Read Ebook: Rafaella by Pellico Silvio
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Ebook has 509 lines and 60046 words, and 11 pages
RAFAELLA
ROMANZO POSTUMO DI SILVIO PELLICO
MILANO GIOVANNI GNOCCHI EDITORE 1879.
RAFAELLA
ROMANZO POSTUMO DI SILVIO PELLICO
Nell'anno 1160 vivea in Saluzzo un arimanno per nome Berardo della Quercia, il quale godea da lungo tempo tal grazia del suo signore, Marchese Manfredo, che sarebbe quasi potuta dirsi amicizia. Berardo, sfuggendo gli onori della corte e stando ordinariamente nei suoi campi, venia visitato dal Marchese e consultato sopra molti capi del suo governo: tanto era noto il retto animo ed il senno di quel buon suddito, per nobili prove ch'egli spesso ne avea date; e tanto a far pregiare simili doti giovava la sua singolare modestia.
Giunse fino ai principii della vecchiaia senza patire gravi sciagure; ma egli avea partecipato alle altrui, come se fossero sue, e quindi il cuore non gli si era indurato dalla prosperit?. Giovanna sua moglie, di nascita egualmente umile, ma di spiriti gentili, avealo fatto padre di pi? figliuoli. Due soli rimaneano, Eriberto e Rafaella; quello in et? di oltre vent'anni e questa di sedici. Gli altri erano stati mietuti dalle guerre di Cuneo; villaggio allora di poco antica fondazione, ma che gi? prendeva aspetto di citt?, e tutto composto di ardimentosi, che voleano vivere a popolo, a guisa di Asti e di altre citt? italiane.
Il favore del Marchese non redimeva Berardo dal poco pregio, in cui il pi? de' Baroni, in cuor loro, teneanlo; perch? semplice arimanno; ed era anzi cagione che alcuni lo abborrissero.
Fra questi annoveravasi Villigiso, signore di Mozzatorre, uomo prode, ma d'anima abbietta; il quale abborriva Berardo particolarmente, perch? questi l'aveva fatto stare a segno, alcuni anni addietro, quando, trovandosi entrambi ad una festa di nozze campestri, Villigiso s'era arrogata una famigliarit? insolente colla sposa. Il marito erasi adirato e Villigiso l'avea percosso. Dove Berardo, non solo difese arditamente que' contadini e costrinse il temerario a ritirarsi; ma accusati quelli da Villigiso, Berardo sostenne la loro innocenza, e fu cagione che Manfredo pubblicasse una legge che tutelava sotto gravi pene, i matrimonii de' villici contro l'audacia de' Baroni. Dopo alcun tempo di lontananza dalla corte di Saluzzo, Villigiso fu rimesso in grazia; e bench? trattando poi con Berardo, mostrasse di non serbar memoria dello smacco ricevuto e desse anzi vista di condannare i proprii torti della giovent?, pure segretamente abborrivalo e meditava vendetta.
Per mala ventura accadde, che il segretario di Villigiso, frugando in carte dimenticate da molti anni, trov? un documento, il quale indicava che Berardo della Quercia avea avuto per avo un servo del barone. Notavasi che questo servo era fuggito nella giovent?, avendo un bambino chiamato Iseppo; il quale, per testimonianza di molti, preso il mestiere dell'armi, era ito a combattere pel sepolcro del Salvatore. Il segretario poi si ricord? d'avere inteso dire che Berardo fosse figliuolo d'un crociato, posatosi gi? vecchio in Saluzzo. Prese maggiori informazioni, ed accortosi del fatto, il segretario di? di ogni cosa contezza al barone.
Come prima questi vide il documento ed ebbe esaminate le prove, che poteansi avere dell'identit? del servo fuggito e dell'avo di Berardo, egli tenne per fermo il suo trionfo di prostrare a' suoi piedi quest'infelice con tutta la sua famiglia. Mosse dunque con questo intento a Saluzzo, e palesati i suoi diritti al Marchese, dimand? giuridicamente il nipote del servo fuggito.
