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Read Ebook: Brandelli by Guerrini Olindo

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Ebook has 1036 lines and 140084 words, and 21 pages

Come sorveglia il Ministero le biblioteche dello Stato? ? una innocente domanda alla quale non so che risposta si possa dare. Il Ministero infatti si contenta dei rapporti, dei conti e delle statistiche che gli mandano i bibliotecari, onestissima gente, incapace di usare nemmeno in sogno de' quattrini e delle cose pubbliche, ma soggetta come tutti gli uomini di questo mondo a sbagliare. Onestissima gente, piena di buona fede, ma esposta a tutti i pericoli cui la buona fede espone: almeno cos? si ? visto nella biblioteca Vittorio Emanuele. Come dunque sorveglia il governo, come si guarda da questi pericoli? Con un semplicissimo sistema che ho visto nel 1870 applicato alla nettezza pubblica in Subiaco: aspettando cio? che la divina provvidenza mandi un temporale a spazzar via tutto, il buono e il cattivo, le immondizie ed il bucato disteso, aspettando un qualche pasticcio troppo grosso per nominare una commissione d'inchiesta che faccia piazza pulita alle immondizie dell'avvenire. Questo sistema sublacese ? economico, ma via, non ? igienico.

Ma qui pu? darsi che questa millesima istituzione di ispettori sollevi qualche opposizione. Delle sinecure ce ne sono tante, che fare una diecina di canonicati di pi? non torna conto.

Debbo dunque credere che nel meccanismo del ministero manchino le parti necessarie al controllo di cui parliamo: e se, per tema di istituire dei canonicati, non si vuol mettere assieme un congegno fisso, se ne pu? combinare benissimo uno staccato, intermittente, volante. Voglio dire che si possono mandare delle persone pratiche ora al nord ora al sud, per dare un'occhiata ai libri, ai cataloghi, ai servizi. S'intende che non bisognerebbe avvisare una settimana prima che il commendator tal de' tali arriva alla tal'ora per fare un'ispezione, e s'intende che non bisognerebbe mandare un bibliotecario a riveder le bucce al collega. Dato che nelle biblioteche avvengano degli inconvenienti, mi pare che il cercare di conoscerli a tempo non sia mal fatto; ma anche qui s'intende che al Ministero dovrebbero leggere i rapporti e non dare ragione a quella tradizione burocratica secondo la quale un ispettore mise una sardella tra le pagine del suo rapporto, e tutte le volte che torna a Roma a domandare un avanzamento, si reca agli archivi dove ha la soddisfazione di constatare che la sua sardella ? religiosamente conservata. Il che davvero consola, poich? prova che almeno gli archivisti fanno buona e fedele guardia.

In tutto questo non c'? nulla che possa offendere i bibliotecari. Non c'? un colonnello che si creda offeso quando il generale viene a fare l'ispezione; una misura generale non pu? offendere le suscettibilit? degli individui. La Leda del capitano Salvi era una buona cavalla senza dubbio; ma se il capitano non l'avesse tenuta tra le gambe, credete che sarebbe arrivata a Napoli in tempo per vincere la scommessa? Era una buona cavalla, ma se il capitano si fosse addormentato, credete voi che non si sarebbe fermata un pochino a pascere un po' d'erba sui margini della strada Non si fa torto alla buona cavalla dicendo che fu aiutata molto dallo stimolo del cavaliere.

