Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 07 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde
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STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO
DI J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI, DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
ITALIA 1818.
STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE
Per altro la dimora de' pontefici in Avignone aveva avuta la pi? perniciosa influenza sui costumi della chiesa, sulla sua politica, sul suo riposo, sulla sua fede. La corruzione de' prelati, la scandalosa e disonesta vita de' giovani cardinali, innalzati alla porpora dal favore o dall'intrigo, erano talmente notorj, che Avignone pi? non era indicata con altro nome che con quello di Babilonia occidentale. N? quest'epiteto trovasi soltanto nelle amare invettive del Petrarca, ma nelle lettere e nelle scritture degli uomini pi? moderati e pi? religiosi del 14.? secolo. Avignone conteneva la schiuma degl'Italiani e de' Francesi; col? venivano a cercare fortuna gl'intriganti d'ogni nazione, che avevano seco portati i pi? odiosi difetti de' loro compatriotti; e il popolo e la corte d'Avignone avevano convertito in costume ci? che dalle altre nazioni risguardavasi come vizio. Ne' precedenti secoli la corte di Roma era gi? stata riconvenuta di smisurata ambizione, di dissimulazione, di avarizia, d'ingratitudine; ma nel tempo che i papi soggiornarono in Francia, fu ancora venale e perfida nell'amministrazione dei popoli, servile nelle sue relazioni colla corte di Francia, licenziosa ed intemperante nella privata vita de' suoi prelati; e tra gli stessi papi, Clemente VI non and? esente dal rimprovero di scostumatezza.
Gl'Italiani, che i proprj governi cercarono di rendere superstiziosi, sono meno degli altri popoli inclinati alla credulit?. Il misticismo, siccome un'immaginazione piena d'idee malinconiche e terribili, appartiene ai climi ove l'uomo soffre sotto una temperatura o ardente o gelata. Ne' deserti della Tebaide, e sulle arene del Gange, o in riva al Baltico e tra le rupi della Scozia, si pu? tremare in faccia al principio malefico che mai non permette di scordare la sua potenza; possono offerirsi alla divinit? dei dolori che sembrano indivisibili dall'umana specie; ma innanzi a che si tremerebbe in Italia, ove tutto sorride all'uomo? Come mai tutti i pensieri possono essere totalmente rivolti ad un'altra vita, quando cos? dolce ? la presente?
Nel 14.? secolo gl'Italiani aggiugnevano uno spirito d'osservazione esercitatissimo all'abitudine di comunicare coi popoli di diversa credenza. Il disprezzo che avevano concepito per la corte d'Avignone, aveva loro quasi assolutamente fatto scuotere il giogo della chiesa romana; mentre gli spiriti erano rimasti assai pi? sottomessi in Francia, ove il fanatismo persecutore ricompariva sovente con nuove forze. A Parigi, nel Delfinato, ed in altre province della Francia si bruciarono nel 1373 molti eretici. Le diverse loro sette, tutte egualmente punite con atroci supplicj, avevano i nomi di Turlupini, Beguini, Lollardi, Valdesi. Ma in Italia, l'entusiasmo che faceva nascere le eresie, ed il fanatismo che le puniva, erano ugualmente spenti, ed avevano dato luogo alla indifferenza.
I Visconti in tempo delle lunghe guerre che avevano sostenute contro la Chiesa, eransi vendicati delle censure dei papi sul clero de' loro stati: raddoppiavano le imposte straordinarie quand'erano percossi dalle scomuniche. N? i tiranni della Romagna si erano pi? de' Visconti lasciati atterrire dai fulmini de' papi, o dalle crociate predicate contro di loro; l'innalzamento loro e la loro caduta erano effetto della lotta tra l'ambizione e la libert?, o dell'affezione, dell'odio, o della vendetta, che sembravano ereditarj in alcune famiglie, senza che la religione vi avesse parte. I Siciliani, dopo i famosi loro vesperi, pi? non furono in pace colla chiesa per lo spazio di ottant'anni. I loro principi della casa d'Arragona, non si mostrarono meno indifferenti dei loro popoli alle scomuniche dei papi. Dall'una all'altra estremit? dell'Italia i popoli ed i governi pi? non temevano le censure ed i castighi ecclesiastici.
La filosofia d'Aristotele era stata universalmente adottata in tutte le scuole unitamente ai commentarj d'Averroe. Il greco filosofo, supponendo un'anima unica animatrice di tutti gli uomini, distrugge la provvidenza e la moralit? delle azioni. Ma il glossatore arabo aveva ancora pi? direttamente attaccata la religione; egli aveva opposta la sua triste dottrina all'islamismo in cui era nato, al cristianesimo ed al giudaismo che aveva studiati; ed aveva diretti contro i cattolici i suoi sarcasmi ed i suoi ragionamenti. Il solo Petrarca era quello che cercava di resistere al torrente degl'increduli; ma la setta ch'egli combatteva nelle sue filosofiche scritture, e nelle sue lettere, godeva d'un'illimitata libert?, e mostravasi ogni giorno pi? ardita. Credevansi appena le antiche dottrine ancora buone per il popolo; e la religione, quasi incompatibile con tale filosofia, andava perdendo la sua influenza sulla condotta degli uomini.
