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Read Ebook: Rafaella by Pellico Silvio

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Ebook has 509 lines and 60046 words, and 11 pages

A pochi passi trovasi un molino ed ivi ? forza di trasportare Giovanna, la quale mezzo inferma non pu? reggere a tanta ambascia, Rafaella la segue: e le misere alle finestrelle del molino stanno alcun tempo mirando l'orribile spettacolo, e tremando per Berardo e pe' famigli che vedono qual sul tetto e qual su perigliose scale, qual balzare di trave in trave, qual avventarsi fra globi di fumo e di vampe. Quand'ecco un uomo prorompere nel molino e grida <> Giovanna e Rafaella, senza pensare ad altro escono spaventate--Dov'?? che gli accadde?--chieggono smarrite. <> dice il masnadiere, traendole in fretta con s? in aere accecato di denso fumo. Dopo pochi passi, egli afferra la giovane, la porta poco oltre ove un uomo a cavallo presala fra le braccia svenuta, sprona e si perde nella selva. Giovanna grida; corre qua e l?; nulla scorge; ode il lontano scalpitare del cavallo, senza nemmeno distinguere per qual via esso galoppi. Le persone intente a smorzare l'incendio non odono le urla della desolata madre; la quale s'aggira delirante intorno alla casa che divorano le fiamme. Infine alcuni dal rovinoso tetto scorgono all'orribile riverbero delle fiamme una donna scapigliata, e odono le sue strida. I superstiziosi servi raccapricciarono, riputandola una fata malefica, od una strega attizzatrice del fuoco. Ma Berardo la riconobbe, e balzando tra fumiganti legnami corse a lei.--<>--E narr? piangendo l'avvenuto.

Rafaella era stata portata semiviva nella rocca di Mozzatorre in Val di Vrusta, dove ne prendevano cura due selvagge ed odiose creature, il castellano Berto e sua moglie, che avevano avuto ordine dal padrone che trovavasi in Saluzzo di custodirla sotto buona guardia.

Rafaella era battuta da perigliosa febbre. I pochi detti che uscianle dalle arse fauci dirigeansi alla madre, or chiedendole aiuto, or promettendole di soffrir tutto con pazienza, or pregandola di non piangere. Lo spettacolo dell'innocenza infelice sarebbe paruto venerando allo stesso Villigiso.

Come la fanciulla ebbe ricuperati i sensi e ud? che essa trovavasi nel castello del nemico capitale di sua famiglia, fu presa da spavento. Guard? uno de' finestroni della sua camera, e fu tentata di balzare da quello e precipitarsi; ma ne la rattenne la sua piet? verso i parenti. Una smania irresistibile di rivederli premeala s? forte, che lusingavala, quasi presentimento ispirato dal Cielo. Ma se questo presentimento la tradisse? Oltre che lo stato di debolezza, in cui giacea, la rendeva proclive ad accorre immaginazioni di spaventi, tutto ci? che Rafaella avea veduto di Mozzatorre, ponti, mura, fosse, cortili, scale, camere, tutto avea impresso quel carattere d'antico decadimento e di mal augurio, a cui facilmente si congiungono le idee pi? lugubri e pi? tetre! Le circostanze, la rapidit?, l'agevolezza, con cui era stata rapita, non le sembravano proprie di vicende puramente umane. Il contrasto fra la nerezza d'animo di Villigiso e la grazia da lei spesso ammirata nella sua persona avea pure un certo che di mostruosamente dissonante. Un contrasto del pari singolare essa notava fra quella grazia di persona ed il lasciare il castello in s? lurida bruttezza, e porvi a custodia facce cos? ignobili. Nel mondo delle cose naturali, Rafaella non avea mai veduto tali disarmonie, e solo aveale udite accennare come opera d'inferno in racconti spaventosi.