Insomma, ispettori o no, pare oramai che a questa faccenda delle biblioteche sia da pensarci sul serio. I nostri nonni avevano l'abitudine di imprimere sul frontespizio dei libri certi bolli madornali che tra l'inchiostro e le frittelle d'olio coprivano ogni cosa. Ebbene, si deve a questa bestiale abitudine, a queste frittelle indelebili, se molti libri non hanno emigrato; e se nella biblioteca Vittorio Emanuele ci fosse stato un frittellume come dico io, l'emigrazione sarebbe stata minore. Parecchie biblioteche non hanno altro riparo contro le ugne dei bibliofili, letterati o no, che il bollo, in mancanza di cataloghi e d'inventarii. E notate che i bibliotecari non ne hanno colpa, poich? a fare un catalogo ci vogliono delle braccia e dei quattrini che il governo non d?, e che i bibliotecari, con ragione, non vogliono metter del loro. Se dunque questa propriet? dello Stato, questa ricchezza della nazione fosse un po' meglio curata, sorvegliata, difesa, che male ci sarebbe? Almeno il ministro si risparmierebbe di dover confessare i suoi rossori e noi italiani non faremmo la bella figura che facciamo. Dico bene?

DELLE BIBLIOTECHE

E i bibliotecari? Ella ne cerchi i nomi nell'annuario della Istruzione pubblica e trover? nomi sempre rispettabili, spesso illustri; ma illustri in tutto fuor che per la loro opera di bibliotecari e di bibliografi.

Come avviene questo?

I regolamenti, altra invenzione prelibata per semplificare le cose, i regolamenti vogliono ora che per diventare bibliotecario si sia stato prima vice-bibliotecario; al qual posto non si pu? aspirare se non si ? prima stato assistente di primo grado, e cos? gi? fino agli assistenti di quarto grado, ai distributori e magari all'usciere. Si sa che questi regolamenti li hanno fatti quelli cui tornava conto, ma lasciamo andare. Resta che la carriera ? chiusa a chi non percorra grado a grado tutta la scala. Se tornasse al mondo Ludovico Muratori, dovrebbe cominciare la sua carriera da fantaccino, anzi forse non la potrebbe nemmeno cominciare perch? non avrebbe sostenuto l'esame di licenza liceale. Io conosco un signore, signore per sua fortuna, che ? riputato per uno dei primi, il primo forse dei nostri bibliografi. Egli mise alla posizione il povero Panizzi che era pur qualche cosa, egli ? domandato di consigli da tutti i bibliografi d'Italia e di fuori, a lui ricorrono tutti quelli che hanno bisogno di sapere quello che nessun bibliotecario nostro s'? sognato mai di sapere. E'un signore, beato lui, e fa il bibliotecario della biblioteca sua; ma se domani, che Dio lo scampi e liberi, gli venisse la bizzarra idea di diventar bibliotecario del Governo, si sentirebbe rispondere a furia di articoli di regolamento che non pu? essere bibliotecario chi prima non ? stato ecc. Insomma, all'et? di circa sessanta anni, stimato e rispettato per uno de' migliori bibliografi viventi, si sentirebbe offrire il posto di alunno. I regolamenti non ci sono per niente ed hanno chiusa la porta in faccia anche a me che scrivo, dopo tre anni di tirocinio. Nessun ministro e nessun regolamento mi ha creduto capace di saper leggere e scrivere, e non lo dico gi? coll'amaro in bocca. Figurarsi!

Lo strano ? che con questo bel sistema di reclutamento si siano avuti fin ora degli impiegati onesti. Ella notava alcuni furti accaduti nelle biblioteche del regno e specialmente nella Vittorio Emanuele di Roma. Non sarebbe difficile farne una lista lunghissima, ed ? noto che molte delle cose nostre rarissime od uniche bisogna cercarle ora nelle biblioteche inglesi. Con tutto ci? io dico e sostengo che gli impiegati sono onesti, poich? colla facilit? del furto e colla paga derisoria che hanno, avrebbero a quest'ora dovuto vendere anche le scansie.

Conclusione:

PER UNA GUIDA

Luoghi pi? belli non ne avevo mai visti.