Il Petrarca ci lasci? nelle sue lettere la pi? triste pittura dei depravati costumi de' prelati, i quali avevano perduto lo spirito di dominazione, siccome i popoli l'abitudine di essere loro subordinati. Servilmente sottomessi alla corte francese, nemmeno pi? si vergognavano della loro servit?. Pi? in loro non ravvisavasi quello spirito superiore al mondo, che mantiene la vera religione, e che, quando si trovasse ancora presso una falsa religione, la renderebbe pure rispettabile ed utile agli uomini. Invece di non considerare la terra che dal lato de' suoi rapporti con Dio, i preti pi? non pensavano a Dio, che in ragione dei loro interessi sulla terra. La religione era diventata un mezzo tutt'affatto umano di governo, uno strumento che i despoti tenevano nelle loro mani per valersene contro i popoli.
Una religione corre sempre grandissimo rischio quando si d? un capo sulla terra; poich? facendo dipendere il rispetto che riclama, dall'eventualit? e dalla virt? d'un solo uomo, la chiesa si rende risponsabile della condotta del pontefice che la rappresenta. Vero ? che ne' tempi della persecuzione ella ha pi? ragioni di sperare che di temere dalla condotta del suo capo; imperciocch? egli s'investe in allora dello zelo medesimo della sua greggia, e non si trova elevato al di sopra degli altri che per dar loro un pi? luminoso esempio. I primi vescovi di Roma, se dobbiamo prestar fede alle loro leggende, furono quasi tutti santi e martiri; ma poich? la chiesa trionf? dell'idolatria, la leggenda medesima pi? non attribuisce ai loro successori tanti onori e tante virt?. Il capo del clero, depositario del suo potere, non pu? evitare di essere strascinato dagl'interessi temporali della sua amministrazione, e di far servire la religione alla politica. ? questo il maggiore abbassamento cui possa trovarsi esposta un'autorit? divina. Il pi? nobile ed il pi? disinteressato sentimento del cuore umano, il sentimento dell'intero sagrificio di s? medesimo si cangia in cotal modo nel vile calcolo dell'egoismo e della frode.
Ad ogni modo, se una religione, diventata dominante, deve avere un capo; se deve affidare una quasi illimitata autorit? sulle coscienze ad un solo uomo, conviene almeno che quest'uomo sia indipendente. ? una specie d'indipendenza quella che l'entusiasmo inspira in mezzo alle persecuzioni; ed il martire ? pi? indipendente dei re, poich? disprezza i loro ordini e non teme i loro carnefici. Ma quando ? cessato l'entusiasmo, il capo d'una religione altro non sar? che un suddito se non ? sovrano. Vero ? che l'amministrazione di uno stato mal si conviene ad un prete, poich? lo allontana dai pensieri che dovrebbero occuparlo, e forse dai costumi che dovrebbe avere; ma la servit? ? ancora pi? sconveniente. Il sovrano pontefice, indipendente dai re, compenser? spesse volte, col suo coraggio nel biasimare la condotta loro, i torti della propria; reprimer?, come sempre fecero i papi, i pessimi costumi, il di cui esempio ? tanto pernicioso, quando ? dato da chi siede sul trono; citer? alcuna volta al tribunale di Dio un re come falsario, un principe perch? impudico o assassino. In mezzo alle loro ingiuste passioni, ai loro implacabili odj, gl'Innocenti e gli Alessandri quando diressero le armi della Chiesa contro i re di Francia, di Spagna, di Germania, d'Inghilterra, fecero se non altro sentire ai popoli che i sovrani, non meno de' sudditi, possono essere puniti pei loro delitti.
Quando la corte di Roma, trasportata oltremonti, si rese francese, cess? di esprimere in tale maniera il voto dei popoli o delle future generazioni. Ella copr? co' suoi veli le scelleratezze di Filippo il Bello, e gli somministr? infami pretesti per la carnificina de' Templari. Fece co' suoi successori vergognosi mercati dei beni della chiesa, sotto pretesto d'una crociata, che mai non pens? di adunare. Trad? con fallaci speranze i Cristiani orientali, invitandoli a prendere le armi, poi lasciandoli senza soccorsi preda del ferro de' musulmani.