Le si affacciava dunque continuamente il pensiero d'uccidersi, e quasi temeva che il non obbedire a quel pensiero fosse codardia. Ella ricordava quel Sansone acciecato che deriso da nemici e tratto nel Dagone s'inchin? a Dio e non all'infame idolo, e scossa l'una e l'altra colonna fra cui stava, procacci? la morte a s? ed a molte persone. Ricordava Eleazaro che non tem? di farsi schiacciare dall'elefante d'Antioco per trafiggere la belva, pensando cos? dar gloria a Dio, colla rovina dell'empio. Ricordava quel seniore di Gerusalemme, il quale piuttosto che esser soggetto a peccatori si lacer? largamente col ferro, e salito sopra una pietra afferr? con ambe le mani le proprie viscere e le gett? sulla turba invocando il Dio dominatore della vita, perch? a lui la rendesse nel regno de' giusti. Ignara del criterio onde vogliono essere giudicati que' biblici fatti, ignara della necessit? di stare guardinghi nel trarre dagli esempii straordinarii le norme della nostra condotta, Rafaella s'accendeva la fantasia, giustificando in s? l'idea di terminare la vita per fuggire da incerti e perci? pi? temuti pericoli. Intanto Manfredo, sollecitato dall'imperatore di recarsi al campo; era partito di Saluzzo ed avea per buona ventura, imposto a Villigiso di seguitarlo.

Questi come tutti gli scellerati, mentre cercava di nascondere agli onesti le sue iniquit?, pur s'affratellava in ogni luogo con qualche scellerato suo pari. Tal era un Barone pavese, il quale avea un castello sulla riva del Ticino, entro cui commetteva e lasciava commettere dai suoi compagni ogni sorta di tirannie. In quel castello pens? Villigiso di far condurre, per maggior sicurezza, la sua prigioniera. Era gi? a Rafaella motivo di stupore, che passasse l'un mese dopo l'altro senza che le fosse incolto altro danno, che la cattivit? e la lontananza dai genitori. Ella ne traeva buon augurio. Quando un mattino il rozzo castellano Berto, zelante ed accorto esecutore di quanti delitti imponeagli il suo signore, venne ad annunciarle che facea d'uopo partire subito con lui, e con Tommasona sua moglie. Stup? Rafaella, e chiese dove fosse per esser condotta. Berto, che per aver minori impicci, amava di averla docile per via, prese a dirle che Villigiso, pentito del suo misfatto, lo incaricava di ricondurla ai genitori. Del che ella sarebbesi abbandonata al pi? vivo giubilo, se avesse potuto reprimere ogni sospetto d'inganno. Mostr? nondimeno di credere; e ad ogni modo non le spiacque di uscire dal castello, parendole che il fuggire per via non le sarebbe stato poi impossibile. Tommasona apparecchi? dunque in fretta le valigie; Berto con altri tre sgherri posero all'ordine i cavalli, e la comitiva fu in viaggio lo stesso giorno.

Cavalcarono quattro giorni schivando sempre i luoghi abitati; e Rafaella udiva spesso ripetersi che la distanza era grande, e che bisognava fare diversi giri; perch? la strada diretta era corsa dai ribelli Cuneesi e da malandrini. Ella dicea spesso a Tommasona:--Tuo marito non mi disse il vero: se tu lo sai, palesami, te ne scongiuro, ove si vada.--Perch? questa, ammaestrata da Berto, mostr? alfine di lasciarsi strappare il segreto, e le disse che essa era difatto ricondotta ai suoi genitori: ma che questi erano stati costretti di mutar paese, perocch? Manfredo, pentito d'aver liberato Berardo, avea voluto rimetterlo in servit?; di che egli era fuggito oltre il Ticino. Soggiungea che il Barone di Mozzatorre, commosso dalla sventura di Berardo non avea resistito al desiderio di consolarlo col restituirgli la figliuola. Poteva Rafaella credere a questo racconto? Tornava i seguenti giorni ad interrogare quando la donna, quando Berto, quando gli altri. Tutti erano d'accordo fra loro e rispondeano la medesima cosa. Ma i loro volti annunciavano tal perfidia, che la misera tradita non quietavasi, ma dissimulava.

