Read Ebook: Prose (1880-1890) by Pascarella Cesare
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Ebook has 931 lines and 87760 words, and 19 pages
-- Evviva... Evviva... -- esclam? allora una voce di sotto alle tavole del pavimento. -- Nel mio studio piove acqua e nel tuo piove vino, eh!
-- Oh, Mario! vieni su! -- grid? il triestino, chinando la testa verso l'assito.
-- Vengo. -- rispose la voce di sotto al pavimento di tavole, e s'ud? il colpo d'un uscio che si chiudeva.
-- ? lo scultore che sta qui sotto. -- Ci disse il pittore: e non aveva finito di dirlo quando la porta dello studio s'apr? ed entr? un giovinotto tarchiato, vestito d'un camiciotto di tela gialla, con in capo un berretto rosso alla turca. Rest? sorpreso nel vederci e poi chiese al triestino: -- Non sei partito?
-- Parto stasera. Bevi! -- E vuotato il resto del vino in un bicchiere, lo porse allo scultore, dicendogli: -- Ti presento i nuovi inquilini.
Noi ci inchinammo ed egli dopo aver toccati col suo bicchiere i nostri: domand? al pittore: -- E tu? Non bevi?
Il litro era vuoto.
-- Aspetta! -- fece lo scultore, ed usc?.
-- Bravo giovinotto! Bravo giovinotto! -- ci disse il triestino posando il bicchiere vuoto sul tavolino: -- ? un siciliano; e loro che si trattengono qui...
-- Accidenti come vien gi?! -- esclam? lo scultore rientrando di corsa, fradicio d'acqua, cavando un litro e un bicchiere di sotto al camiciotto.
Vuotato il nuovo litro, il triestino ne volle pagare uno anche lui, e allora ognuno trasse di tasca la pipa e s'incominci? a parlare come se ci fossimo conosciuti da cento anni.
Quando abbandonammo lo studio, sul cielo rasserenato brillavano le stelle e un venticello freddo e leggiero faceva svolazzare il fiocco della cravatta allo scultore, che, calcatosi in testa il cappello a cencio, parlava furiosamente, trinciando l'aria con le mani aperte.
-- Michelangelo, Tiziano, Raffaello, Correggio! -- diceva -- Eccoli qua questi quattro nomi che ci stanno sospesi eternamente sul capo come quattro spade di Damocle. La forma, il colore, la grazia e il chiaroscuro. E noi eccoci qua a bussare alla porta del gran teatro dell'arte, dove si rappresenta quella bella commedia che ? il vero. Cari amici, i buoni posti son presi. Non ci resta se non qualche posto di piccionaia. -- E si sbottonava nervosamente la giacca. Poi accese un mozzicone di sigaro e scotendo la testa continu?: -- Lavoriamo, sudiamo, sgobbiamo, facciamo la grande statua, il gran quadro; e l'ultimo imbecille che gitter?, passando frettoloso, una occhiata sulla nostra opera che sar? costata a noi tante lacrime e tanto sudore, mormorer? allontanandosi il solito Michelangelo per la forma, l'inevitabile Tiziano pel colore, l'ineluttabile Raffaello per la grazia e l'immancabile Correggio pel chiaroscuro. Siamo nati troppo tardi. I buoni posti son presi.
E gittando via il sigaro, ripigliava animandosi sempre pi?: -- E il bello ?, che ad ogni istante mi sento urlare alle calcagna da cento voci: lavora! lavora! Ma per chi debbo lavorare? Per il pubblico? Giusto! Proprio per questo ignorante e pitocco che dice di amare i suoi Michelangeli, i suoi Tiziani, i suoi Raffaelli e i suoi Correggi perch? il dirlo non costa niente. Per la gloria? E chi l'ha mai conosciuta questa strega? Dunque? Per chi debbo lavorare? Per chi? -- E s'era fermato in mezzo alla via con le mani sui fianchi fissando il terreno fangoso.
-- Per i posteri! -- gli rispose il triestino, posando in terra la valigetta che tentava di liberarsi dalla cordicella che la stringeva troppo.
-- Bravo! -- riprese allora lo scultore -- Proprio per loro voglio logorarmi la vita! Per questi scrocconi dell'umanit?. E che obbligo ho io di lavorare per i posteri? Forse per dare il gusto, di qui a mille anni, a un lustrascarpe milionario di comperare una mia statua per un milione di scudi? Bella soddisfazione! E poi scusa, perch? mai io dovrei lavorare per i posteri? Che cosa hanno fatto loro per noi?
-- Niente! -- sentenzi? il triestino -- Niente!
Intanto il vento fresco fischiava nella stradicciuola solitaria, sul cielo brillavano le stelle e dalle vicine campagne venivano i canti tremolanti dei grilli e il gracidare rauco delle rane.
Il giorno dopo andai a far visita allo scultore e lo trovai che lavorava attorno a un busto di creta. Ci stringemmo la mano come vecchi amici e mentre volgevo gli occhi verso il suo lavoro: -- Per carit? -- esclam? -- non guardi. ? roba da morire. Lavoro dalla fotografia ed ? proprio un martirio! Ma come si fa? Vivere bisogna!
-- Per altro somiglia. -- dissi confrontando il busto con una fotografia che l'artista m'aveva presentata.
-- Sentiremo che cosa ne penser? il committente. Giusto ora deve venire.
-- Allora vuol dire che gli ultimi colpi di stecca glie li dar? avendo a modello il vero.