Sul giogo dell'Appennino centrale, dove la strada, raggiunto il valico tra la valle romagnola del Montone ed il Mugello dall'Alpe di San Benedetto scende a San Godenzo, sono alcune case bige, misere ed aggrondate. Il vento lass? imperversa con furia d'inferno e le case hanno certe finestruole dove, non che il vento, non passa nemmeno l'ossigeno. Ivi, lungo la strada e pel tratto di parecchi metri, sta un muraglione massiccio e gigantesco, ornato di una iscrizione che narra come l'ultimo Granduca facesse costruire quel riparo perch? il vento non travolgesse pi? le carrozze, i cavalli e di viandanti nei borri l? sotto.

Come quel fiume, c'ha proprio cammino Prima da monte Veso in ver levante Da la sinistra costa d'Appennino, Che si chiama Acquacheta suso, avante Che si divalli gi? nel basso letto, Ed a Forl? di quel nome ? vacante, Rimbomba l? sovran San Benedetto Da l'Alpe, per cadere ad una scesa Ove dovria per mille esser ricetto; Cos? ecc.

L'ultima delle casupole che stanno sul valico ? l'osteria della Mea, dove giungemmo sull'imbrunire. Ai Poggi, poco lontano, c'era stata in quel giorno una fiera celebre nei dintorni, e la strada davanti all'osteria, era affollata. Eravamo appena giunti, che tutti quei montanari, come presi da una convulsione fulminea, cominciarono a gridare ed a regalarsi reciprocamente certi pugni che parevano catapulte. La nipote della Mea con un coraggio da amazzone si ficc? a testa bassa nella mischia per difendere il fratello Marco che stava facendo una splendida collezione di quei pugni montanari, e noi dietro per strapparla dalla mischia, prendendola a traverso, tirandola e brancicandola senza riguardo. Se non fossero stati quei benedetti pugni che grandinavano fitti e saporiti, la nostra missione di difensori delle dame sarebbe stata invidiabile, perch? l'Agatina ? una bella ragazza in parola d'onore; ma avevamo troppe distrazioni per pensarci bene in quel momento.

Ma per rendere pi? solida la riconciliazione, pensammo di ricorrere alle delizie della coreografia. C'era un suonatore d'organetto che per salvare il suo istrumento dalla battaglia aveva preso tanti pugni quanti ne poteva portare. Lo consolammo a contanti e la Mea port? via la tavola della camera pi? grande, accese quattro candele di sego e diede all'Agatina il grazioso permesso d'aprire il ballo coi pacieri. E si ball?.

Infelicissima idea! Non c'erano donne e i buoni montanari cominciarono a ballare tra loro. Noi, che avevamo in corpo qualche diecina di chilometri di strada montana, dovevamo alzarci alle due dopo mezzanotte per salire la Falterona e scendere a Stia in Casentino; ma quando ci recammo ai nostri canili per riposare, ci accorgemmo con terrore che la sala da ballo era proprio sulla nostra testa. Il palco di tavole, sorretto da un trave lungo ed elastico, salvata fragorosamente sotto le scarpe ferrate dei danzatori montanini, e l'organetto cigolava lamentandosi come una ruota mal'unta, e la casa intera vibrava dalle intime viscere come se le passasse attraverso un reggimento di artiglieria al galoppo. Andate a far del bene!

Non ci fu verso di chiuder occhio. Prima cominciammo a prender la disgrazia con rassegnazione e, distesi sui pagliericci, raccontammo le storielle pi? allegre, le avventure pi? galanti del nostro repertorio: poi ci seccammo, ci impazientimmo, ci tornammo a seccare, finch? verso un'ora impresi l'autentica narrazione del mio primo amore ed i miei compagni s'addormentarono.