Manfredo era scrupoloso osservatore della giustizia, e non l'avrebbe violata se anche si fosse trattato del proprio figlio. Egli fece venire Berardo in giudizio e mostrogli il documento e le testimonianze, questi confess? d'avere avuto per padre il crociato Iseppo; di che egli fu posto in bal?a di Villigiso. Secondo le leggi di quei tempi, chi usurpava la libert? o godea libert? usurpata da' suoi maggiori, era quasi reo d'un furto, e niun potente, senza acquistar fama di tiranno, avrebbe potuto sottrarlo al dominio del padrone che lo richiedesse. La scoperta di tali usurpazioni di libert? non era avvenimento raro e se ne leggono parecchi esempii nella storia di quei tempi. I servi fuggiti ripatriavano talvolta in vecchiaia, attratti dall'amore del luogo natio, o dopo di loro ripatriavano i figliuoli, con fiducia d'impunit? che non era sempre irragionevole. Giacch? dove trattasi di cose o persone non illustri, pochi traslocamenti, pochi intervalli, poche vicende oscure, sfuggite all'occhio altrui, bastano spesso a fare smarrire la cognizione dell'origine e a farne attribuire una diversa dalla vera. Tali ragionamenti avevano ispirato fiducia al crociato Iseppo: e la fiducia doveva essere naturalmente ancor maggiore in Berardo.
Ecco dunque un'onesta famiglia caduta nell'obbrobrio! Ma se Manfredo, per non ledere il diritto del barone suo vassallo, avesse abbandonato l'uomo che egli onorava ed al quale era avvinto da gravi debiti di gratitudine sarebbe stato un mostro; e tale non era. In Saluzzo, nel suo territorio, ne' vicini marchesati, non sussurravasi pi? d'altro che dell'infelice sorte di Berardo. Il volgo che, durante la sua prosperit?, non ristava dall'invidia e lo malignava, ora non ricordavasi pi? se non delle sue virt? e lo compiangea. Di che ai mercati di Saluzzo affluiva gente dai luoghi vicini e lontani, non tanto per comperare e vendere quanto per udire se le sventure di Berardo non avessero qualche riparo.
Brulicava di popolo, in uno di tai giorni, la piazza di Saluzzo, e si udivano da ogni lato frapporsi al grido del prezzo delle merci e alle altre voci di mercato i nomi di Berardo, di Giovanna, di Rafaella, d'Eriberto. Centinaia d'oratori di eguale facondia e tutti poco informati declamavano senza gran fatto sentirsi a vicenda, trasformavano i desiderii e i presentimenti in realt?, narravano stravaganze, che nulla avevano che fare con quel fatto, fuorch? nutrire l'universale cordoglio. Questi veniva contradetto da quello, contendevano, s'ingiuriavano, ed invocavano per testimonio chi il vicino, che nulla non sapea di meglio, chi l'astrologo che disceso con gravit? dal banco, s'offriva di dar lume alle parti altercanti. Gl'interrogati decidevano la questione con nuove congetture e nuove favole, rimanendo ognuno sempre pi? all'oscuro di quanto tutti bramavano sapere.
--Berardo ? di schiatta libera quanto la mia ; e lo calunnia atrocemente chi lo vuole d'origine vile. Io conobbi suo padre quando torn? di Terra Santa; il nostro marchese Bonifacio, di gloriosa memoria, ve l'avea mandato fra gli arimanni capitanati da suo fratello.
--Ed io non dissi essere stato lui ciurma di schiavi ; bens? che Berardo non sarebbe stato giudicato servo di Villigiso, se ci? non fosse ben provato.
--Provato un fico! vi dico io. Il Marchese ? uomo; e quantunque savio come suo padre potrebb'essere ingannato.
--S?! ingannato! Eh! che non si pu? errare, quando non si tratta di niente pi? in l? dell'avo di un cristiano. ? vero che il crociato gener? qui nella vecchiaia il povero Berardo, e che il crociato era pur nato di padre vecchio; ? vero che questi era fuggito nell'infanzia e che lo avevano creduto affogato nel Chiusone o nel Pollice, e che niuno ponea pi? mente a quella schiatta di servi. Ma quando il diavolo disseppellisce carte, che per disgrazia, serbano memorie in forza delle quali una famiglia onesta dee precipitare nella sventura, e quando l'infallibilit? di quelle carte ? accertata dai dottori, chi pu? dubitare del giudizio che ne viene pronunciato?