Clemente VI invece d'aprire a Filippo di Valois tutti i tesori della chiesa sotto pretesto d'una guerra sacra, cui egli non pensava di fare, avrebbe dovuto essere animato dal coraggio che manifest? in quest'occasione frate Andrea d'Antiochia, religioso italiano, che tornava in allora da Terra santa. Egli prese per la briglia e ferm? il cavallo del re. <
La dipendenza de' papi avignonesi verso la corte di Francia eccitava il malcontento in tutto il resto dell'Europa. Accusavansi i tribunali ecclesiastici di parzialit?, di venalit? i legali ed i governatori nominati dal papa. Tutti i vescovi erano tenuti di risedere presso la loro greggia, e quest'obbligazione veniva continuamente ricordata dagli uomini dabbene al primo vescovo, che avrebbe dovuto dare a tutti gli altri l'esempio della disciplina, onde il biasimo di tutta la cristianit? ricadeva sul di lei capo. Frattanto gli abusi coll'andare del tempo prendevano piede; e la corte pontificia non sarebbe mai stata ricondotta da Avignone a Roma, se la prima di queste citt? avesse continuato ad offrire ai papi un sicuro asilo inaccessibile alle armate ed alle rivoluzioni del rimanente dell'Europa. Ma i Valois, durante il disastroso loro regno, pi? non guarentirono alla corte pontificia quella pace, di cui avea goduto in Provenza in cambio della perduta libert?.
Il papa desiderava assai pi? l'abbassamento de' suoi nemici in Italia che la disfatta degl'Infedeli; e l'imperatore coglieva con piacere l'opportunit? di tornare in un paese, ove altre volte avea mietute ragguardevoli somme di denaro. L'uno e l'altro dava voce di voler cacciare d'Italia le bande degli assassini che la guastavano. La compagnia tedesca d'Anichino Bongarten, e la compagnia inglese di Giovanni Acuto, ruinavano a vicenda la Toscana e lo stato della Chiesa. Gelosa l'una dell'altra non si erano rifiutate di servire sotto principi nemici; ma i popoli soffrivano non meno dalla compagnia alleata che dalla nemica. La compagnia della Stella, che i Fiorentini avevano chiamata dalla Provenza per fare la guerra ai Pisani, e quella di san Giorgio, formata da Ambrogio, figliuolo naturale di Barnab? Visconti, entrarono una dopo l'altra nello stato di Siena ed in quello di Perugia per levarvi delle contribuzioni. Cos? aperto assassinio non poteva essere pi? lungamente tollerato, e l'Italia ud? con piacere che il papa e l'imperatore avevano stabilito di mettervi termine.
Nel 1366 il cardinale Albornoz, d'ordine d? Urbano V, fece preparare un palazzo a Viterbo per abitazione del pontefice in tempo d'estate. Fece inoltre riparare gli edificj di Roma che cadevano in ruina, ed accett? le galere di Venezia, di Genova, di Pisa e della regina di Napoli, per ricondurre la corte pontificia dalle bocche del Rodano alle foci del Tevere.
Urbano sbarc? il 25 maggio a Genova, e le due fazioni che dividevano questa repubblica, si sforzavano di superarsi nel fargli onore. Simone Boccanegra, il primo doge di Genova, era morto nel 1363, avvelenato, per quanto fu creduto, in un pranzo dato al re di Cipro. Mentre questo magistrato lottava ancora tra la vita e la morte, il popolo aveva prese le armi, arrestati i parenti del Boccanegra, ed eletto doge Gabriele Adorno. Era questi un mercante, di famiglia plebea, ma ghibellina; e manifest? talenti ed un carattere, proprj ad assicurargli finch? sarebbe vissuto, la direzione del partito ghibellino.
L'opposta fazione de' Guelfi aveva per capo Lionardo di Montalto, che ancor esso aspirava al dogado. Nel 1365 era stato costretto ad uscire di citt? con i suoi aderenti, e faceva guerra alla sua patria, quando il passaggio del papa a Genova riconcili? per alcun tempo le due opposte parti.
Quegli in cui Urbano aveva maggiore fiducia per amministrare lo stato della chiesa era appunto l'Albornoz, che in una legazione di quattordici anni aveva riconquistata e sottomessa alla santa sede la totalit? del dominio ecclesiastico. Albornoz al suo arrivo in Italia non aveva trovati fedeli al papa che i due castelli di Montefiascone e di Montefalco; mentre all'arrivo d'Urbano tutte le citt? della Romagna, della Marca, dell'Umbria e del patrimonio, ubbidivano alla santa sede. Il papa, avendo domandato conto al cardinale del danaro speso nella sua lunga amministrazione, questi gli mand? per risposta un carro compiutamente carico delle sole chiavi delle citt?, che aveva ridotte in di lui potere. Ma era di poco giunto Urbano in Italia quando Albornoz mor? a Viterbo il 24 agosto del 1367, seco portando il dolore della corte di Roma e dei popoli, che avevano condonati a' suoi rari talenti la strana unione delle incumbenze di generale d'armata e di prelato.
