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Read Ebook: La montanara by Barrili Anton Giulio

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Ebook has 1208 lines and 57147 words, and 25 pages

--Care!--esclam? Gino atterrito.--Spiegatevi, in nome di Dio! ? un obbligo d'onore per voi.

--Che cosa?--ribatt? alteramente il vecchio Malatesti.--Vi verrebbe forse in mente di dare una lezione a me?

--Me ne guardi il cielo!--rispose Gino, tentando di disarmare suo padre con l'umilt? dell'accento.--Ma se i signori Guerri han da soffrire una persecuzione per colpa di un Malatesti, ? il capo di questa famiglia che deve soccorrerli. E voi, dicendomi tutto....

--Vi dir? per ora che quella ? la vostra camera;--interruppe il conte Jacopo.--Andate a riposarvi, o a meditare su ci? che vi tocca. Forse, anzi senza il forse, l'alleanza vostra coi Baldovini sar? pi? utile ai Guerri che non l'altra, sognata da questi montanari con noi.--

Gino s'avvide che non c'era pi? nulla da rispondere, pi? nulla da ottenere. E non ribatt? nemmeno, quantunque ne soffrisse acerbamente in cuor suo, l'offesa che si faceva in quel punto alla dignit? de' suoi ospiti. Si ritir?, mormorando un saluto, mentre il conte Jacopo si avviava dall'altro lato alla sua camera, duro, impettito, col collo rannicchiato e la maschera alta.

La triste notte di Gino Malatesti non si descrive. Furono pianti dirotti, furono disperazioni a cui non rec? tregua neppure il sonno, poich? lo accompagnavano dolorose visioni. Gino sogn? i Guerri in carcere, accusati di lesa maest?, e Fiordispina che tendeva a lui le braccia supplichevoli, implorando aiuto e protezione. A lui! Ma che poteva far egli? Andar l?, dove non poteva mandarlo neanche un comando di suo padre? Ahim?, s?, bisognava risolversi. Gino Malatesti, avvilito come gli ultimi della sua stirpe, si umiliava davanti alle potenti sirene, come essi si erano umiliati davanti ai duchi, ai tiranni d'ogni specie. La bionda sirena lo attirava, lo involgeva tutto in uno di que' suoi sguardi luminosi, e accanto a lei, consigliere della vilt?, sorrideva Emilio Landi.--S?, devi risolverti; saremo tutti per i tuoi Guerri; una nostra parola far? cessare ogni persecuzione contro di loro. Che cosa si domanda a te? Un monosillabo.--E il salotto allora diventava una chiesa; e, Dio mi perdoni, il sof? della marchesa Polissena si tramutava in altare. Una fanciulla vestita di bianco, bellissima invero, ma non lei, non Fiordispina, era al fianco di Gino. Il s? era richiesto; il s? era profferito; ma gli aveva bruciate le labbra, ed egli balzava indietro, fremendo. Lode al cielo, non era stato che un sogno. Ma la realt? era forse pi? lieta?

Tristi, odiose necessit? sociali! Il decoro di casa Malatesti voleva un sagrifizio da lui. Ah, il decoro di casa Malatesti, qual riso amaro gli chiamava alle labbra! Francava la spesa di mantenerlo, quel decoro, dopo che i suoi maggiori lo avevano trascinato nella polvere, sull'orma di tanti fortunati bricconi! Ma gi?, l'obbligo, la tradizione delle famiglie storiche!... S?, storiche oramai nella debolezza, non potute rinsanguare neanche dall'errore di qualche passione colpevole, tanto agli evitati mali dell'eredit? si sostituiscono vigorosi i pregiudizi, i costumi, i vizi dell'ambiente, nuove cause di decadenza, e pi? gravi!

Gino Malatesti la sentiva allora, l'oppressione dell'ambiente morale in cui era vissuto. Voleva uscirne, e la cappa di piombo si aggravava su lui, come la tetra v?lta del carcere Tulliano, sotto cui si era soffocati, assai prima di morire strozzati.

La luce del giorno lo colse, ancora tutto immerso e perduto in vani disegni. Il poveretto non sent? mai tanto come allora la inanit? degli sforzi di un uomo, quando tutto congiura contro di lui. L'accortezza che prevede... l'abilit? che riesce... tutte parole vuote di senso! L'uomo ha il suo fato. Unico rifugio la coscienza; unica libert? il soffrire.

La carrozza aspettava, e poco dopo, salutati i Pradini, si ripartiva per Modena. Il conte Jacopo era taciturno, ma calmo, come se nulla fosse avvenuto. La maschera si era rifatta umana, scegliendo per altro, fra tutte le espressioni possibili, quella del sorriso cortigiano. Era del resto l'espressione consueta del conte Jacopo, e Gino ne rimase ingannato.