--Chi pu? dubitarne? Io! io che so quai brutti giuochi facciano talora, non so s'abbia a dire le apparenze, o il diavolo! I registri delle famiglie de' servi non si possono inventare, lo riconosco; e la pergamena dissotterrata sar? bella e buona per mostrare quali antenati abbia avuti il servo che s'affog?, o fugg?. Ma niuna pergamena palesa se quel servo sia piuttosto fuggito che affogato. Si acquistasse pure certezza della sua fuga, quasi un secolo dopo, allorch? i vermi avrebbero potuto mangiarlo venti volte; come volete che si dimostrino i viaggi da lui fatti, e si sappia che un tale, il quale anco ? cenere da gran tempo, era suo figlio?
Sebbene questi e simili discorsi mostrassero la libert? del popolo nel discorrere del suo principe; non v'era per? germe d'odio contro di lui, n? la minima diffidenza della sua equit?: giacch? il marchesato riposava fedelmente nell'abitudine dell'obbedienza. Per quanto i mercati fossero romorosi e vi s'agitassero diversi contrarii pareri, niuna ombra ne prendeva il governante, niun notevole scandalo ne sorgeva nei governati. Pochi birri moveano su e gi? per la piazza, non solleciti di far badare alla loro presenza, se non quando avvenissero gare di bastoni e di coltelli o si gridasse: al ladro!
Infatti, mentre fervea la multiplice conversazione accennata, ecco un suono di tromba sotto il portico doppio, e tutti volgersi rispettosi a quella parte. Un banditore facea sventolare la bandiera marchionale per intimare silenzio; e gi? niuno pi? zittiva. Torn? a sonare la tromba prolungamente, e tutti giubilarono, perocch? quel segno annunziava la discesa del Sire dal castello e qualche provvedimento che egli venisse a dare al cospetto del popolo.
Il portico doppio era un palazzo presentante due ordini d'arcate l'una sull'altra. Giunti dal castello il Marchese, la Marchesa, il loro figlio e numerosa comitiva, salirono sull'arcata superiore, e s'assisero nei proprii seggi, a vista di tutto il popolo. Qual fu la generale maraviglia quando, dopo aver fissato gli occhi sui personaggi seduti, si pot? discernere, in un folto gruppo d'uomini e donne del seguito che stavano in piedi l'infelice Berardo, la moglie ed i figli.
--Come lass?? che vuolsi far di loro? Guardatelo l? quel valentuomo! non umile pi? di prima, perch? era gi? tanto! non vergognoso, perch? e qual colpa ha egli commessa? non corrucciato, perch? chi mai am? al pari di lui il prossimo, compresi i nemici? E la buona Giovanna! E quell'angelica creatura di Rafaella? Ed Eriberto?
Queste ed altre esclamazioni, levatesi a un tratto da tanti petti, suonarono per l'aria, con quella specie di vibrazione che, agli orecchi degli uomini esperti di tali scene, indica animi commossi da affetti penosi, ma benevoli. Perocch? i bisbigli della moltitudine, sebbene composti di sillabe indistinte, hanno come la voce d'una persona individua, diversi caratteri, secondo la diversa passione che li suscita. Berardo cap?; e lev? gli occhi al Cielo. Le due donne capirono parimente, e nulla espressero all'altrui guardo, ma sotto i loro veli una segreta lagrima accompagn? l'atto di grazie che offrivano a Dio.
