecchie cose incuriosi delle memorie venerabili che loro erano state commesse, per lasciar modo all'arte di tentar nuovi campi; e all'epoca nostra di vestirsi di forme tutte proprie. Ma le cose di un'antichit? a noi pi? vicina parvero incomportabili appunto, pel desiderio di riabilitare le linee di duemila anni fa.

Costui, a que' tempi assai lontano dal sospettare che l'immortalit? sarebbesi preso l'incomodo di prender nota del suo nome, e ch'egli trasportato dalla corrente degli anni, sarebbe disceso gi? gi? insino a noi in compagnia di molti illustri, non era allora cospicuo che per una insaziabile curiosit? di conoscere i fatti altrui, e una disposizione infaticabile a cicalare ed a fiscaleggiare il terzo e il quarto per raccogliere le notizie esatte di quanto avveniva in Milano. Tutte qualit? che ad un occhio avvezzo avrebbero potuto rivelare uno storico; ma inallora il suo genio se ne stava latente nell'involucro adiposo della sua bassa persona che egli aveva il costume di dondolare ogniqualvolta stesse a dare od a ricever parola da qualcheduno. La sua loquacit? poi veniva mantenuta ed accresciuta dall'utile che in linea commerciale egli ne traeva, giacch? i molti suoi avventori una volta che si ponessero a sedere alle tavole collocate ai lati della bottega, non sapevano staccarsene cos? facilmente, per la qual cosa allorquando, alla Torre de' Mercanti suonava la grossa campana delle quattro ore di notte egli si trovava aver vuotate molte pinte d'acetosella e d'acquavite, giacch? ? a sapersi ch'eran molti i generi di commercio che si vendevano in quella sua bottega, e alla vendita del frustagno, del bucherame e delle stringhe soprintendeva l'attempata sua moglie cui la natura era stata liberale come a lui, del dono invidiabile della parola.

Ritornato adunque che fu il Burigozzo alla sua bottega, intanto che si affannava a persuadere a quel suo preopinante che il colpo tentato contro la persona del marchese Palavicino non poteva venire che dalla Francia, fu improvvisamente interrotto dalle voci agre e sgarbate di alcuni soldati e da un caporale svizzero che s'eran gettati a sedere su d'una di quelle panche e volevano l'acquavite. Il Burigozzo tronc? allora a mezzo la parola che stava per uscirgli di bocca, e non lasci? che il caporale svizzero comandasse una seconda volta. Cos?, dopo avergli messa innanzi una panciuta damigiana, non fu contento finch? non ebbe fatta anche a lui la sua interrogazione.

--E cos?, caporale, non han gi? voluto che pi? vi stesse a dondolare, e presto si scalderanno ancora le vostre miccie contro i nemici che tornano a mostrarvi il viso.

--Si scalderanno e non si scalderanno, rispose il caporale; che cosa sai tu?

--So che i Francesi si son gi? fatti vedere a poche miglia da Milano... dunque....

--Dunque... io t'ho chiesto acquavite che raspi e s?dano che morda... e non m'hai dato n? una cosa n? altra... e queste che ho sotto i denti paion frasche di zucca... in quanto poi ai nemici che tu dici....

--Ci son forse novit??

--Novit??... Certo che ci potrebbero essere le novit?....

Qui messasi alla bocca la panciuta damigiana, e bevutone un cos? largo sorso come se fosse acqua:

--E a che ora si uscir? domani di citt?, caporale?

--Oggi per le ventiquattro abbiamo a trovarci in castello tutti quanti.

--Questo lo so.

--Se poi fioccheranno denari, domani, prima dell'alba, si uscir?.

--E se i denari non ci fossero?

--Si troveranno.

--Trovarli... ? presto detto. Ma io so che la cassa ducale ? stramenzita affatto.

--Non c'? altri che il duca forse?... Quel che il duca non sa fare, lo far? bene la citt?, e lo farete voi.... Non ? la prima volta. Intanto prenditi i tuoi due testimoni, che oggi o domani me li avrai a restituire in altro modo.

Qui il caporale si alz?, e con lui gli altri svizzeri, che volgendo uno sguardo sprezzatore a quel crocchio di persone per mezzo alle quali avevano a passare, si tolsero di l?. N? ad un attento osservatore sarebbe sfuggito con che mal'occhio li guardava dal canto suo la moltitudine, memore delle concussioni che il cardinale di Sion aveva insolentemente esercitate su tutti quanti i cittadini milanesi per pagare e satollare que' suoi Svizzeri affamati, ne' quali, dopo la vittoria di Novara, era la superbia cresciuta a dismisura, e verso i cittadini milanesi si comportavano come padroni, e peggio.