--Padre mio,--os? dirgli, alle porte di Modena,--vi vedo pi? tranquillo... pi? buono con me...

--S?,--rispose il conte Jacopo,--nella fiducia che sarete buono anche voi, e obbedirete a vostro padre.

--Ma...--balbett? Gino.

--Non c'? ma che tenga: obbedire ? l'obbligo vostro, se volete riacquistare la benevolenza mia.

--Ve ne prego, ve ne scongiuro;--rispose Gino umilmente;--ditemi almeno dei signori Guerri.... Che pericolo li minaccia?

--La loro sorte non ? in mia mano.

--E di chi?--

Il vecchio Malatesti non rispose direttamente alla domanda incalzante di suo figlio. Tentenn? un poco la testa; poi lasci? cadere dall'alto, stanche e fredde, come una pioggia lenta d'autunno, queste poche parole:

--Vi ho gi? detto che io non ho nessun potere sul ministro. Fummo rivali nella grazia del principe, ed egli se ne ricorda.--

Poi sospir?, il conte Jacopo, ed aggiunse:

--Cos? si preparano, nella gelosia dei servitori, le cadute dei legittimi padroni.--

Ma queste filosofiche considerazioni non avevano che fare col triste caso di Gino Malatesti, e il nostro povero giovanotto lasci? cadere il discorso.

Oramai non aveva pi? speranza che in Giuseppe. Piccola speranza, in verit?, poich? da quel fidato servitore non c'era da aspettarsi aiuto. Ma quel brav'uomo sapeva le cose appuntino, e il sapere ci? che si trama contro di noi, contro gli amici nostri ? gi? un'arma nelle nostre mani, il principio e il fondamento di ogni difesa. Pochi minuti ancora, e lo avrebbe veduto, lo avrebbe interrogato, il suo fedel servitore. La carrozza era entrata in Modena, svoltava un angolo ben conosciuto, giungeva davanti al palazzo Malatesti, infilava il portone, per andarsi a fermare davanti alla scala padronale. Due servitori si presentarono allo sportello, ma uno di essi era il portiere, l'altro.... non era Giuseppe. Entrato in casa, Gino fu lungamente in bal?a della famiglia, abbracciato, guardato, interrogato, poi nuovamente abbracciato, come sempre avviene in simili casi. Soltanto un'ora dopo gli fu concesso di ritirarsi nella sua camera, per darsi la ripulita necessaria e mettersi in arnesi di citt?.

Finalmente! Era nel suo nido. Come lo avrebbe veduto volentieri, in ogni altra occasione! Ma allora, con tutte quelle tristezze, con tutte quelle curiosit? pungenti nell'anima, non guard?, non vide nulla. Cio?.... dico male; vide il campanello e suon? per chiamare il servitore.

E il servitore venne, ma non era Giuseppe.

--Ah, Silvestro, sei tu?--diss'egli, come per dissimulare sotto la cortesia del saluto un primo e naturalissimo gesto di dispiacere.--Puoi dirmi dov'? andato a ficcarsi il mio abito grigio! Sai? quello che ha i bottoni metallici.

--Illustrissimo, non ne so nulla;--rispose Silvestro.--Cercher? nell'armadio.

--Nell'armadio non c'?;--disse Gino.--In quei cassetti nemmeno. Chiamami Giuseppe; egli forse ne sapr? qualche cosa.--

Silvestro obbed?, e Gino respir? vedendolo andare cos? risolutamente. Aveva gi? incominciato a temere che gli avessero mandato via il suo fido Giuseppe.

Questi, da buon cospiratore, non si era mostrato molto premuroso, all'arrivo del padroncino, e infatti non era neanche venuto in anticamera. Bisogn? andarlo a cercare nella camera di servizio, dove se ne stava tutto intento alle opere del suo ministero. And?, chiamato, e fu felice d'incontrare per via il conte Jacopo, di esserne interrogato e di potergli rispondere:--vado dal signor conte Gino, che cerca un suo abito grigio e non lo trova.--

Le dimostrazioni furono brevi, tra Gino e il suo buon servitore. L'uscio della camera rimaneva aperto, qualcheduno poteva ad ogni momento passare di l?. Ma fingendo di rovistare nei cassetti, aprendo e chiudendo via via un mobile o l'altro, per cercar sempre un abito grigio che era stato ritrovato alla bella prima, Giuseppe ebbe tempo e modo di dire al padroncino tutto ci? che pi? gl'importava di sapere.