Dopo lungo e penoso viaggio furono al bosco del Ticino; donde il castello malvagio non era lontano pi? d'un miglio. Rafaella che aveva mostrato di credere tutto ci? che le si dicea, e che non aveva mai dato il minimo indizio di voler fuggire, veniva custodita con poco rigorosa vigilanza, principalmente allora che il viaggio era compiuto. Non l'avrebbero lasciata indietro due passi, ma non si sgomentavano se talvolta il suo cavallo precedeva d'alcun poco. Volle la Provvidenza che in uno di questi istanti, mentre il cavallo di Rafaella, era di qualche passo innanzi, il bosco fosse assai folto. Gli sgherri spronarono tosto ed erano per raggiungerla; ma la donzella era gi? balzata a terra e inselvavasi rapidamente. I suoi custodi scendono di cavallo, corrono da tutte parti, cercano, chiamano, minacciano, pregano. Tutto ? vano. La snella fuggitiva udendo le voci ed i passi degl'inseguenti, correva senza strepito per viottoli oscuri: e tanto si scost?, che in breve non li ud? pi?. Il che accadde perch? gli sgherri supposero falsamente che Rafaella fossesi volta indietro per ritornare verso il Piemonte; e smarrirono cos? pi? presto le sue tracce. Ella, ignara del luogo e altro scopo non avendo che di cercare gente dabbene che l'aiutasse, movea, sempre innanzi. Uscita finalmente del bosco e traversato un campo, chiese ospizio alla prima casa che incontr?. Villeggiava in essa una famiglia popolana milanese; la quale l'accolse benignamente con tutta la piet? e la riverenza che essa agevolmente seppele ispirare col patetico racconto dei suoi tristi casi. Felice Rafaella se tosto avesse potuto informare i parenti ch'ella era sotto tetto sicuro! Ma le comunicazioni a que' tempi non erano facili, considerata specialmente la guerra che fervea. Inoltre pochi giorni dopo l'arrivo di Rafaella, Milano tocc? una sconfitta dagl'imperiali; s? che le famiglie milanesi, ch'erano in contado, dovettero fuggire entro le mura della citt?.

Due eserciti ognora struggentisi a vicenda, e ognor rinascenti, devastavano da parecchi anni le contrade lombarde. L'uno era composto di Milanesi, e d'oltre la met? degli altri abitanti di Lombardia, facendone parte popolani e nobili, liberi e servi, giovani e vecchi, moltitudine immensa. L'esercito, unito e ben raccolto nella prosperit?, era facile a dissiparsi, ogni volta che la vittoria favoriva il nimico; ma facilmente si rannodava anche dopo che pareva pienamente disperso ed annientato. Il disgregarsi dell'esercito nell'avversa fortuna proveniva dalla premura che ciascuna schiera aveva di scampare la propria vita, senza badar molto in tali frangenti alla causa comune.

L'esercito imperiale era pure formidabile. L'Imperatore ed i Conti palatini, Ottone e Corrado, davano l'esempio agli altri principi tedeschi, traendo dalla Svevia quanti pi? armati poteano. Il Langravio cognato di Barbarossa, Arrigo detto il Leone, duca di Baviera, Arrigo d'Austria, Guelfo il giovane figlio di Guelfo duca di Toscana, Vladislao di Boemia, l'Arcivescovo di Bologna, Rinaldo arcicancelliere, l'Arcivescovo di Magonza Cristiano, e altri valentissimi cavalieri gareggiavano nel numero de' combattenti che traeano da' loro feudi. Onore ed avidit? di preda teneali uniti quando fortuna loro sorridea; ma anch'essi ne' giorni infelici, si sbandavano spesso, per le soverchie rivalit? de' capi, i quali davansi l'uno all'altro la colpa delle sconfitte, e venivano a frequenti duelli, per puntigli cavallereschi. I feudatarii per lo pi? voleano tornare a casa colle loro schiere al chiudersi d'ogni autunno; e cos?, dopo essere talvolta ripatriati colla fiducia che il nemico non potesse pi? ergere la testa, lo trovavano ben in armi al ritorno, essendo bastato l'inverno a ristorare l'audacia dei vinti. Uniti colle schiere imperiali pugnavano molti feudatarii italiani, ed i popoli di Pavia, di Cremona, di Parma e d'altre citt? nemiche di Milano: ragioni simili a quelle accennate per gli avversarii produceano i medesimi effetti.