Il banditore ripigli? la tromba, e fe' di nuovo il cenno del silenzio. Allora Guglielmo di Manta, notaio del palazzo, s'accost? alla ringhiera con ampia carta in mano e lesse in quel grossissimo latino, che allora tutti intendevano, quanto segue:
< --Dalla confessione di Berardo medesimo! mormor? il popolo, con istupore e piet?. Il notaio, udendo quel romore agit? in aria la carta; il banditore ripet? il cenno, e la piazza torn? ad ammutolire. Ma troppo molesto sarebbe al lettore l'udire tutto intero il capolavoro di Guglielmo di Manta. Que' che l'udirono dalla sua bocca erano pi? pazienti di noi; e nondimeno lo interruppero tratto tratto con sbadigli, per isfogare cos? l'ingenito bisogno di variet? che ? nell'uomo. In quel documento diceasi dunque che Berardo e tutta la sua famiglia, essendo servi del Sire Villigiso di Mozzatorre, questi era stato richiesto dal Marchese di venderglieli, e che l'accordo era seguito, mediante la cessione che Manfredo facea a Villigiso d'alcuni campi e di parecchi diritti colla giunta della somma di trecento genuine. Finita la lettura, il Marchese discese dal seggio per firmare l'istromento, Berardo poi, con tutta la sua famiglia, essendosi avanzato per onorarlo, quegli non permise la genuflessione e li condusse verso la Marchesa, la quale alzatasi abbracci? amorevolmente le due donne. Laus et honor Manfrido de Vasto, Filio quondam Bonifacii; Che vuol leve sul popolo il basto. Onde portans Domnum carum Trotti e ragghi di gioia e d'amor. Quoniam, quando il bastone ed il basto Cruciant pellem, Cruciant ossa, L'infelice dall'omero guasto Male ragghiat, Malo trottat, E il bussante rovescia talor. Intanto che il rozzo inno dilettava o assordava gli orecchi, il drappello signorile con tutto il seguito cal? al basso, e con istento avviossi alla chiesa di S. Chiaffredo, fendendo a mala pena la calca. Entrati tutti in chiesa, e locatisi nei banchi, usc? un Sacerdote a celebrar Messa. Il Vangelo dicea la guarigione dell'infermo che non potea gettarsi nell'acqua salutare di Betsaida, quando l'Angelo del Signore scendea ad agitarla. Voltosi allora il Sacerdote agli astanti predic?: < Terminata la Messa, Manfredo conferm? dinanzi all'altare le manumissioni de' servi, in questo modo. Li fece passare dalla mano di Villigiso a quella d'altr'uomo libero e dalla mano di questo a quella d'un terzo, poi dalla mano d'un terzo alla propria. Egli condusse allora la graziata famiglia alla porta della chiesa, e disse, accennando le diverse vie della piazza: < Non occorre che descriviamo la rabbia di Villigiso. Straniero ad ogni generosit?, non previde che il marchese gli avrebbe chiesto in grazia la vendita de' servi, affine di manometterli. Ora questa richiesta gli era stata fatta in presenza di dame e di cavalieri, al cui parere, egli ricusandola, sarebbe stato villano, inoltre, come vassallo ch'egli era bisognoso di protezione, niuna onorevole proposta del suo signore avrebbe avuto ardire di respingere. Splendido convito fu dato nel castello per s? lieto avvenimento: le sale erano addobbate di magnifici arazzi e di serti di fiori. Ma la sala delle mense era decorata specialmente di un fregio carissimo in que' secoli guerrieri, cio? di copiosa collezione d'armi parte acquistate in antiche o recenti vittorie, parte comperate per lusso. Ad ogni desco due sole persone sedeano, e ciascuna di queste coppie era servita da un siniscalco e da un paggetto riccamente vestiti. Il primo desco era quello del principe e della signora; il secondo era quello del loro figlio con una zia, seguivano i rimanenti zii, e zie, poi altri maggiori personaggi, infine Berardo e Giovanna, Eriberto e Rafaella. In altra desinavano parecchi ufficiali del castello; ed ivi traevano a reficiarsi i trovadori e i giocolieri negl'intervalli, in che alternamente ristavano dal trastullare il