Camminare la notte nei monti deserti per sentieri da capre e non conosciuti, fa sempre una profonda impressione. Si cammina nell'oscurit? e nell'ignoto. Qualche volta la guida vi fa fare un salto nel buio, ma non metaforicamente; fisicamente e sul serio. Si va senza sapere quel che ci sia a destra e da sinistra, o tutt'al pi? sapendo che sotto quei monti c'? il borro del Forcone, il fosso del San Godenzo, nei quali si pu? precipitare dall'altezza di qualche diecina di metri; e qualche volta si ha una improvvisa sensazione del vuoto che vi fa allargare le braccia o mettere le mani avanti come se in verit? cadeste. Le scarpe ferrate risuonano sulle rocce nude e nel silenzio; poi si cammina sull'erba soffice, sui muschi che paiono velluto, senza alcun timore. V'accorgete di voltare, di salire, di scendere, e qualche volta sentite di passare vicino ad un albero o ad uno scoglio, senza vederlo. Il mistero non vi abbandona mai, vi sforza all'attenzione, vi pesa addosso come quando si aspetta qualche cosa e non si sa che.

All'alba giungemmo ad una casa di pastori, proprio sotto al giogo della Falterona. Una donna non ancora vecchia, ma deturpata dagli stenti della vita nomade, chiam? col fischio certe capre e ci munse il latte caldo e spumante. Il monte ci stava innanzi gigantesco, colle sue coste chiazzate di prati verdi o di abet?e quasi nere, alto alto, tanto che a vederne la cima dovevamo alzare la testa e torcere il collo. Salire dritti alla cima non ? facile per le dense fratte di faggi cedui inestricabili come siepi. C'? caso di non poter salire che tagliando i rami fitti e pestando le vipere velenosissime che brulicano nell'ombra umidiccia. Avevamo l'ammoniaca con noi, ma nessuna voglia di usarla, e volgemmo quindi verso levante per avvicinarci alla punta di Modina e dal Pian delle Fontanelle dirigerci alla vetta.

Oh, il magnifico bosco! Gli alberi qui non sono tisici e mortificati come nei nostri civili giardini pubblici, ma alzano superbamente al cielo i fusti rigogliosi e le braccia robuste, si aggavignano alla madre terra con certe possenti radici di cui i primi serpeggiamenti sono scoperti, rugosi, immani. L? bisogna andare per sentire il

Mormoreggiar di selve brune ai venti Con susurrio di fredde acque cadenti Gi? per li verdi tramiti dei monti:

l? bisogna andare per sentire quanto sia meravigliosa la natura e misera la parola che vorrebbe dipingerla; per capire come si possa odiare il consorzio umano e farsi eremita ad adorare il bello... almeno un giorno. Andate l?, cercate un pilastro in rovina dove ? scritto:

QUESTA MAEST? FECE FARE LUCA DI LOTTO PER VOTO A. D. 1588:

sedete e fate colazione. Se non vi sentite poeti almeno per un quarto d'ora, state certi che non lo sarete mai, campaste pi? di Matusalemme: se non capite la sublimit? di quella viva e giovane bellezza che si desta col giorno ai canti degli uccelli, allo sbocciare dei mughetti, al vibrare dell'aria serena e pura, girate il mondo come commessi di commercio per vendere acciughe e candele di sego, ma non mai colla pretesa di capire che cosa sia la bellezza.

A 1280 metri sul mare mangiammo eccellenti lamponi cogliendoli sul margine nel sentiero come nei prati si colgono le margheritine: a 1650 perdemmo la parola davanti a uno spettacolo immenso. Eravamo sull'ultima vetta della Falterona, e sotto di noi, per quanto l'occhio poteva, non vedevamo che un mare, proprio un mare di monti! La nostra ammirazione non pot? manifestarsi che per via d'interiezioni irragionevoli e di gesti illogici. Possibile che il mondo sia cos? bello?

Tutto l'Appennino centrale dal sasso della Verna al Cimone di Fanano era sotto i nostri piedi, e pi? lontano, sfumate nell'azzurro, facevano capolino vette pi? alte. L'Adriatico luccicava a levante, e a mezzogiorno, verde ridente quasi ci tendesse le braccia, si apriva il bel Casentino fino ad Arezzo. Si pu? campare mille anni, ma quel momento non si pu? dimenticare. Viene un momento, nel silenzio solenne della montagna, che il sublime vi sgomenta e vi sentite costretti a chiuder gli occhi per la vertigine dell'immenso. La vita ha poche ore cos? piene, cos? grandi. Scendere ? un dolore.