Il Burigozzo, come que' cinque furon partiti.

--E cos?, disse a chi gli stava intorno, siete capaci ora, che la storia della paga sia quale ve l'ho narrata io stesso stamattina? Mettetevi dunque in memoria che il Burigozzo non dice mai cosa in fallo.

--Sta a vedere che tu ne saprai pi? del Morone e del prete soldato....

--Io non so nulla; ma avete sentito... per? la storia della paga mi d? a pensare....

--Attendi a vendere il tuo bucherame e la tua acquavite, e non darti un pensiero al mondo di tutte queste cose, che gi? ? lo stesso....

Ma il Burigozzo non dava retta a queste parole, e continuava come parlando fra s?:

--Messer Bernardino Corio, che mi vuol bene e che si degna intrattenersi con me qualche volta, mi diceva un tal giorno, che codesta citt? nostra, la quale non ? ampia gran fatto, pure ha i suoi duecentomila e pi? cittadini.

--Adesso c'? la storia dei duecentomila.

--Sicuro il mio Carl'Ambrogio, c'?, e ci dev'essere anche la storia dei duecentomila, perch?, dico io, ? tal cosa che non fa molt'onore, che in tanto popolo non ci sia da mettere insieme quindici o venti migliaia di uomini... e questi Svizzeri che, a saziarli, ci vuole un bue per ogni quattro, rimandarli al loro Cantone, dove c'? la Cervogia e il formaggio di capra.

--Sin qui non pare che tu pensi male.

--E non ci sarebbe allora gran bisogno di paghe, e il duca non si troverebbe ora tanto allo stretto.

--In quanto a ci?, s'egli ? a s? duro punto, suo danno.

--Capisco cosa vuoi dire tu! Se l'eccellentissimo signor duca invece di regalare avesse venduto, non mancherebbero le paghe.

--Qui sta il punto, Burigozzo, e la tua storia dei duecentomila non ci ha a che fare gran fatto. Domando io se al Morone c'era bisogno di regalare la contea di Lecco, Vigevano al cardinale, la Ghiarra d'Adda al Lampugnano: terre che rendono pan d'oro e fiorini a staia... e so cosa dico!

--Manco roba, manco affanni, dice il proverbio, e pare che il duca l'abbia intesa cos?.

--Ma pur troppo non avr? ad intendere questo solo; e a questo re che se ne viene con tanta brava gente, e pi? bravo lui di tutti, come dicono, e non ha ventun'anni, converr? bene ch'ei dia luogo o si rechi in villeggiatura.

--Pure se quelli che contano in paese fosser tutti della tempra del Palavicino, e d'altri pochi, il duca non si troverebbe in cos? pericolose acque; ma no, tutti a rovescio, e l'altro d? il conte Besozzo e il Gabaloita e il marchese Birago e il Sacramoro e altri troppi se ne uscirono di citt?, e chi ? tra le stoppie e le pozzanghere ci pensi.... E davvero ch'io mi chiamo assai fortunato di vestir questo saio piuttosto che le vesti ducali, le quali in questo momento devono al certo bruciare le carni di chi le porta....

Qui s'interruppe, e con lui tacquero tutti quanti trovavansi sulla piazza. I muggiti dei leoni del serraglio ducale, espandendosi in quella del palazzo per tutta la piazza, avevano imposto quel generale silenzio. E tutte le teste involontariamente si volsero col?. All'orologio della Torre de' Mercanti suonavano le ventiquattro. Poco dopo scomparvero tutte le guardie dinanzi al palazzo del duca e tutte le porte si chiusero....

Rechiamoci ora a vedere se in questo momento le vesti ducali bruciassero davvero le carni di Massimiliano Sforza, come ha detto il Burigozzo.