Ma le vicendevoli offese, accanitamente ripetute per tanti anni, aveano alfine spinto il furore ad eccessi inauditi. L'esacerbazione della parte imperiale era proporzionata a quella de' Milanesi. Non pi? saggio di speranza al pacifici; non pi? misericordia a feriti, a spogliati, a donne, a vegliardi, a fanciulli. Se alcuno invocava i nomi santi di piet? e di religione, s'udia rispondere da ambi i lati:

--<>. Qua rampognavasi a' Milanesi il soggiogamento di Como, la distruzione di Lodi e molte altre violenze contro i minori, e il dileggio de' pi? sacri diritti ovunque speravasi impunit?. L? giuravasi che il primo a non curare i diritti era stato Barbarossa. E questi infatti, sin dal 1155, primo anno della guerra, facea legare i prigionieri alle code dei cavalli: incendiava Rosate, Galliate, Trecate e Mommo, e celebrava con invereconda allegria le feste di Natale sulle rovine di quegli infelici paesi; indi invaghitosi della distruzione, riduceva in cenere popolose citt? come Asti, Chieri e Tortona. Mosso poi contro Spoleto decretava parimenti che vi s'appiccassero le fiamme; n? per rattenerlo vi volle meno dello straordinario potere che sant'Ubaldo, Vescovo d'Agubbio, esercit? sopra di lui ispirandogli, non si sa se compassione, di cui n? prima n? dopo si vide capace, ovvero terrore di divino castigo. Dopo la pace conceduta nel 1158 ai Milanesi, con l'accordo che conservassero il Seprio e la Martesana, Federico rioccup? quelle terre, vietando loro inoltre che tenessero pi? consoli, e volendo loro imporre un podest?; il che fu cagione di nuova guerra. Nell'assedio di Crema egli fece poi atroce pompa di crudelt?, legando gli ostaggi Cremaschi ad un castello di legno, su cui gli assediati per difesa scagliavano con mangani tempeste di pietre; cosicch? i padri dovettero, per salvare la citt?, schiacciare i loro figliuoli. Queste ed altre crudelt? quinci e quindi esercitate cresceano gli odii e inasprivano la guerra.

Ora Federico s'incapon? a sostenere le parti dell'antipapa; il quale, assunto il nome di Vittore IV, era stato, in un conciliabolo tenuto a Pavia sotto gli auspicii dell'Imperatore, riconosciuto da molti Vescovi, e sperava, colla medesima protezione imperiale, ridurre tutta la cristianit? alla sua obbedienza. Senonch? la pi? parte dei prelati italiani, saputa la verace elezione d'Alessandro stettero per lui, e tra questi primeggiava l'Arcivescovo di Milano. Il che accresceva animo ed ardire ne' petti de' Milanesi, i quali vedevano in Federico il nemico della patria e della Chiesa; e d'altra parte aizzava vie peggio nel cuore del furibondo Principe gli sdegni, credendo egli di combattere contro sudditi doppiamente ribelli.

Tal era lo stato delle cose, quando essendo stati i Milanesi vinti in campo aperto, la famiglia che ospit? Rafaella dovette con tutto il popolo del contado chiudersi dentro le mura della citt? contro cui avanzavasi l'Imperatore.

Trasportiamoci ora per alquanto al fianco de' genitori della fanciulla. Sull'arsa casa un'altra in pochi mesi era sorta, dove i meschini viveano nel dolore. Giovanna diceva a Berardo: <>

--Non mormoriamo troppo del nostro signore, dicea Berardo. Se egli non avesse dovuto partire per l'esercito, l'avremmo veduto adoperarsi pi? caldamente per sapere la sorte della figliuola nostra. Quelli che restarono al governo del marchesato curano poco lei e noi; essi anzi mi odiano perch? non li ho mai adulati e li costrinsi talvolta a cessare, o a nascondere le loro opere malvagie.