Entrati nella patria del Tanucci, la gente ci guardava con molta curiosit?, quando un giovane ci venne incontro chiedendoci se fossimo soci del Club Alpino.

--Indegnamente,--rispondemmo.

Ma se capitano in Casentino mi perdoneranno di certo.

MONTE CORONARO

Da tre giorni infatti camminavamo in media sedici orette salendo e scendendo l'Appennino. La Falterona da un giorno non l? vedevamo pi?, quando da Camaldoli, per Cotozzo, scendemmo a Badia Prataglia. Gli operai della strada tosco-romagnola, che valica l'Alpe di Serra a Mandrioli, riempivano l'unica osteria, e ci convenne dormire sui banchi e sulle tavole, di dove ci levammo alle tre del mattino indolenziti e pesti. Avevamo bevuto alla sorgente dell'Arno e volevamo bere ad ogni costo a quelle del Tevere.

Un giovinotto, che aveva a cottimo alcune opere lungo la via, ci fu guida sino al valico di Mandrioli. Chiuso e freddo come un vero montanaro, camminava tranquillamente nel buio senza dir parola, senza nemmeno animarsi ai dolorosi ricordi di Custoza dove era stato granatiere. Camminavamo silenziosi dietro di lui, senza sapere dove, ora sui ciottoli, ora sull'erba, ora tra i faggi che indovinavamo ritti ed immobili nell'oscurit?. Salire i monti a notte alta, sotto i boschi che paiono addormentati, nel silenzio profondo, pei sentieri da capre ignoti e ripidi, ? un piacere da non potersi dire. L'aria viva stimola il sangue, l'attenzione aguzza i sensi. Sentite lo scricchiolare sotto i piedi della foglia morta, il frusc?o delle frondi che strisciate, il respiro di chi vi precede. Vi sentite vicino, tra le frasche, certi movimenti misteriosi come se qualcuno ci fosse nascosto, e pi? lontano certi tonfi sordi come di un sasso che cada nella terra molle. E sopra questi tenui rumori sta il silenzio, il silenzio immane della montagna, il silenzio che sembra vegliare aspettando. E si cammina nel buio umido della macchia per sboccare qualche volta all'aperto in un chiarore grigio e diffuso che non lascia discernere nulla di preciso, ma sfuma in alto i profili dei monti come in una nebbia densa. Di tratto in tratto passa tra i rami immobili come un fremito leggero che si desta: poi si chetano e il cielo che appare tra le frasche diviene pi? bianco e si travedono come dietro a un vetro appannato i tronchi neri e le striscie chiare de' torrentelli. Salimmo cos? fino al culmine dell'Alpe di Serra, e fino all'alba: poich? affacciati finalmente al valico di Mandrioli e ficcato l'occhio gi? per l'aperta valle del Savio, una striscia quasi rosea ci segn? all'orizzonte l'aurora vicina e ci indic? il mare lontano, spiagge di Rimini e di Cattolica.

Ivi, proprio sulla spina dell'Appennino, proprio dove le acque si dividono per scendere all'oriente nell'Adriatico, all'occidente nel Mediterraneo, intirizziti dal venticello dell'alba, attendemmo la nuova guida, un operaio di Verghereto, che ci doveva condurre a Monte Coronaro. A poco a poco ci si vedeva meglio e nel versante toscano discernevamo il verde cupo dell'abet?o, mentre gi?, nel romagnolo, la vallata pi? aperta e pi? nuda si colorava di toni grigiastri e freddi. Il monte Coronaro ed il monte Fumaiolo si disegnavano nettamente nel cielo di un bianco azzurrognolo, e lungo i loro fianchi si distinguevano le larghe chiazze bige impressevi dalla sterilit?.