Questo grande politico aveva, prima di morire, reso l'ultimo servigio al papa, conchiudendo in suo nome un'alleanza con tutti i nemici de' Visconti. La lega che fu segnata a Viterbo l'ultimo di luglio e pubblicata il 5 agosto, comprendeva l'imperatore, il papa, il re d'Ungheria, ed i signori di Padova, Ferrara e Mantova. Vi prese parte ben tosto ancora la regina di Napoli, la quale, avendo perduto suo marito, Luigi di Taranto, il 26 maggio del 1362, si era lo stesso anno rimaritata in terze nozze col figliuolo del re di Majorica, Giacomo d'Arragona, cui per altro non aveva accordato il titolo di re!
I fratelli Visconti apparecchiavansi dal canto loro a combattere questa formidabile coalizione; e si erano segretamente alleati a tutte le compagnie di ventura che guastavano il paese. Il bastardo Visconti, figliuolo di Barnab?, che ne aveva egli medesimo formata una, adun? tutte le altre al suo soldo, e fece in tal modo la pi? bell'armata, che si fosse ancora veduta in Italia. Galeazzo, il secondo fratello Visconti, che da qualche tempo aveva stabilita la sua dimora in Pavia, preparavasi pure a modo suo a combattere i suoi nemici. Il fasto e le vanit? occupavano tutti i suoi pensieri. Il Petrarca, che viveva nella di lui corte, faceva plauso alla di lui magnificenza ed alla protezione che accordava alle arti ed alle lettere; ma i suoi sudditi gemevano sotto il peso delle gabelle; lo detestavano i suoi ministri e soldati non pagati, e le citt? da lui dipendenti non erano tenute fedeli che dal terrore che ispiravano le sue crudelt?.
Galeazzo riponeva la sua vanit? ne' parentadi coi pi? gran re del cristianesimo. Egli fece sposare in marzo sua figliuola Violante a Lionello, duca di Chiarenza, figliuolo del re d'Inghilterra; e per ridurre questo principe ad un tale matrimonio, gli aveva offerti, colla figlia, duecento mila fiorini di dote e la sovranit? di cinque citt? del Piemonte. Pretendeva con ci? Galeazzo d'attaccare pi? saldamente ai proprj interessi la compagnia inglese: ed infatti Giovanni Acuto alla testa di questa truppa formidabile penetr? nel territorio di Mantova che pose a fuoco e a sangue. Ma ben tosto il nodo di quest'alleanza colle compagnie di ventura si ruppe per un inaspettato avvenimento: Lionello, duca di Chiarenza, mor? dopo pochi mesi, vittima della sua intemperanza.
La cronaca di Piacenza pretende che avesse sotto il suo comando cinquanta mila cavalli, cosa probabile se aveva nell'esercito molte truppe leggiere, ed Ungari.
Giovanni Agnello, signore di Pisa, trattava dal canto suo con Carlo IV, da cui desiderava la conferma dell'usurpato titolo di doge; ma lo vedeva con rincrescimento avvicinarsi alla testa di mille duecento corazzieri, e gi? s'accorgeva che la speranza di vicina rivoluzione rendeva arditi i malcontenti, e facevagli trovare opposizione perfino nel proprio consiglio. Ottenne da Carlo la promessa di essere nominato vicario imperiale di Pisa, e di vedere raffermata in tal modo la sua autorit?; a questo prezzo acconsent? di rinunciare alla pi? importante conquista che avesse mai fatta la repubblica di Pisa, e per difesa della quale le nemiche fazioni eransi pi? d'una volta riconciliate. Il 23 agosto del 1368 consegn? Lucca a Marcovaldo, vescovo d'Augusta, che ne prese possesso a nome dell'imperatore. Questa citt? era stata suddita dei Pisani fino dal 6 luglio 1342.
Quando l'imperatore, tredici anni prima, erasi recato a Siena, un movimento popolare da lui spalleggiato, aveva esclusa dal governo l'oligarchia dominante. Dopo tale epoca i ricchi mercanti, che formavano questa oligarchia, erano stati dichiarati, come la nobilt?, incapaci di aver parte al governo popolare. Di loro e delle loro famiglie erasi formato nello stato un ordine separato, che dicevasi il monte dei nove, a motivo della suprema magistratura che aveva occupato, e ch'era stata abolita nell'atto che ne era stato spogliato. Ma i borghesi di uno stato alquanto inferiore, che, dopo i nove, erano pervenuti alla nuova magistratura dei dodici, avevano camminato cos? esattamente dietro le orme de' loro predecessori, che si erano egualmente usurpata tutt'intera la suprema autorit?; onde il monte dei dodici, da loro formato, non era meno odioso al popolo che quello dei nove.