--Oh Berardo! m'avessi tu ascoltata, quand'io ti dicea di non ricusare il gonfalone offertoti da Cuneo! Qual frutto godi della tua fedelt? al Marchese? Dal canto di lui una superba degnazione di chiamarti amico per giovarsi de' tuoi servigi ed obbligar te ad eccessi d'obbedienza. Dal canto degli altri Baroni del paese, invidia, affettato disprezzo, colleganza a danneggiarti. Ed ahi! niuno pu? tormi di mente essere il rapitore di Rafaella uno d'essi, ed esaltarne gli altri sapendolo e tacersi.

--Moglie mia, il frutto colto dalla mia fedelt? ? pace di coscienza. Perch? abbondano oggi la ribellione, e gli uomini che le approvano, non per? sarei da approvare io, se amato e beneficato da un principe ch'? tra migliori di questo tempo, mi ponessi fra' suoi nemici. Giovanna, il dolore travolge i tuoi pensieri. Tu dimentichi che, non ha guari, Manfredo mi salv? dall'ignominia liberandomi di schiavit?.

--Oh Berardo! e chi pu? dimenticare tanto scorno? Doveva egli permetterlo, affine di tenderti poi la mano dopo averti lasciato gettare nel fango?

--Donna, il tuo linguaggio nasce da anima esacerbata. Non voglia Dio recartelo a colpa; n? tel reco io, ch? m'? nota la tua cristiana piet?. Ma, per serbarci innocenti, non concediamo al labbro questi sfoghi. Essi accrescono lo scontento, inaspriscono le piaghe del cuore, e ne inducono ad essere ingiusti nel giudicare gli altri per darci l'infernale soddisfazione d'odiarli. Ci? che pu? dirsi dei cattivi principi, io, senza ingiustizia, non posso dirlo di Manfredo. E ov'anco errassi nel buon giudizio che fo di lui, pensa, o moglie, che non tutti i doveri degli uomini sono eguali. Poniamo che migliaia d'uomini fossero pure a diritto nemici a Manfredo, io da lui fui beneficato, sarei ingrato e vile se loro mi congiungessi.

--Certamente io venero la santit? de' tuoi scrupoli. Ma quel Manfredo, per amore del quale non volesti abbandonare questo paese, s? fecondo per noi di sciagure, e t'esponesti all'obbrobrio d'essere dichiarato servo, quel Manfredo cacci? barbaramente il nostro figlio in guerre lontane donde forse non ritorner? pi?, o ritorner? quando noi saremo morti. E quando ne venne rapita Rafaella, qual uso fec'egli del suo potere, per trovarla e restituircela? Io non lo accuso di altre colpe ma piango teco i nostri unici sostegni, ed egli non cura il nostro pianto.

Spesso cos? si lagnava la desolata madre, e cos? Berardo studiavasi di consolarla. Ma questi stesso, quantunque affezionato al suo signore, e fermo a tutto piuttosto patire, che accettare le proposte de' Cuneesi, non potea nell'intimo dell'animo suo approvare la condotta del Marchese. E dicea spesso fra s?: <>

Malgrado l'occulta amarezza, non parlava per? male di lui con alcuno, e lo difendeva quand'altri, chi che si fosse, lo accusava. N? la sincera devozione di Berardo al suo signore, parea bassezza a veruno, e nemmeno ai pi? caldi partigiani della ribellione. Era il suo un affetto cos? puro, cos? radicato ne' suoi principii d'onest? e religione, che niuno, ancorch? pensasse altramente, potea vituperarnelo.

