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Read Ebook: La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846) parte 1 Seconda serie - Storia by Various

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Ebook has 346 lines and 38107 words, and 7 pages

LA VITA ITALIANA NEL RISORGIMENTO

SECONDA SERIE

STORIA.

FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI 7, Via del Proconsolo 1899.

PROPRIET? LETTERARIA

RISERVATI TUTTI I DIRITTI

Firenze, 1899. Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46

LA POLITICA DEGLI STATI ITALIANI DAL 1831 AL 1846

CONFERENZA DI R. BONFADINI

Il Congresso di Vienna aveva dato all'Italia un ordinamento territoriale e politico assai ripugnante alle aspirazioni che la Rivoluzione francese e i regimi napoleonici vi avevano alimentato.

Restituendo la corona delle Due Sicilie a quel re Ferdinando che nel 1799 vi aveva esercitato cos? feroci vendette, la Santa Alleanza non gl'impose nessuna riserva, n? per gli antichi diritti costituzionali mantenuti costantemente, in maggiore o minore misura, nell'isola di Sicilia, n? per le nuove esigenze di civilt? amministrativa, sorte nella parte continentale del Regno, durante il governo del re Gioachino Murat.

Cos? pure, ricollocando sotto l'autorit? del Papa i territor? dell'antico Patrimonio, le Legazioni, le Marche e l'Umbria, non si dava a quelle popolazioni nessuna speranza che il vecchio regime sacerdotale potesse aprirsi a nessun miglioramento di legislazione o di indirizzo politico.

Ritornavano in Toscana i principi di Lorena; ed era forse quella la parte d'Italia meno offesa nei suoi sentimenti, vista l'antica e mite tradizione di governo di quella Casa.

Ma i ducati di Modena, di Parma, di Lucca, stabiliti solo per convenienza di principi e di principesse, rappresentavano la forma pi? acre del dispotismo, non temperato da nessuna responsabilit? internazionale, da nessuna rispettabilit? dei governanti.

Due repubbliche di antichissima origine, Genova e Venezia, invece di essere ricostituite come si ricostituiva quasi ogni cosa nelle condizioni anteriori al 1796, venivano aggregate a due grossi Stati; pi? fortunata Genova, che almeno serviva ad arrotondare uno Stato interamente italiano; pi? offesa nei suoi sentimenti e nel suo orgoglio Venezia, che diventava provincia di un Impero straniero, a cui si concedeva anche l'amb?to riacquisto della Lombardia.

La casa di Savoia, meno l'annessione di Genova, rientrava a un di presso ne' suoi territor? antichi; e per verit? dalla Santa Alleanza avrebbe meritato maggiori riguardi, in ragione dell'aspro trattamento sub?to dal predominio francese e della costante fedelt? da essa serbata verso i governi di diritto divino.

Ma il Congresso di Vienna era stato, in ogni sua deliberazione, il trionfo dei forti. E il Piemonte non aveva potuto uscire pi? saldo da quelle stipulazioni, soprattutto per l'ostilit? dell'Austria, che nutriva contro la casa di Savoia una diffidenza intuitiva, paralizzata ne' suoi effetti maggiori soltanto dalla benevolenza della politica russa.

L'Austria poi s'era assicurata una perfetta dominazione su tutte le cose della penisola italiana, vuoi pel possesso del magnifico territorio lombardo-veneto, cos? ricco di prodotti, di abitanti, di strade e di fortezze, vuoi per la stretta parentela della casa d'Habsburg con quasi tutti i principi minori d'Italia, vuoi per l'immensa superiorit? delle sue forze militari, accresciuta da speciali trattati, che ponevano interamente a sua disposizione la politica, le armi e le polizie dei principati rifatti lungo la valle del Po.

In complesso, pu? dirsi che questo ordinamento rappresentava soltanto interessi di principi e di Case regnanti. Nessun interesse di popolo v'era stato consultato o contemplato. Fiera de' suoi successi militari contro il colosso napoleonico, la Santa Alleanza s'era illusa che il mondo dovesse, d'allora in poi, essere governato dalla sola forza, e che questa sola meritasse d'avere organismi e guarentigie.