I dodici, temendo principalmente l'odio della nobilt?, cercarono di far rinascere le antiche sue contese per indebolirla. Le due illustri famiglie de' Tolomei e de' Salimbeni erano sempre state a Siena i capi delle parti guelfa e ghibellina. Finsero i dodici d'essere divisi nelle stesse fazioni, ed eccitarono le due famiglie a dar mano alle armi l'una contro l'altra, promettendo a ciascuna di favoreggiarla: ma i nobili, il di cui odio ereditario erasi quasi spento sotto le persecuzioni sostenute in comune, si manifestarono i mutui soccorsi loro promessi dai magistrati; onde vergognandosi d'avere sparso il proprio sangue per soddisfare alla segreta gelosia de' plebei, convennero di vendicarsene praticando i medesimi modi adoperati con loro. Finsero un accrescimento di odio gli uni contro degli altri, fecero venire dai proprj poderi i loro vassalli, ed adunarono soldati nelle loro case senza che i dodici si opponessero a questi apparecchi, che credevano destinati alla vicendevole distruzione dei nobili. Frattanto questi si erano guadagnati tutti i capi del monte dei nove e molti plebei malcontenti, ed avevano riuniti in citt? ottomila uomini sotto le insegne delle due armate guelfa e ghibellina. Tutt'ad un tratto le due armate si unirono il 2 settembre del 1368, ed i loro capi chiesero alla signoria il possesso del palazzo e di tutti i luoghi forti. I dodici sorpresi da cos? subito avvenimento non ebbero pur tempo d'impugnare le armi per difendersi; onde ritiraronsi nelle loro case, e rinunciarono al governo che avevano tenuto tredici anni.
I nobili, padroni della repubblica, dichiararono di volere ristabilire a Siena il governo consolare, sotto il quale questa citt? aveva fiorito nel dodicesimo secolo. Nell'ordine dei nobili distinguevansi cinque famiglie d'una rimota antichit?, i Tolomei, i Salimbeni, i Piccolomini, i Saracini, i Malavolti. Cinque consoli furono scelti in cinque illustri famiglie, altri cinque nel rimanente della nobilt? e tre nell'ordine dei nove, che furono di bel nuovo messi a parte del governo.
Ma il popolo, ch'era stato lungo tempo in possesso delle magistrature, non poteva pazientemente soffrire di esserne escluso, e nell'agitamento d'una fresca rivoluzione, ogni parte ricorse all'imperatore e lo scelse arbitro. Carlo accett? con piacere le funzioni di mediatore, promise a tutti la sua protezione, ma si assicur? specialmente dei Salimbeni, di gi? disposti a separarsi dal loro ordine, e fece all'istante partire con ottocento cavalli Malatesta Ungaro, uno de' signori di Rimini, che nomin? vicario imperiale a Siena.
I nobili non volevano aprire le porte a questa piccola armata prima di vedere sanzionati i loro diritti con un trattato, ma il monte dei dodici ed il popolo erano pi? desiderosi di affidarsi all'imperatore, perch? avevano meno da perdere. Niccola Salimbeni, uno de' consoli, trad? i suoi colleghi per unirsi al popolo, ed il 24 di settembre fece entrare Malatesta Ungaro per la porta che gli era stata affidata. La nobilt?, sebbene sorpresa, si difese nelle strade, e soltanto dopo essere stata superata in pi? di dieci zuffe sostenute di posto in posto, usc? finalmente di citt? e si ritir? ne' suoi castelli.
Il popolo vittorioso era chiamato a dare una nuova forma al governo, ed a regolare la distribuzione dei diritti politici tra i diversi ordini dello stato. Non credette di potere abolire il passato, non essendo possibile che i cittadini rinunciassero ad affezioni ed a passioni ereditate dai loro antenati, ed alle quali andavano debitori della loro forza e della loro importanza. Perci? i nuovi legislatori riconobbero l'esistenza dei due monti dei nove e dei dodici, ne formarono un terzo, nel quale raccolsero i cittadini stranieri alle due precedenti oligarchie, e questo nuovo ordine, pi? numeroso che gli altri due, ebbe dalla riforma, da cui era nato, il nome di monte dei riformatori. La signoria fu composta di dodici magistrati, tre de' quali presi dalla prima classe, quattro dalla seconda e cinque dalla terza. La stessa proporzione si osserv? nella formazione dei due consiglj che dovevano assecondare la signoria, completando in unione alla medesima il governo.