Quindi molti de' Cuneesi non cessavano di tentarlo perch? loro s'unisse; ch? niuno in que' paesi godea tanta fama di senno: e speravano che, se acquistassero tal magistrato, egli reprimerebbe col suo credito le infinite discordie che li laceravano; flagello ordinario de' governi popolari, e spesso fatale nei loro cominciamenti.

Imperversavano quelle discordie orrendamente in Cuneo, e nelle altre citt? ribellate; il che era cagione che altre citt? si tenessero fedeli agli antichi signori per non cadere in somiglianti dissensioni. Inoltre nei reggimenti consacrati dal tempo le forme, bench? barbare, del Governo erano rispettate, s? che l'ingiustizia stessa parea eroismo, incuteva rispetto, o al pi? generava odio non disgiunto da rispetto ma quasi mai odio unito a disprezzo. All'incontro nei reggimenti nuovi la maggioranza plebea distruggeva quell'esterna dignit? di che i nobili soleano circondare la condotta delle cose pubbliche. La favella de' nuovi magistrati sonava rozza come i loro costumi, scurrile come i loro soprannomi, i quali erano oggetto di non poco riso comune. Chi chiamavasi Cordaccio Beffasomari, chi Azzo Spezzaganasce, chi Simeone Leccapiatti; chi, dopo essere detto Cuocipani, Acconciafatti, Capoleone, venia trasformato buffonescamente in Castracani, Scorticagatti, Pelavicini, Colleone, Collione e peggio. Le Cronache italiane sono piene di siffatte sconce denominazioni, nobilitate talvolta dalla virt? degli eroi che le tramandarono, ma non per questo men vili nei loro principii. La quale volgarit? di nomi e di maniere manifestantesi ad ogni tratto e ridicola a giudizio de' signori, spiaceva a non pochi ancora di nascita oscura, ai quali perci? la ribellione, bench? potesse recare qualche guadagno, sembrava tuttavia un indegno affratellamento co' pi? abbietti.

Ignoriamo fino a qual segno questi ed altri motivi operassero sopra la mente di Berardo. Ma il fatto si ? che poco egli amava i governi plebei. N? per questo odiava coloro che per essi parteggiavano; n? rigettava dalle sue braccia il Cuneese statogli amico altre volte; n? ricusava aiuto a chi fuggiva la persecuzione d'un Barone e s'avviava a Cuneo. Egli nascondea i feroci sventurati sotto il suo tetto, e se potea recarli a sentimenti di perdono verso il nemico potente, s'adoperava volentieri, e talvolta la mediazione di Berardo era efficace.

Concorde alla condotta di Berardo era quella di Guglielmo, Abate di Staffarda, consolatore unico degli infelici genitori d'Eriberto e di Rafaella. Questo venerando vecchio era seguace e discepolo di san Bernardo; e come il suo maestro, avea l'animo intimamente penetrato da questa massima, che la somma della virt? evangelica si riduce a un santo e vero amore di Dio e del prossimo. Severo contro s? solo, non lusingava la malvagit? d'alcuno, ma compativa le miserie di tutti. Egli invitava tutti all'indulgenza ed alla compassione, Baroni verso sudditi, sudditi verso Baroni, seguaci d'una bandiera verso seguaci di un'altra, e diceva la societ? umana essere per necessit? divisa in condizioni diverse, e a vicenda contrarie, e poter tuttavia in tutte le condizioni e sotto tutte le bandiere avervi intento, se non retto, almeno perdonabile per involontaria ignoranza.

Studiosissimo dei libri di S. Bernardo, ne' quali si ammira s? soave dolcezza, egli vi scorgeva un grado di carit? ancor maggiore di quella che pare dalle sole parole scritte. Perocch'egli leggendoli, riproduceva nella memoria e l'inflessione di voce del Santo ed i gesti, e gli sguardi, e conoscea per intero ci? che questi, usando tali espressioni, sentiva. Con eguale consenso coll'amantissima anima del defunto maestro, egli studiava le divine Scritture, e ne insegnava il diritto senso, non solo a' suoi monaci, ma a parecchi giovani che erano educati nel monastero, bench? non destinati alla vita monastica.