festino signorile con suoni e canti e mirabili destrezze d'ogni sorta. Ai deschi illustri regnava quella spontanea famigliarit? che facilmente si genera fra pari, e fra i nobili e signori era allora condita d'eleganza pi? poetica che non fra i volgari. I poco esperti, come Eriberto e Rafaella, stupivano il bello di tali maniere, e s'abbandonavano, con silenzioso compiacimento, a considerarlo e gustarlo. Anche si maravigliavano di certa indefinibile dissonanza, che appariva ogni volta che i cavalieri e le dame volgeano la cortese parola agli ultimi due deschi. La parola era cortese; parea la medesima cortesia che usavano dame e cavalieri fra loro; eppure non era. Ma Berardo non istupiva gran fatto n? al poetico, n? al dissonante delle due cortesie; le quali egli conoscea da lungo tempo. Mentre con disinvolta riverenza rispondea alle graziose proposte de' maggiori, o con affetto coniugale e paterno rallegrava i tre volti a lui pi? cari, nascondea il cruccio che prova ogni uomo irreprensibile e veggente ne' cuori umani, che sa di essere odiato e sprezzato ne' giudizi secreti di pi? d'uno che gli sorride. N? ignorava come i cosiffatti avessero approffittato de' suoi giorni d'umiliazione per deprimerlo proditoriamente con vili calunnie. Finito il pranzo, le mense furono tolte e nella medesima sala, che era la pi? grande del castello, uno stuolo di gente travestita rappresent? con gesto e cant? un'istoria non meno commovente che amena, nella quale si voleva alludere da lontano alla superata sventura di Berardo; ma volendo meglio salvare ogni decenza, il personaggio che ritraevalo significava un giovane longobardo, fatto prigione da' soldati del glorioso re Carlomagno. Supponevasi che molte menzogne fossero state scagliate da' maligni contro l'infelice; il quale non essendogli dato rintuzzarle, dal fondo del suo carcere cantava, in altre parole, questo lamento. Cadde sopra il mio capo una sventura. E il suo nome era: Fulmin di Regnante E anni di ferro in atra sepoltura. Ed io non dissi il flagel tuo pesante Pi? che non merto; e il verme lacerato Baci? l'impronta di tue sacre piante. Ma un altro ne scagliasti; e fu chiamato Stral di calunnia, e allor, gran Dio, perdona, Se di te querelossi il dementato. Ed esclamai:--Non ? Dio che tuona Su dalle sfere? E come va, gridai, Ch'Ei vede il giusto oppresso, e l'abbandona!-- Empio era il grido; ma crudele assai Pi? di carcere e morte ? la ferita Ch'ultima venne, e se mertata, il sai. Dato preda a carnefici, ogni aita Volsi dell'intelletto, onde immolata Non fosse con la mia d'altri la vita: E fra tutte una! E a questa era legata L'anima mia con quanti dolci nodi Amist? far potesse invi?lata. Se mai speranze, se promesse o frodi Corruppero il mio cuore, al porto eterno Ch'io mai della salute non approdi! Or qual fu quello spirito d'inferno Che, a miei d? pi? incolpati invidiando, Sacri all'odio li volle ed allo scherno? E per quale incantesimo esecrando Color, che gi? m'amaro, all'empia voce Gentilezza e pudor misero in bando, E sitibondi alla calunnia atroce Posero il labbro, e poich? furono empiuti, La riversar con ebbrezza feroce? Spietati! e non doveano incerti e muti Almeno starsi, o chiedere ove indici Fossersi in me di codardia veduti? E i giorni miei pi? lieti e pi? infelici Risposto avriano:--Ei non fu mai codardo!-- N? smentirli poteano i miei nemici. Or chi lo stigma rader? bugiardo, Onde al mondo segnato ? il nome mio? Chi mi svelle dal cor l'infame dardo? Ah! dalle nubi odo risponder:--Io!