L'imperatore, che tuttavia soggiornava in Lucca, vedeva con piacere le rivoluzioni di Pisa e di Siena indebolire le due repubbliche e prepararle a porsi sotto la sua dipendenza. Avrebbe ancor voluto eccitare qualche turbamento in Firenze, ond'essere poi chiamato a prendere qualche parte nel governo di quella ricca repubblica e cavarne danaro. Egli aveva fatti agli ambasciatori fiorentini amari rimproveri perch? la signoria avesse occupato Samminiato, Prato e Volterra, da lui riclamate come terre dell'impero, ed, appena giunto a Lucca, aveva spediti i suoi corazzieri ad occupare Samminiato ed a fare delle scorrerie nel territorio fiorentino. Ma tosto che la repubblica, determinata di difendere i proprj diritti colle armi, ebbe assoldata gente da guerra, Carlo si raddolc?. Trovavasi allora in cos? pressante bisogno di danaro che aveva impegnata in Firenze medesima la sua corona per sedicimila fiorini, la quale non aveva potuto ricuperare che prendendo questa somma a prestito dai Sienesi. Abbandon? dunque le sue pretese e part? alla volta di Siena, ove si trattenne pochi giorni, passando di l? a Roma.
Il papa non aveva motivo di essere soddisfatto della condotta tenuta dall'imperatore, che bruscamente abbandonando la guerra intrapresa contro i Visconti, aveva rovesciate tutte le speranze della Chiesa; ma Carlo si prese cura di riconciliarsi con Urbano colla pi? umile e rispettosa condotta; e mostr? di non avere altro scopo, rendendosi a Roma, che di abbassare la dignit? imperiale innanzi a quella del pontefice. Si trattenne prima a Viterbo per visitarlo, poi essendo giunto a Roma prima di lui, torn? addietro per aspettarlo a porta Angelica, di dove s'incammin? a piedi avanti al papa, prendendo il suo cavallo per le briglie e guidandolo fino al palazzo del Vaticano. I Romani, lungi dall'insuperbirsi per gli atti di rispetto renduti al loro vescovo, concepirono un profondo disprezzo pel monarca, che tanto si umiliava a' suoi piedi. L'imperatore fece coronare dal papa la sua quarta consorte, e dopo avere servito il pontefice alla messa come diacono col libro e col corporale, lasci? Roma e riprese la strada della Toscana.
Al suo ritorno a Siena, il 22 dicembre, vi trov? la discordia risvegliata dagli intrighi di Malatesta Ungaro, il vicario che vi aveva lasciato. Durante l'assenza dell'imperatore, i dodici avevano eccitata una nuova sedizione, sperando di ricuperare la loro antica autorit?; ma il tumulto non altro aveva ottenuto che di procurare maggior potere al monte dei riformatori; eransi aggiunti tre nuovi membri alla signoria, e si erano presi in quest'ordine, il pi? povero degli altri ed il pi? numeroso. I dodici, delusi per la seconda volta dalle proprie loro pratiche, erano pi? che prima irritati contro il governo. Porsero dunque avidamente orecchio alle segrete proposizioni dell'imperatore, ch'erasi impegnato di vendere al papa Siena ed altre citt? della Toscana, e aveva chiamato presso di s? il cardinale Gui di Monforte, legato di Bologna, con un grosso corpo di cavalleria, onde dare esecuzione al contratto.
Carlo IV, assicuratosi dei dodici e dei Salimbeni, domand? che la signoria mettesse in sua mano i cinque pi? importanti castelli del suo territorio, e che i gonfalonieri ed i soldati della milizia gli prestassero giuramento di fedelt?. Quest'inchiesta venne comunicata al consiglio generale che la rigett? con grandissima maggiorit? di voti. Ricus? pure d'accrescere il potere de' dodici come l'imperatore desiderava; il quale offeso da queste due negative, risolse di adoperare la forza. Dietro i di lui suggerimenti il 18 gennajo 1369 la fazione dei dodici diede mano alle armi, di concerto coi Salimbeni, per iscacciare di palazzo tre cittadini dell'ordine de' nove, che sedevano nella signoria. Nello stesso tempo Malatesta Unghero si port? sulla gran piazza colla sua cavalleria, e l'imperatore, armato di tutto punto, si pose alla testa de' suoi corazzieri e di quelli della chiesa. Tre mila corazzieri trovavansi allora riuniti in Siena sotto gli ordini di un monarca straniero. I tre signori dei nove, ai quali era stato portato l'ordine di uscire di palazzo per parte di Malatesta Unghero, si erano effettivamente ritirati, malgrado le istanze dei loro colleghi. Ma questi, rimasti soli, non si smarrirono; fecero suonare la campana d'allarme, ed ordinarono al capitano del popolo, Matteino Menzano, d'attaccare l'imperatore colle compagnie della milizia.
Massa, Montalcino, Grossetto, Telamone e Casole.
Mentre ancora durava la battaglia, la signoria aveva di gi? fatti richiamare i suoi tre colleghi dell'ordine dei nove, che la fazione dei dodici aveva cacciati di palazzo; furono ricondotti ai loro seggi a suono di trombette, coperti di ghirlande, e con un tralcio di ulivo in mano.