CAPITOLO II

? una sala vastissima quella che ci si apre d'innanzi, nella quale l'eccedente sfarzo del lusso asiatico ? temperato alcun poco dall'eleganza e della squisita gentilezza del genio italiano. L'ampia soffitta non ? n? a v?lta, n? a travi. Una vetriera, divisa in mille scompartimenti di piccoli vetri circolari e a tanti colori quanto ne pu? dare un'artistica combinazione, l'attraversa e la ricopre tutta, lasciando libero il passaggio agli ultimi raggi del sole. I paramenti che ne vestono le pareti, nelle quali sono aperti sei grandissimi finestroni di stile gotico, son tutti di drappo d'oro riccio sovra riccio con ornamenti di vaghissimo lavoro. Il cornicione che la rigira ? tutto messo ad oro ed azzurro oltramarino, sul quale disposti in bell'ordine e in gran numero stanno ampi vasi di varie e preziosissime materie d'oro, d'argento, di pietra alabastrina, di porfido, di serpentino e di mille altre specie. A due terzi della sala, quasi a formarne una divisione, due cortine d'un ampio velone di drappo d'oro tutte chiuse fino a terra, sono fermati per molti anelli ad un arco di ricchissimo ornato che poggia ai capi sul medesimo cornicione, attraversando pel largo la sala. Le scene pi? molli e voluttuose della favola sono il soggetto dei dipinti che, chiusi in larghe cornici, stanno appesi, in bell'ordine, intorno intorno alle pareti. Qui un Endimione colla sua Diana, e Bacco appoggiato a sdrajo sulle ginocchia d'Arianna, l? una Leda coll'indivisibile suo cigno, e una Danae colla pioggia d'oro. Dirimpetto Orfeo ed Euridice, Ero e Leandro, Ercole e Dejanira. Ovunque quadretti d'ogni sorta; danze d'amori, Najadi nuotanti, ninfe ignude, scherzi voluttuosi di mille foggie; e in mezzo a codesto apparato artistico, su d'una tela molto pi? ampia delle altre, l'inevitabile giudizio di Paride. Da certi sfori praticati nel pavimento si mostrano, quasi a simulare una selva naturale, arbusti d'ogni maniera. Aranci, mirti, palme agitanti ventagli di verdura, roseti incoronati e larghe di candide foglie, aceri, tulipiferi, alcee, gelsomini d'Ischia, giacinti, viole, amaranti, che spandono un miscuglio di profumi. E su quei rami di quelli arboscelli, legati con crini sottili, svolazzano uccelletti d'ogni sorta, rosignuoli, capinere, pettirossi, rigogoli zufolanti, rondinelle gorgheggianti, palumbelle gementi, che diffondono suoni d'una graziosa e melanconica monotonia; se non che, di quando in quando, a coprire quei canti minuti della natura, dal di dietro dell'ampio velone si dilata un'armonia artificiale e pi? solenne. Le note di un organo da stanza.

A popolare quel luogo incantevole se ne stanno alcune in piedi, altre sedute, altre sdrajate, a due, a tre, a gruppi, tutte in atteggiamenti di una molle eleganza, molte leggiadre fanciulle incoronate di fiori, vestite di bianchi veli; e in mezzo a quelle fanciulle, tutto assorto in fantastiche contemplazioni sta adagiato su larghissimi cuscini di raso, un giovane avvolto in una magnifica roba di stoffa cilestre.

A guardare il suo volto, liscio e levigato come quello d'una fanciulla, si conosce che nessun forte pensiero, nessuna energica azione, nessuna passione profonda non ha mai agitata l'anima sua. Soltanto quel pallore abituale e senz'orma di vermiglio d? a divedere un'esistenza infiacchita dall'abuso dei piaceri e dalle tormentose irresoluzioni dell'anima. Da una tavola di tartaruga a fini ed eleganti intarsi egli prende di tratto in tratto a leggicchiare taluno dei molti libri che vi stanno dischiusi. C'? un Ovidio, un Catullo, alcuni canti del poema dell'Ariosto; e di quando in quando accostandosi alle labbra una conchiglia legata in oro va sorseggiando alcuna goccia d'un liquor forte e spiritoso. La fragranza dei fiori, lo spettacolo della voluttuosa bellezza, i suoni dell'organo gli popolano la mente di mille e svariate idee, di luccicanti fantasie, di trepide gioje, cui la virt? di quel fortissimo liquore, avendo in prima rese pi? acute, e pi? ardenti, le va ora agitando in vertiginosa danza, producendovi quell'ebbrezza luminosa che ? il paradiso di chi ha infiacchita la fibra e mobilissima l'immaginazione.

Vi hanno uomini temprati in modo, che riescono al tutto inetti a qualunque occupazione richieda uno sforzo della mente e della volont?. Le dolcezze e gli svagamenti della vita hanno tale attrattiva per costoro, e il dilungarsene un solo momento d? ad essi cos? incomportabile dolore, che hanno per bisogno indispensabile dell'esistenza, ci? che per altri ? semplice sollievo.

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