-- Ma quando, o sommo giudice? Deh, affretta, S? che a me pi? non maledica il pio; E l'amico fuggito alla vendetta Dell'aspro fato, e i figli a lui rapiti Sappian qual di me son parte diletta; E il padre mio e la madre, incanutiti Per me nel pianto, alzin la fronte ancora; Ch? i lor capei non fur da me avviliti N? il saran mai, per quanto oppresso io mora. I versi erano in qualche armonia co' pensieri di Berardo; sebbene diverse dalle calunnie, che corrucciavano il giovane Longobardo, fossero quelle che egli sentia pesare sopra di s?. Villigiso se n'accorse; perocch? vide gli occhi di Berardo ardere di magnanimo sdegno, mirando parecchi de' circostanti, e pi? se medesimo; e quelle occhiate lo conturbavano e gli crescevano l'odio. La rappresentazione mostr? poscia il giovane, uscito di carcere e ritornato fra' suoi cari, ove, dimenticate le offese de' maledici, cant? un inno di consolazione. Tutta la favola piacque assaissimo, particolarmente alle donne, delle quali la pi? intenerita era Rafaella. Ma la sua commozione nasceva dalle tristi peripezie del finto Longobardo, o dal fascino che spargeasi dall'arpa, dalla voce e dal ciglio del trovadore, che vestia quella parte? Sua madre la mir? e impallid?. Anche il padre ed il fratello la mirarono, ma nulla scorsero: ch? solo a pupille di madre non isfuggono i segreti delle dilette figliuole. La brigata finalmente si sciolse. Tutte le balze e le valli saluzzesi si rallegrarono per due giorni della buona sorte di Berardo, per ricominciare al terzo ad eccheggiare di nuovo delle inevitabili mormorazioni dell'invidia, che non perdona ad alcun felice. Non fu lunga la felicit? di Berardo. I Milanesi erano in aspra guerra coll'Imperatore Federico I, detto Barbarossa, il quale avea deliberato di toglier loro le franchigie, che due anni prima egli stesso avea riconosciute per legittime. Alcune citt? lombarde parteggiarono per Milano; ma altre, per antica rivalit?, e la maggior parte dei principi per debito di vassallaggio, tenevano per Federico: il quale, insofferente d'ogni opposizione e feroce per natura, dappertutto recava terrore ed esterminio. Gi? col ferro e col fuoco avea distrutto dalle fondamenta nobilissimi borghi ed intere citt?, come Chieri, Asti e Tortona: e vago di compiere in breve l'impresa, non cessava di chiedere forti schiere a tutti i suoi feudatarii di Germania e d'Italia. Di che il marchese Manfredo desideroso di dare all'Imperatore valorosi soldati, e vago di rimunerare il valore che Eriberto avea mostrato contro Cuneo, inviollo in quella circostanza, capitano d'una squadra, al campo cesareo. Ma la partenza d'Eriberto fu cagione d'assai lagrime a' genitori e alla sorella: la quale piangendo per la partenza del fratello tremava pur molto per la vita d'un altro. Questo era Ottolino, quel trovadore che rappresent? s? bene la parte del Longobardo. Ottolino figlio d'un guerriero oscuro di nascita, ma prode e amico gi? di Berardo, era amicissimo di Eriberto: ed educato come lui, nel monastero di Staffarda dall'egregio Abate Guglielmo. Da lui egli aveva imparato non solo a leggere e scrivere, due scienze rare in quel secolo, ma ad intendere ancora il latino dei libri sacri, dalla lettura dei quali avea ricavata un'idea elevatissima de' doveri dell'uomo verso Dio e verso il prossimo; il che conciliavagli la stima degli uomini gravi. Avea inoltre imparato a sonare, cantare e poetare con grazia inimitabile, il che lo rendeva amabile a tutti e gratissimo nei ritrovi. Nelle feste della Regina degli Angioli Ottolino componeva a suo onore inni divoti; a Natale poetava, per la cara scena del presepio, le cantiche pastorali: nella settimana santa cantava le lamentazioni, ed a Pasqua gli alleluia, di che i monaci di Staffarda attribuivano s? bell'ingegno ad un favore particolare di S. Cecilia, protettrice de' bei suoni e de' bei canti. Ai suoni gravi dell'organo Ottolino cominci? poi ad accoppiare le dolci armonie dell'arpa: e spesso nella selva cantava le sciagure de' cavalieri; il che alcuni dei monaci poco approvavano, dubitando forte che S. Cecilia si curasse molto di ispirare tali poesie. Ma non si scandalizzava gi? l'Abate che ben conosceva