Gino fremette, udendo tutte quelle notizie, che gli dava a spizzico il suo fedel servitore.

--E la marchesa ha mano in tutto ci??--chiese egli, come Giuseppe ebbe finito il racconto.

--Ha avuto mano nella liberazione di Vossignoria;--rispose il servitore;--? naturale che fosse istruita del resto. A proposito, non deve dimenticare che la signora marchesa mi ha mandato l'altro giorno a chiamare.

--E perch??

--Ne giudichi Lei, illustrissimo. Mi ha chiesto se conoscevo i signori Guerri. <>--Io, scusi la mia indiscretezza, ho creduto subito ad un sentimento di gelosia. Ma non sapevo nulla di nulla, e mi fu facile dimostrarglielo, poich? avevo accompagnato Vossignoria fino a Pievepelago, e non potevo conoscere le persone ch'Ella aveva conosciute poi a Querciola, o nei dintorni di Querciola. Persuasa dalle mie risposte, la signora marchesa mi fece altre interrogazioni. Voleva sapere da me se Vossignoria mi avesse scritto qualche volta. Io stetti in guardia, e risposi di no. Non si sa mai, ho detto fra me. La signora marchesa ? donna, e potrebbe un giorno o l'altro lasciarsi sfuggire un segreto che al mio padrone importasse di non veder propalato. Ho fatto male?

--No, hai fatto benissimo;--rispose Gino, abbracciandolo.--Va, buon Giuseppe; parleremo meglio stasera.--

Ah, la signora marchesa voleva dunque conoscer tutto, per filo e per segno; sapere ci? che lo aveva trattenuto, ci? che gli aveva reso dolce il suo luogo di pena! Quella donna che per tanto tempo aveva mostrato di non darsi alcun pensiero dell'amico proscritto, quella donna che aveva lasciate senza risposta le sue lettere, che era passata da Fiumalbo, non curante di lui, superba, gloriosa di altre conquiste, quella donna aveva seguiti i suoi passi! Non gi? molto attentamente, n? giorno per giorno. Le sue erano notizie raccolte pi? tardi, e che ella cercava di completare, interrogando Giuseppe. Perci? allora soltanto ella si era ricordata dell'uomo che le aveva recata la lettera di Gino Malatesti!

La marchesa Polissena conosceva ancora l'episodio della fanciulla dei Guerri. Da chi poteva averlo risaputo? Dal ministro di Stato; era facile indovinarlo. Se la polizia ducale aveva avuto un referendario compiacente per la gita del Lago, niente di pi? facile e di pi? naturale che la relazione si fosse estesa dai particolari del fatto alle persone che ci avevano partecipato. E quali esagerazioni, in quel rapporto dello spione! Si parlava di discorsi, di evviva, di voti espressi per la caduta del governo ducale! Evidentemente il referendario non aveva cognizione diretta delle cose; scriveva d'udita, e le scarse notizie di un imprudente famiglio dei Guerri diventavano sotto quella penna assassina un vero atto di accusa. Non avviene sempre cos?, nell'esercizio di quel brutto mestiere? La spia vuol farsi un merito delle rivelazioni, e vi aggiunge sempre molto del suo.

Cos? il conte Gino ricomponeva nella sua mente ogni cosa, ricostruiva il fatto che doveva cagionargli tante angosce e tanti terrori. In quella ricostruzione mentale, vedeva anche il suo dolce segreto conosciuto dalla marchesa Polissena, fors'anche dal conte Jacopo, prima che egli fosse di ritorno a Modena, con la speranza di persuadere suo padre. Della marchesa, in ogni altro momento, gli sarebbe importato poco. Non era sicuramente la gelosia che la rendesse curiosa, ed egli oramai ne sapeva il contrario. Pure, mettendo da parte il sospetto della gelosia, il guaio non era che pi? grande per lui. Polissena, volendo dare la sua figliuola ad un Malatesti, conosceva il segreto di lui: e Gino e i Guerri, pur troppo, erano in bal?a di quella donna, poich? ella conosceva il ministro e lo muoveva a sua posta. Come dubitare del poter suo, se ella aveva ottenuto il perdono di lui, proprio allora che per il rapporto della spia sarebbe stato il caso di aggravargli la pena?