Da lui erano stati educati Eriberto ed Ottolino; nei quali egli avea posto un affetto singolare, per le esimie doti d'ingegno e di cuore che in loro avea scorte. Da lui si potrebbe dire essere stata educata pure Rafaella, poich? egli aveva assai cooperato al modo con cui era stata da' genitori allevata. Aveale poi insegnato egli medesimo a leggere; il che non soleasi imparare allora da veruna figlia d'arimanno, e nemmeno dalla pi? parte delle figlie dei cavalieri.

L'Abate era il benefico consolatore di Berardo e di Giovanna; ed ogni volta che, per qualsivoglia motivo, dovea stare lungo tempo lontano, le sventure si sentiano da que' poveretti a mille doppi. Forse, s'egli non fosse ito a Genova per abboccarsi con Papa Alessandro, o se fosse ritornato prima della partenza d'Eriberto, egli avrebbe consigliato al Marchese ci? che non avea osato Berardo. <>. Forse ancora il suo consiglio avrebbe giovato a promuovere in tempo la ricerca di Rafaella. Ma ora Guglielmo non pu? che ricordare il dovuto ad altri, e alleggerire il peso delle tribolazioni di Berardo e di Giovanna, compiangendoli e visitandoli sovente. Ogni volta che il cane sdraiato attraverso la porta manda un dimesso latrato di gioia, poi si leva e dimena la coda, Giovanna, a cui tosto batte il cuore, <> e s'affretta alla finestra, non osando soggiungere <>

--Sar? l'Abate, dice tosto Berardo cercando d'impedire in lei quella subita speranza, che delusa vieppi? l'amareggia.

E allora Giovanna angosciata del disinganno, ma procacciando di non lasciarsi scorgere, dice: <>

E gli vanno incontro, e lo introducono in casa, e prendono il bastone ed il cappello. E dopo averlo fatto sedere nella seggiola grande, e aver parlato della salute e di altrettante cose, con cui si cominciavano anche allora le conversazioni, aspettano se nomini Rafaella: ed egli avvedendosi del loro desiderio n? potendoli altramente consolare, la nomina; ma non dice cosa alcuna della sua sorte presente.

--Niuno sa dunque dove sia la poveretta! sclama allora Giovanna, prorompendo in lagrime. Io non la vedr? pi?? io non udr? pi? mai quella voce, ch'erami una benedizione ogni mattina, e che ora aspetto invano ogni sera? Ahim?! che senza averla udita, il letto non mi porge riposo, ed i rari sonni al paro delle veglie sono piene d'ambascia. Oh Abate! Voi che siete caro a Dio, non vi stancate di pregarlo che ci renda la figliuola.

--Povera madre! dicea Guglielmo, asciugate il vostro pianto; Dio ci ama tutti, e non ci abbandona, anche quando non ci esaudisce. Egli, che volle vivere su questa terra di dolore e nascere di donna, conosce le ambasce di tutte le madri, le addolcisce col dono della pazienza, e s'apparecchia a rimunerarle con alte consolazioni. Non ? possibile che miri le vostre con noncuranza. Egli ch'? cos? buono non ci lascia patire se non quando vede che i patimenti possono valere a migliorarci. Preghiamolo ancora; e un d? gioiremo d'aver patito, perocch? vedremo che il tempo della tribolazione fu quello in cui lo invocammo con pi? fervore.

Le ragioni di Guglielmo erano semplici, Giovanna le avea udite mille volte. Ma ? proprio delle parole sante specialmente se profferite da uomo venerando, di portar persuasione nelle anime pie e di rassegnarle a patire. Oh quanto sono benefiche tali parole ripetute dal buon Abate alla misera madre! Quanto sono dolci ancora a Berardo, che sebbene simuli pace, ? divorato talora da viva ambascia e solo ritrova pace veramente quando il santo vecchio ? entrato sotto il suo tetto!