E lungo il crine dell'Alpe di Serra, volgendo colla nuova guida al sud-est-sud, ripigliammo il viaggio. Il mattino era desto, e guardando gi? tra i faggi, vedevamo le pecore nei prati verdi salire al pascolo e ci pareva d'essere in Arcadia. L'ecloga era dappertutto e l'idillio cantava dentro di noi. Quanto era lontana la citt? colle sue vie roventi, colle sue botteghe che soffiano l'afa, co' bugigattoli dove s'arrostisce vivi! Quant'erano lontani i caff? asfissianti, i teatri ribollenti, gli uffici, le mosche, i telegrammi Stefani! Arcadia! Arcadia! E ci tornavano in mente versi di Virgilio e di Iacopo Sannazzaro, strofe di Andrea Ch?nier che non sapevamo di ricordare. E laggi?, dall'orizzonte rosso, prorompevano fasci di luce gialla e le cime si coloravano e i monti, gli alberi, i prati si destavano in un inno di gioia e di resurrezione. Il sole! Il sole!

A mezza costa, in un pianerottolo dove per ironia c'era un po' d'erba e un po' d'acqua, sedemmo a mangiare un boccone, e poi gi? di nuovo, col sole in faccia e il cielo che pareva uno speccio d'acciaio. E, come piacque al destino, dopo un'ora di questa terribile via, ci trovammo gi? in fondo, sotto Folcente, accanto ad una croce di pietra, in un poco d'ombra. Ci buttammo tutti sull'erba a respirare; anche la guida. La volutt? di un quarto d'ora di riposo ce la eravamo guadagnata.

Poi su di nuovo, verso Montioni, sudando sempre, ansando sempre. Non pi? alberi, non pi? erba, non un segno di vegetazione. Il terreno duro, friabile, cenerognolo, non consente la vita nemmeno alla gramigna e tutto porta il marchio di una desolazione squallida, di una aridit? grigia da non invidiare il deserto. Ci pareva di camminare sulle ceneri semispente di un focolare, e nell'aria secca ed infocata il riflesso del sole accecava e le ombre si disegnavano dure, taglienti, nerissime. A sinistra, negli sbattimenti bianchi della luce meridiana, strizzando gli occhi si discerneva Verghereto, povero comunello perduto su questi monti ingrati cui gli Annali Camaldolesi tentarono indarno di acquistar fama col supposto castello di Uguccione della Faggiola. E via via, per questa cenere maledetta che le acque pioventi trasformano in lisciva e portano al Savio, per questi declivi calcinati che franano ad ogni stagione, giungemmo alle falde del Monte Fumaiolo, nel povero villaggio di monte Coronaro.

Ci parve di entrare in un racconto di Edgardo Poe, in una delle fantasticherie malate dell'Hoffmann. Nelle case cadenti, nelle mura rugginose e sconnesse si spalancavano i vani neri delle finestre ai quali non si affacciava anima viva. Le stradicciole scoscese, arroventate sino al color bianco, erano deserte. Di quando in quanto certe figure lacere o giallastre attraversavano i viottoli senza far rumore, a capo chino, come se pensassero a qualche mistero profondo, e incontrandosi non movevano nemmeno gli occhi, quasi non vedessero, non sentissero, assorte in una paurosa contemplazione. Altrove i fanciulli ci correvano incontro, i villaggi andavano a rumore per l'arrivo dei viaggiatori dai cappelli stravaganti, dalle uose bianche, dai bastoni spettacolosi: qui, niente. Pareva d'essere nel mondo dei sogni, in un mondo di forme senza densit?, di spettri pensosi, lenti, muti, che passavano senza vederci e ci lasciavano come una strana impressione d'impassibilit?, una penosa sensazione di fatalit? indefinita.