-- No, no -- mi rispose egli ridendo. -- Il committente ? il figlio di questo busto.
-- Dunque il busto...
-- ? morto. -- soggiunse lo scultore accarezzandogli il naso col pollice; -- lo modello per commissione del figlio che mi ha mandato questa orribile fotografia.
A questo punto s'ud? picchiare alla porta.
-- Le sono d'incomodo? -- dimandai.
-- No, resti -- riprese; e volgendosi verso la porta, disse ad alta voce: -- Avanti!
Un uomo sorridente, avvolto in un mantello di panno nero foderato di lanetta verde, comparve su l'uscio esclamando: -- Bongiorno!
-- Bongiorno! -- rispose il giovinotto stringendogli la mano con effusione e forzandolo a non togliersi il cappello a cono.
Io intanto m'ero seduto in un angolo di un canap?, su la cui stolta sdruscita ai ghirigori del tessuto si mescolavano schizzi di gesso e sberleffi di argilla secca.
-- Dunque? -- chiese il provinciale sempre sorridente, asciugandosi con un ampio fazzoletto turchino il sudore che gli scolava gi? per le gote infiammate.
Lo scultore s'era avvicinato al cavalletto e aspettava, con le mani nelle tasche dei calzoni, fermo accanto alla testa di creta. Nel silenzio s'udiva il ronzio di un moscone impigliatosi in una tela di ragno su l'ultimo vetro del finestrone.
-- Dunque? Il busto? -- riprese il buon uomo sempre sorridendo e girando qua e l? per lo studio gli occhi tondi.
-- Eccolo. -- disse alla fine il giovinotto, accennando la sua ultima creazione.
Ci fu un altro istante di silenzio; poi il provinciale smise di sorridere e appuntando l'indice teso verso il busto e gli occhi spalancati in volto all'artista, esclam? con voce rassegnata: -- Questo ? mio padre?
-- Non le piace? -- domand? il giovinotto, aggrottando le ciglia.
-- Mah!
-- Mah! caro lei -- interruppe allora il mio amico animandosi -- caro lei, dalla fotografia, capir? che si lavora a un di presso.
-- Non aveva la barba? E questa che cosa ?? -- dimand? allora lo scultore impazientito, mostrando al provinciale il ritratto da cui aveva ricavato il busto.
Il buon uomo lo prese in mano, e come l'ebbe guardato esclam?: -- Ma questo non ? mio padre!
Era avvenuto un equivoco deplorevole. Il fotografo incaricato di spedire all'artista la fotografia, in luogo di un ritratto ne aveva mandato un altro.
-- Ed ora -- chiese lo scultore -- come s'accomoda? Lei m'ha mandato una fotografia, m'ha scritto di ritrarne un busto; il busto l'ho fatto. Dunque?
Seppi di poi come s'erano accomodati. Per venticinque lire di pi? sul prezzo stabilito, l'alunno di Fidia s'era impegnato a togliere la barba al busto, e a consegnarlo in tutto e per tutto somigliante al nuovo ritratto che gli sarebbe stato mandato.
La stanza vicina alla nostra era stata presa in affitto da tre pittori paesisti. Tre figure, che a vederle insieme non si poteva fare a meno di sorridere. Il primo, grassoccio, e alto come un granatiere, andava sempre attorno vestito con un costume di velluto che, a seconda della maggiore o minor quantit? di luce che vi pioveva sopra, cangiava di colore. Perci? lo chiamavano il camaleonte. Il secondo, un giovinetto lungo, secco e nervoso come una donna isterica, portava sempre in dosso una lunga palandrana nera, sempre sbottonata, che gli scendeva fino alle calcagna; l'ultimo, basso e tarchiato, con la faccia grassa come una luna piena, con una selva di capelli rossastri e ricciuti, girava per il mondo, tanto d'estate quanto d'inverno, con un soprabito verdastro e un paio di stivaloni alla scudiera. I primi due pi? che dipingerlo il paesaggio, lo ragionavano. Il terzo ascoltava sempre i suoi compagni accigliato e silenzioso, e all'ultimo, quando i due per il lungo parlare restavano senza voce, chiudeva tutte le discussioni con queste parole: -- Non si pu? essere esclusivisti. ? questione di coscienza. L'arte ? una laguna.
Il camaleonte non ammetteva che si potesse togliere nemmeno un filo d'erba dalla scena che si ricopiava dal vero. L'altro invece gridava con la sua vocetta di galletto di primo canto, che il vero si deve copiarlo non come si vede, ma come si ama. E lui, lo amava come lo avevano amato Claudio di Lorena e il Pussino. Nutriva un odio furioso contro gli ortolani, e faceva risalire a quei poveri lavoratori della terra la causa della mancanza di buoni maestri di paesaggio.
Allora il camaleonte, faceva una carica a fondo contro Claudio di Lorena; e quello dai capelli ricciuti, dondolando il suo testone, ripeteva invariabilmente: -- Non si pu? essere esclusivisti. ? questione di coscienza. L'arte ? una laguna.
Del resto, bench? tutti e tre i nostri vicini avessero differenti idee sul paesaggio, in una cosa andavano perfettamente d'accordo: nel non dipingerlo mai.
Accanto ai tre paesisti abitava un vecchio copista, e tutti lo chiamavano il professore Calendario.
-- Ma perch? mai lo chiamate cos?? -- chiesi un giorno allo scultore siciliano col quale eravamo divenuti intimi.
-- Perch? si tinge la barba.
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