Almeno s'avessero frequenti novelle d'Eriberto; ma rade sono, apportatrici per lo pi? di timori. Ora s'ode che fu leggermente ferito, e dubitasi che il nuncio sia infedele ed attenui per compassione la gravit? del caso. Ora s'ode che merit? onore per la sua prodezza, e paventasi non forse questa prodezza gli sia stata fatale. Ora si narra ch'egli ed Ottolino sono ognora scudo l'uno dell'altro, e prevedesi che, se Ottolino cadesse fra lance nemiche, Eriberto arrischierebbe disperatamente i suoi giorni per salvarlo.

Una volta venne notizia che il giovane Duca Guelfo, cugino dell'Imperatore, dilettato sommamente dai canti d'Ottolino, desider? d'averlo tra' suoi famigliari, e preg? il Marchese Manfredo di volerglielo cedere insieme col suo compagno indivisibile Eriberto. Manfredo avea appagato il Duca. Essere al servigio di tanto Signore potea sembrare fortuna; se non che i guerrieri di Manfredo se sopravvivono alle battaglie, torneranno a Saluzzo; ma potr? Eriberto sciorsi facilmente dal preso servigio? L'amist? sua per Ottolino, se questi s'avvince agli stranieri, avvincer? anche lui; n? pi? sar? sollecito de' genitori, se non forse quando pianger? sulla trista loro tomba!

Ammal? Giovanna, e fu presso a morte, n? poi risanando pot? riacquistare, fuorch? in poca parte, le prime forze. Un giorno, che sorretta dall'una parte dal marito, dall'altra dall'abate di Staffarda, usciva, dopo molti mesi d'infermit?, per rivedere il lieto aspetto delle campagne, illuminate dal sole, sedutasi sopra una pietra, vicina alla porta, ud? abbaiare il cane, e disse mestamente:

--Qualcuno s'appressa, ma non ? persona conosciuta dal vecchio Moro.

--E tuttavia pu? essere amica, disse Guglielmo.

Vedono avvicinarsi un viandante, il quale dalla strada volgeva verso la casa di Berardo, e pareva esitasse, quasi ignaro se quello fosse il luogo ch'egli cercava. Questi allora andogli incontro e disse:--Siate il benvenuto viaggiatore al tetto di Berardo della Quercia.

--Viva Dio! Voi siete appunto quegli, che io cerco.

Berardo s'accorse dalla pronuncia che il viandante era un ebreo, e gli dimand? che bramasse.

--Bramo che la mia venuta vi porti quelle gioie del cuore che io non posso pi? gustare sulla terra. Perocch? Dio m'avea dato tre figli ed una figlia. Due figli vidi spirare nel loro letto; il terzo per? in battaglia; la figliuola mi fu involata da' Saracini e dopo averla cercata dieci anni, seppi che il suo tiranno l'avea trucidata.--S'asciug? una lagrima e soggiunse: Felice voi, Berardo! vostra figliuola vive.

--Che dite? Ella vive? La mia Rafaella? Dove?

L'ebreo non s'affrettava a rispondere, temendo che l'impeto della letizia non ispezzasse quel cuore paterno. Egli mirava da lontano Giovanna, e pensando essere forse quella madre, chiedeva a s? stesso se quella donna s? scarna e s? pallida potesse sostenere un annunzio di s? grande consolazione. Egli voleva quindi frenare l'impazienza di Berardo. Ma questi instava dicendo--Dov'? mia figlia? Ve ne scongiuro, deh parlate!

E Giovanna che vedeva il marito fare di gran gesti, aguzzava l'occhio e tendeva l'orecchio, e dicea, palpitando, a Guglielmo:--Che sar? mai?

--Quetatevi, dicea Guglielmo: non vedete che egli ? allegro? Il pellegrino gli port? buona notizia.

Giovanna non potendo contenersi, si lev? in piedi, e preg? Guglielmo di reggerla per avvicinarsi pi? presto ai due interlocutori.

--Berardo! disse con voce fioca, Berardo! Per piet?, se hai nuove della figlia, non farmele aspettare!

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