Tutte le mosche, delle quali all'aria aperta avevamo osservata e benedetta l'assenza, tutte le mosche erano convenute nell'ampia cameraccia dell'osteria, forse a celebrare un centenario od eleggere un deputato. C'erano tutte e ronzavano lente, solenni, in chiave di contrabbasso attorno all'ostessa, donnona un po' flaccida che faceva gli occhi di triglia cotta ad un giovinastro fra il giallo e il livido. Presso la cappa del cammino, sopra un alto seggiolone sedeva un povero diavolo, giovane ancora ma curvo e disfatto, con due occhi che parevano buchi con una scintilla in fondo.

Serrava tra le ginocchia le mani stecchite e chinava sul petto la barba nerissima. Era il marito dell'ostessa e la gelosia non lo rodeva, ma la febbre maremmana. Nel pieno vigore dell'et? e della forza si sentiva ardere e consumare il sangue dentro e con un accento di cupa malinconia ci contava gli stenti della maremma dove scendeva l'inverno a fare il guardiano per non so qual principe. Di quando in quando un tremito ed una contrazione spasmodica delle mascelle gli strozzavano il discorso nelle fauci e allora fissava gli occhi profondi nei carboni accesi come se ci vedesse qualcuno. L'ostessa intanto, piena di una mobilit? nervosa, ammanniva il nostro desinare scherzando ed occhieggiando il cicisbeo, mentre in un angolo la sua figliastra, piuttosto belloccia, filava tutta pensierosa e seguiva ostinatamente cogli occhi le evoluzioni degli innamorati, senza aprir bocca mai, senza scomporre la seria immobilit? del volto. Cos? ci fu spiegato come si possa vegetare su questi monti di cenere arida. I maschi scendono ad avvelenarsi in maremma, e le femmine, prima che siano morti, passano a seconde nozze.

Dopo il pasto frugale gli amici miei si buttarono su certi eculei che a Monte Coronaro chiamano letti. Io che di giorno non posso dormire, volli sedermi sullo scalino dell'uscio, ma le mosche, le quali fin dal pranzo ci avevano intimata una guerra feroce, o fosse per un odio particolare verso di me che non le posso soffrire, o perch? vedendomi solo stimassero pi? facile la vittoria, mi furono tutte addosso come ad una... no, come ad un vaso di miele. Io poi che non mi lascio posar mosche sul naso, reagii vigorosamente; ma stavo per soccombere al numero, quando un'ombra nera mi intercett? la luce. Alzai gli occhi come Diogene, ma invece di Alessandro vidi il piovano.

Mi parve un buon diavolo, modesto, premuroso, ma un po' duro di orecchio; e mi preg?, quando i compagni fossero levati, di condurli a bere il caff? da lui. Ringraziai e se ne and? contento. Interrogai gli indigeni per sapere, cos? senza parere, se facevamo bene o male andando, e le informazioni furono favorevoli. Del resto egli era in paese da pochi giorni. Il suo predecessore, buon diavolo anche lui, aveva avuto una gran debolezza pel fiasco, e i buoni parocchiani mi raccontarono che in una notte oscura dovendo portare i sacramenti ad un infermo lontano qualche miglio, un po' pel buio, un po' per l'estratto d'uva, rotol? malamente in un burrone co' sacramenti addosso e si fiacc? la noce del collo. Del resto i poveri sacerdoti perduti quass? e le briglie della gerarchia senza della disciplina, cascano spesso in qualche vizietto che i parocchiani e la curia sanno compatire. Mi raccontavano di un piovano, l? verso Corniolo, che una volta per miracolo fu visitato dal vescovo. L'ottimo prete fece quel che pot? per alloggiare bene il superiore e specialmente in cucina si vedeva la solennit?. Perpetua faceva prodigi, e un bel bimbo seduto accanto agli alari girava assiduamente lo spiedo. Bisognava attraversare la cucina, e fu proprio vicino agli alari ed all'arrosto che il vescovo chiese al piovano come diavolo facesse a passarsela lass? nei lunghi mesi d'inverno.--Monsignore--rispose il piovano--mi occupo. Faccio dei girarrosti.

Il vescovo guard?, ma finse di non capire.