Non tard? a comprendere di essersi ingannata; ma intanto il suo inganno serv? per molti anni a far persistere il governo austriaco, suo rappresentante in Italia, nell'uso, anzi nell'abuso della forza: e cos? sorse, quasi immediatamente nella penisola, il sentimento della resistenza contro gli ordinamenti politici e territoriali, imposti all'Italia dai trattati del 1815.

Com'? naturale, non avendo mezzi di esprimersi n? colla stampa, n? con forme di rappresentanza, gelosamente vietate dai regimi ristabiliti, il malcontento pubblico s'avvi? verso i metodi della cospirazione. Trovatosi ad un tratto come chiuso in una camicia di forza, dopo avere passato parecchi anni sotto governi inspirati a princip? pi? o meno tumultuosi di libert?, il popolo italiano non seppe acquetarsi a cos? improvviso e cos? duro mutamento d'istituzioni; molto pi? avendo la coscienza di essere stato anche prima piuttosto vittima che complice degli avvenimenti. Non potendo manifestarsi alla luce del sole, senza pericolo di prigione o di capestro, cerc? le vie sotterranee. E ne avvenne ci? che avviene di quelle terribili sostanze aeriformi, che, trovandosi chiuso il passaggio per le viscere della terra, prorompono e diventano terremoti.

Di l? quel carattere speciale di monotonia, che impronta di s? la politica degli Stati italiani, dal 1830, anzi addirittura dal 1815 fino al 1846.

Ad eccezione di uno solo, in tutti quegli organismi governativi non parve penetrare durante tutti quegli anni verun pensiero. Parve anzi che l'unica ed accanita preoccupazione di quei regimi fosse la guerra al pensiero, sotto qualunque forma e da qualunque compagine uscisse. Mentre tante novit? sorgevano e si discutevano in Europa, dalla ricostituzione della Grecia a quella del Belgio, dalle insurrezioni iberiche all'insurrezione polacca; mentre tante questioni nuove di amministrazione e di governo balzavano lucidamente dalla virile eloquenza dei Parlamenti di Francia e d'Inghilterra, in Italia una sola attivit? prendeva il posto di tutte, un'attivit? di spionaggio e di polizia. Ricostituiti sull'unica base di un interesse dinastico, quegli Stati non ebbero dunque altro proposito che di mantenere la base. Purch? la casa del Principe fosse tranquilla e ben provveduta, l'interesse pubblico non esigeva di pi?. Se di questa situazione qualche Principe abusava per uscire dal proprio diritto e violare, a danno dei sudditi, i doveri della moralit? e dell'onest?, l'unica conseguenza era la necessit? di una maggiore oculatezza, talvolta di una maggiore ferocia negli stromenti di polizia, per reprimere sdegni legittimi propositi di resistenza. Al postutto, le solidariet? nel male erano assicurate dall'interesse comune, e su tutte stendeva la sua indulgenza irresponsabile e sistematica la politica protettrice del principe di Metternich.

Nulla dunque distraeva quei ministri di Stato dall'esclusiva cura di perfezionare i metodi della polizia. E i dispacci di tutti quegli ambasciatori, quei consoli, quei diplomatici, diretti dalla suprema saviezza dei Canosa, dei Riccini, dei Lambruschini, arieggiano rapporti di questura, piuttosto che avvedimenti di uomini politici. Ora si tratta d'impedire un colloquio sospetto fra la marchesa Camerata e il prigioniero Duca di Reichstadt, ora di indagare le relazioni personali dei membri della famiglia Bonaparte in Roma, ora di vigilare perch? Achille Murat non si muova da Londra per lidi ignoti. V'? perfino un progetto di deportare tutti i liberali al di l? dei mari europei; progetto che si ruppe unicamente contro la ripugnanza manifestata dai governi di Torino e di Firenze.

Centro di tutta questa reazione appassionata ed imprevidente fu soprattutto il seggio pontificio, sul quale, al principio del 1831, era venuto ad assidersi, per intrighi austriaci e spagnoli, un monaco d'illibati costumi, di mente corta e di pregiudizi fanatici, Mauro Cappellari della Colomba.