Il capitano del popolo non insegu? l'imperatore nelle case dei Salimbeni, sebbene gli fosse agevole il farlo prigioniere. Credette di dovere moderatamente usare della vittoria verso il primo monarca della cristianit?, e mostrargli tutti i riguardi nell'istante in cui pi? non poteva temerlo. Ma egli lo fece pregare per mezzo dei Salimbeni di uscire di citt?; e per rendere pi? efficace la sua preghiera, fece a suono di tromba bandire la proibizione di somministrare vittovaglie a lui o alla sua truppa.
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I Sienesi avevano valorosamente combattuto per difesa della loro libert?, nell'istante in cui avevano conosciuto il tradimento dei loro ospiti; ma malgrado questa momentanea unione, le fazioni in cui erano divisi non eransi riconciliate; ed appena l'imperatore fu partito, il 25 gennajo, che l'anarchia parve raddoppiarsi. I nobili esiliati facevano la guerra alla repubblica; i dodici ed i Salimbeni eransi resi esosi colla loro associazione ai nemici dello stato; i nove ed i riformatori sforzavansi invano di riconciliare le troppo accanite parti le une contro le altre. La guerra si prolung? parte della seguente state tra la citt? e le campagne, e non si termin? che il 30 giugno per l'intromissione dei Fiorentini, domandata dalle opposte parti. I nobili furono richiamati in citt?, rimessi ne' loro diritti, e dichiarati capaci di tutte le magistrature, tranne la signoria. Gli altri ordini continuarono a dividere gli ufficj superiori in una proporzione determinata dalle leggi.
L'imperatore, partendo da Siena, aveva da prima avuto intenzione di passare a Pisa; ma informato che questa citt? trovavasi sotto le armi, temette di trovarsi esposto ad una sedizione somigliante a quella da cui erasi appena sottratto, ed and? direttamente a Lucca, tenendo la strada di Vico Pisano.
Dietro le istanze dei due capi della compagnia di san Michele venne annullata la sentenza contro i Gambacorti, e Pietro fu richiamato co' suoi figliuoli in seno alla patria. Questi rientrarono il 24 febbrajo portando in mano rami d'ulivo, mentre i loro concittadini facevano eccheggiare le strade con grida di gioja, e le campane della citt? suonavano in rendimento di grazie. Pietro Gambacorti, giunto alla cattedrale, fece a nome di tutti gli emigrati la sua offerta ai piedi dell'altare maggiore. Giur? in appresso di mantenere lo stato popolare, di vivere da buon cittadino fra i suoi eguali, e di scordare e perdonare le antiche ingiurie.
Trovavasi per altro ancora in mano dei Raspanti una porta fortificata, quella ai Lioni, che i partigiani di Giovanni Agnello non avevano mai lasciata. Altri Raspanti eransi adunati a Lucca presso di Carlo IV, e cercavano di far sentire all'imperatore la facilit? di occupare Pisa per mezzo di questa porta. Carlo, strascinato dai loro consigli, fece imprigionare dodici ambasciatori che gli aveva spediti la repubblica, tra i quali contavansi i pi? distinti uomini dello stato, Pietro d'Albizzo di Vico, Gualandi di Castagneto, e Manfredo Buzzacherino dei Sismondi. L'imperatore, tenendoli come ostaggi, si applaudiva d'averli tolti ai consigli della repubblica. Nello stesso tempo fece avanzare il suo grande maniscalco con tutta la sua cavalleria verso Porta ai Lioni. Ma mentre i Tedeschi entrano in citt?, i Pisani, chiamati dalla campana d'allarme a difendere la patria, alzano palafitte in faccia alla porta occupata dai nemici. Tutte le panche della cattedrale, ch'era vicina, furono all'istante portate in istrada per formarne un nuovo riparo d'insolita forma, mentre gli arceri salivano sul battistero per combattere da quell'elevato luogo i nemici che occupavano la muraglia della porta. Un ingegnere pisano aveva tagliata astutamente la corda che doveva alzare il ponte levatojo della porta; onde i Tedeschi perdettero molto tempo prima di poter entrare in citt?, ed incominciare l'attacco. Quando ebbero vinto questo primo ostacolo, ne trovarono un altro maggiore nella ostinata resistenza de' Pisani. Le donne frammischiavansi ai combattenti per incoraggiarli, somministrando loro pietre e dardi. Dopo un'accanita zuffa i Tedeschi si ritirarono, ed il cancelliere dell'imperatore domand? di parlare segretamente cogli anziani. Si suppose che in questa conferenza avesse ricevuto un ragguardevole dono, poich? si osserv?, che appena terminata, fece ritirare tutte le sue truppe. Quaranta fanti, che aveva lasciati per guardia alla porta ai Lioni, furono subito forzati ad arrendersi, e le opere interne che formavano di questa porta una specie di fortezza, furono dal popolo spianate.