Ma allora?... Il perdono per lui, e un'inchiesta per gli altri. Tutti i ragionamenti, tutte le meditazioni di Gino venivano a quel punto. E allora gli si affacci? alla mente quella figura di commissario, tutto dolce e carezzevole, che davanti a lui aveva nascoste le unghie e fatte le fusa. Forse a quell'ora, mentre Gino ricordava la faccia patibolare e gli atti umili del signor commissario, l'inchiesta contro i Guerri era gi? incominciata; il signor Francesco, il signor Orlando, il povero Don Pietro Toschi, Aminta, suo fratello Aminta, erano gi? stati chiamati alla presenza del Minosse ducale. E non potevano esser gi? incarcerati? Dio santo! Un brivido corse per tutti i nervi del povero Gino. Ma no, non era possibile che si giungesse di primo colpo fin l?. Il commissario non aveva che un applicato con s?; niente sgherri, niente apparato di forze. Si trattava di una semplice visita, di qualche interrogatorio abilmente condotto, per sincerare i fatti, e non altro per allora, non altro. Il peggio, sicuramente, sarebbe venuto poi; fors'anche presto, fra due o tre giorni, quanti bastavano per andare e tornare. Comunque fosse, non c'era tempo da perdere.

Quella sera, il conte Gino Malatesti, che aveva mostrato a suo padre tanta ripugnanza contro le visite, il conte Gino Malatesti and? al palazzo Baldovini. Non era giorno di conversazione. Meglio cos?.

Una inchiesta misteriosa.

Voi combattevate, o Gino, e la fanciulla dei Guerri pregava. Cos?, sui portali marmorei delle nostre citt? di Liguria, l'arte medievale ha raffigurato il virtuosissimo barone San Giorgio, che spinge il destriero a galoppo e calpesta il drago arrovesciato, ficcandogli la punta della sua lancia nella gola spalancata, mentre sul ciglio di un sasso una giovine principessa inginocchiata, a mani giunte, implora la vittoria del suo campione dalla clemenza di Dio.

Tra l'antica rappresentazione e il caso presente correvano per altro due differenze. Gino Malatesti non aveva ancora piantata la lancia nella gola del drago, e Fiordispina, anche pregando con tutto il fervore dell'anima sua, non aveva l'aria di guardare ad altro, come la principessa di Cappadocia. Fiordispina teneva gli occhi rivolti a Fiumalbo, a quella lunga fila di monti e colline che separavano il Cimone dalla pianura modenese. Di l? aspettava oramai la luce degli occhi suoi, la vita del suo cuore: pregando il cielo, confidava anche nel suo Gino, e discacciava come indegni di lui, del suo carattere, della sua lealt?, i neri presentimenti che venivano ad assalirla.

Intanto a Fiumalbo s'incominciava a discorrere, a far castelli in aria, sulla presenza di quei due impiegati del governo ducale. Si era creduto a tutta prima che fossero due ingegneri, venuti a studiare per la costruzione di un ponte, gi? tante volte domandato e mai ottenuto, scambio di quello di legno che ogni piena un po' grossa abbatteva, e che i Guerri, buona gente, rifacevano sempre a spese loro. Il sindaco Cervarola, interrogato dagli anziani del paese, non diceva n? di s? n? di no; ma era molto pensieroso, il brav'uomo, pi? pensieroso del solito, e pareva che gli pesasse la carica. Al signor Aminta, che gli chiedeva anch'egli notizie, il signor sindaco aveva risposto:

--Che ne so io? Vogliono saper tante cose! Ora vi sembra che mirino di qua, ora sembra che guardino di l?. Mi ? passato per la testa che vogliano fare un censimento nuovo delle famiglie.

--Un censimento! Che diavolo? Ma se ? stato fatto da poco!

--Che cosa ho da dirvi io?--Fors'anche un nuovo catasto. Vogliono poi tante cose! Chi ? il tale, chi ? il tal altro, che mestiere fa, dove abita, dove si pu? vederlo.... Ieri, per esempio, mi hanno domandato anche di Pellegrino Menghi, che ? il vostro servitore, e di Lorenzo Tamaroni, il vostro caposquadra alle Serre.

--Due uomini,--borbott? il Guerri, facendo una spallata,--che non hanno niente a vedere con la giustizia.--

Cos? erano rimasti, sapendone meno di prima, e sospettando ogni cosa. Ma il giorno seguente nuove voci si sparsero in paese. I due ufficiali del governo andavano di qua e di l?, prendendo lingua da tutti i casolari, chiedendo cose di nessun conto; per altro, qualcheduno era anche chiamato alla loro presenza, nelle stanze della casa comunale. Di che si fosse parlato non si poteva sapere, perch? i chiamati all'interrogatorio non volevano appagare la curiosit? degli amici, e neanche delle loro famiglie. Avevano paura, e si eran cucita la bocca.

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