Ma il piovano di Monte Coronaro non ci parve capace di fare uno sdrucio cos? largo nei sacri canoni. Ci mostri la chiesa, vasta cameraccia cadente che per fienile sarebbe stata brutta. La pietra di un altare ? fatta con una iscrizione cristiana e qui si conservava una croce proveniente dalla scomparsa Abbazia di Trivio. Ma ci colpi pi? di tutto il confessionale, che consiste in un solo asse mal disgrossato interposto fra il penitente e il prete. Qui dunque la confessione ? pubblica, vista da tutti per colpa del confessionale e sentita da tutti per l'udito sordo del piovano.

O come fa a confessarsi l'ostessa?

Ma non ? proprio sacrilegio, scherzare su questo povero prete. Quando nell'inverno imperversano certi venti da scornare i bovi e certe burrasche da portar via il monte, quando la neve ? per aria e per terra, e i poggi franano, e ad ogni passo si rischia di cascare all'altro mondo, il povero piovano si alza di notte male avvolto nel suo gabbanello e ruzzola gi? pei borri a portare l'olio santo a qualche villanzone che non ci crede. Intanto i canonici, che hanno cenato bene, dormono caldo nei loro letti cittadini a maggior gloria della prebenda grassa, e il pievano di Monte Coronaro per campare ha in tutto 38, dico trentotto, lire al mese. Giustizia distributiva! Non hanno ragione questi poveri piovani di montagna se qualche volta cadono in tentazione? Sono preti, ? vero; ma sono poi anche uomini, e il canonico che ? senza peccato scagli la prima pietra. Cos? meravigliati e scandalizzati ripigliammo la strada per salire a quelle sorgenti del Tevere che le geografie approvate e adottate fanno nascere coll'Arno. Per via componemmo un abbozzo di petizione al Parlamento, chiedendo per certi geografi un anno di domicilio coatto a Monte Coronaro.

PROPRIET? LETTERARIA

Signor Lettore, io sono un modesto editore tipografo, sconosciuto forse a Lei ed a parecchi suoi amici, ma non a tutti coloro che in queste campagne si occupano dei presagi del tempo, dell'epoca migliore per seminare, mietere, vendemmiare, concimare e simili atti ragionevoli che in fondo sono, oso dirlo con legittimo orgoglio, la vera ricchezza della nazione. Qui, in Casalecchio di Reno, florido comune a sei chilometri da Bologna, io solo esercito la nobile professione dell'editore tipografo, io solo ed i miei due compositori possiamo vantarci eredi e continuatori di Aldo Manuzio; io solo e me ne tengo, stampo gli avvisi del municipio in caratteri elzeviriani.

Innalzo alla Divinit? ardentissime preci perch? mi sia risparmiato il sapere quello che poi sia successo al ministero, quante minute siano state scritte, quanti registri siano stati incomodati, quanti numeri di protocollo occupati, quanta carta, quante firme e quanto tempo sciupati in forza dell'art 6. Mi contristerebbe il saperlo , e del resto gl'impiegati non hanno a mangiare il pane a ufo. Intanto, dopo tre giorno e dopo aver rifatto coll'asma i sei chilometri di via e gli scaloni della prefettura, riebbi una delle mie famose dichiarazioni in carta bollata, corredata finalmente da un certificato del deposito fatto, e me ne ritornai a Casalecchio allegro come un fringuello.

La mia indignazione fu gigantesca. Non posi tempo in mezzo, rifeci la strada volando e capitai come una saetta addosso al mio avvocato. Costui, annusando una causa, mi fece bere un bicchierino di vermutte e volle sapere per filo e per segno tutta l'odissea del mio povero lunario. Gli contai tutto, gli consegnai il certificato della prefettura, mi lasciai dire che bisognava far causa, che ero sicuro del fatto mio e che i birbanti l'avrebbero pagata. Intanto gli lasciai mandato di procura e duecento lire di deposito per le spese.

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