Le nuove grazie di Carlo costavano ai Lucchesi nuovi regali, e gli obbligavano a dare nuove feste; onde l'acquisto della loro libert? non fu compiuto che col prezzo di trecento mila fiorini. Per quanti sforzi facessero i Lucchesi, non giunsero a pagare l'intera somma avanti la partenza dell'imperatore. Questi lasci? la citt? il 5 luglio e s'avvi? per Pescia, Pistoja e Bologna alla volta della Germania. Egli si valse dei tesori acquistati con tanta vergogna per ornare Praga, sua capitale, di sontuosi edificj; ed il magnifico ponte da lui fabbricato sulla Moldava ? un insigne monumento della dignit? imperiale prostituita in Italia.
I Lucchesi rimasero ancora per lo spazio di un anno sotto l'autorit? del cardinale di Monforte; poco manc? che non cadessero in potere di Barnab? Visconti, che cercava ora di sorprendere la citt?, ora di comperarla dal legato. Finalmente riuscirono, col soccorso de' loro amici, a riunire il danaro necessario per liberarsi dal Monforte. I Fiorentini prestarono loro venticinque mila fiorini, Francesco di Carrara quindici mila, quindici mila il marchese d'Este, e cinquanta mila papa Urbano V; onde in aprile del 1370 il cardinale di Monforte, dopo avere ricevuto tutto quanto gli si doveva, part? da Lucca per tornare in Francia, restituendo agli abitanti le chiavi delle porte della citt? e della fortezza.
Per tal modo la repubblica di Lucca riebbe la sua libert? dopo esserne rimasta priva dal 14 giugno 1314, giorno in cui una dissensione nel partito guelfo aveva fatti trionfare i Ghibellini, ed aperta la citt? ad Uguccione della Fagiuola.
Osservisi nel t. IV, il c. 28.
In cinquantasei anni di servit? sotto diversi padroni, ma tutti egualmente oppressivi, Lucca aveva perduta la sua popolazione, le sue ricchezze, le manifatture, il commercio, oltre un'importante provincia per cos? piccolo stato, la Val di Nievole. Ma i suoi cittadini, sottrattisi in piccolo numero al ferro de' nemici, esiliati e dispersi in lontani paesi, o incatenati nella stessa loro patria dalla povert?, non avevano perduto ci? che forma la vita delle nazioni, ci? che pu? dopo un lungo intervallo rinnovare la loro esistenza, l'amore ardente della libert?. Essi non si avvezzarono giammai alla servit?, n? si risguardarono mai come diventati propriet? de' loro padroni; e sebbene nati in servit?, si sentirono degni della libert? perch? i loro antenati l'avevano posseduta. Essi non lasciaronsi avvilire dalle difficolt?, e ricorsero a vicenda, senza perdere il coraggio, alle armi ed ai trattati; associarono la sorte loro a quella d'un monarca, ch'essi sforzarono a meritarsi quella riconoscenza, che anticipatamente gli prodigavano; tante prove gli diedero d'affetto e di attaccamento, che terminarono col far credere al pi? avaro ed al pi? egoista di tutti gli uomini, ch'egli ancora gli amava; e nella miseria loro trovarono immensi tesori per acquistare da lui il pi? prezioso di tutti i beni.
La cittadella che Castruccio aveva fabbricata, ed intitolata Augusta, o Gosta, sembrava ai Lucchesi un monumento della passata loro servit?, ed un pericoloso strumento di tirannide per venturi ambiziosi, e la spianarono interamente; e perch? l'antico palazzo della signoria, posto sulla piazza di san Michele, sembrava loro meschino per le speranze che riponevano nell'avvenire, fondarono sulle ruine della distrutta fortezza un nuovo palazzo d'una imponente architettura, che fino ai giorni nostri ? stato la residenza del governo.
Giovanni Paleologo, oppresso dalle armate di Amurat, aveva perduto Adrianopoli e la Romania, e, rinserrato nella sua capitale, temeva ogni giorno d'esserne scacciato, quando risolse di venire ad implorare contro i Turchi i soccorsi degli Occidentali. Abbjur? per la seconda volta lo scisma de' Greci; fu ammesso a baciare i piedi al papa; condusse la di lui mula per la briglia come aveva fatto Carlo IV, e divise gli onori e le umiliazioni degl'imperatori d'Occidente. Ma niun altro frutto raccolse dal suo abbassamento, che inutili bolle e vane raccomandazioni. Il re di Francia, sebbene eccitato in suo favore dal papa, non pot? accordargli verun soccorso; e quando il Paleologo, senza danaro e senza soldati, part? alla volta de' suoi stati venne per debiti imprigionato a Venezia. Andronico, il maggiore de' suoi figliuoli, ricus? d'impiegare una parte delle pubbliche entrate per liberarlo, ed il secondogenito, Emmanuele, non lo rese libero che costituendosi prigioniero in sua vece.
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