il suo discepolo. Severissimo verso se stesso, egli era indulgente ad altrui e specialmente ai giovinetti, purch? non ne scorgesse malvagia la volont?. Permetteva perci? ad Ottolino le canzoni cavalleresche: e sebbene i luoghi della selva, nei quali il giovane pi? amava d'arpeggiare, fossero i pi? cupi e quelli che aveano fama d'essere incantati, non gli vietava di frequentarli, e raccomandavagli di guardarsi dai ladri. Uscito Ottolino, gi? da due anni, dal monastero, avea combattuto valorosamente contro Cuneo. Suo padre, spirando carico di ferite fra le sue braccia, gli avea consegnato il proprio ferro e dettegli questo parole: < Rafaella ammiravane in cuor suo la bont? e il valore ed affliggeasi di tutti i suoi pericoli; ma quando Ottolino mosse non pi? ai vicini campi di Cuneo, ma a guerra lontana e pi? tremenda, fu presa di sommo affanno. Se non che mentre ella piangea questa sciagura, un'altra maggiore le sovrastava. Giacch? il sire di Mozzatorre struggeasi di vendicarsi di Berardo, e pensando che pi? crudele pena non potea cagionargli che coll'offenderlo nella figliuola, pens? di rapirla; ma rapirla in guisa che si perdesse la sua traccia, e i sospetti non potessero cadere sopra di lui. Meditate parecchie guise, scelse alfine la pi? malvagia: per le selve e pei monti circostanti viveano sparse fiere bande di ladroni, contro le quali s'erano spesse volte collegati indarno i cavalieri pi? generosi del vicinato. Vendeano essi l'opera, ogni volta che ne veniano richiesti dai baroni che senza parere voleano eseguire qualche iniquo fatto. La banda poi era composta per lo pi? di servi fuggiti dai padroni e d'avanzi di Saracini. Villigiso dunque ne assold? alcuni a lui noti come pi? audaci e destri, e commise loro che, scesi sulle rive del Po, ai campi di Berardo, ne incendiassero di notte tempo la casa, e ne rapissero la figliuola in mezzo all'agitazione ed al tumulto. La cosa era pur troppo facile. Giacch? le abitazioni, in quel secolo, ne' contadi e nelle piccole citt? non solevano essere se non tugurii di legno, consolidati al pi? da pilastri di mattoni ai quattro angoli dell'edifizio. Le foreste poi si stendevano s? ampiamente, che il legno non costava quasi altro che la fatica di tagliarlo. Non ? adunque a maravigliare che si preferisse per le abitazioni il legno ai mattoni ed alle pietre. Di legno era pure la casa di Berardo, sebbene uomo agiato, amato dal principe, ed influente nel governo del paese. Simile quasi a quegli antichi magistrati romani, che reggeano la repubblica e viveano ignari di lusso in umile tetto, poco diverso da quello dei loro servi. Stavano una sera raccolti in immenso stanzone Berardo, Giovanna, Rafaella e parecchi famigli maschi e femmine. Una lampada pendeva da nera trave nel mezzo; un'altra illuminava l'uno degli angoli; e l? sedeano le donne filando, e favoleggiando di paladini e di fate. Gli uomini passeggiando parlavano dei lavori di quel giorno e di quelli del dimani. In un subito tutti sono scossi da un grido improvviso: una parte della casa avvampava. Tutti volano al soccorso: ma le cure non giovano. Un fiero vento dilata le fiamme: giacch? i ladroni aveano appunto scelta quell'ora per profittare del vento. Porre in salvo il grano e le suppellettili e al pi? qualche parte dell'edificio, ? tutto ci? che Berardo pu? sperare. A pochi passi trovasi un molino ed ivi ? forza di trasportare Giovanna, la quale mezzo inferma non pu? reggere a tanta ambascia, Rafaella la segue: e le misere alle finestrelle del molino stanno alcun tempo mirando l'orribile spettacolo, e tremando per Berardo e pe' famigli che vedono qual sul tetto e qual su perigliose scale, qual balzare di trave in trave, qual avventarsi fra globi di fumo e di vampe. Quand'ecco un uomo prorompere nel molino e grida <
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