Rappresentato, ne' suoi rapporti di governo, da due personaggi, egualmente fanatici, il cardinale Bernetti e il cardinale Lambruschini, tutta la sua vita politica fu una lotta fiera e sanguinosa contro i suoi sudditi; sui quali fece pesare replicatamente l'onta dell'occupazione austriaca, richiesta ad ogni stormir di foglia e accordata anche pi? volonterosamente che non si chiedesse.

Di questa politica tutta a base di persecuzioni, di repressioni e di supplizi, si mostrava fiero censore un forte uomo politico italiano, Pellegrino Rossi; il quale scriveva al ministro degli affari esteri di Francia: <>

Sicch? i metodi del Bernetti e del Lambruschini continuavano a trionfare contro tutti gli sforzi dei cospiratori interni e contro le timide rimostranze della diplomazia europea. Continuava lo scandalo delle dilapidazioni e dei favoriti, continuava la preminenza nelle cose dello Stato ora del barbiere Moroni, ora del colonnello Freddi, ora dell'agente austriaco Sebregondi, ora del prete Abbo, spergiuro e infanticida. In questa vergogna di cose s'andava rapidamente spegnendo ogni prestigio della sovranit? temporale esercitata dal Sommo Pontefice; tanto che, fin dal 1837, l'inviato sardo a Roma, marchese Crosa, non si peritava di scrivere al conte Solaro della Margherita: <> Il sagace diplomatico piemontese intravedeva gi?, fra gli errori e fra gli orrori del tempo, la soluzione soddisfacente, e, senza confessarlo a se stesso, tradiva il pensiero che, dalla tribuna parlamentare, avrebbe proclamato, ventiquattr'anni dopo, Camillo di Cavour!

Per allora, nulla si mutava e nulla si voleva mutare nello Stato Pontificio, a cui soltanto avrebbe dato una scossa, di proporzioni impreviste, il Papa futuro del 1846. Alle potenze europee, preoccupate di questa perpetua alternativa fra rivoluzioni e reazioni, la curia romana prometteva riforme, col preciso proposito di non attuarle; e i diplomatici d'allora si rassegnavano ad essere ingannati, come si rassegna sempre la diplomazia ad ogni inganno che serva alla pace d'un quarto d'ora.

L'Austria entrava ed usciva dai territor? papali come da casa sua; la Francia occupava Ancona, con gran fracasso di frasi, poi rimpiattava la sua sterile iniziativa dietro le pi? umilianti dichiarazioni imposte dal cardinale Bernetti. Nel tutto assieme, trionfo di prepotenza, di reazione e d'ipocrisia, da cui la provvidenza storica si preparava a trarre i germi del fatto nuovo.

Poco al di sopra o poco al disotto della politica pontificia stava quella del duca di Modena, Francesco IV; al quale per rifare Cesare Borgia manc? l'audacia e per rifare Filippo II manc? l'intelligenza.

Dell'uno e dell'altro per? ebbe l'istinto dispotico, le morbose ambizioni, l'animo freddamente feroce. Regnava da alcuni anni, quando scoppi? in Francia la rivoluzione del 1830. Una grande illusione s'era da quel rivolgimento diffusa nell'animo degli Italiani, specialmente del centro; l'illusione che da Parigi uscisse energico aiuto alle rivendicazioni liberali d'Italia. Il generale Pepe aveva capitanato queste illusioni, destreggiandosi presso il generale Lafayette, perch? accordasse alcuni soccorsi di fucili e di denaro.

Speranze simili erano penetrate anche in un uomo d'alto animo e di larghi concetti, Ciro Menotti, modenese e commerciante di professione. Poco fiducioso in moti popolari di carattere repubblicano, egli non aveva avuto difficolt? ad aprirsi politicamente col suo principe, il duca Francesco IV, di cui conosceva la cupa indole, ma di cui aveva indovinato la segreta ambizione.

Erano questi i pregiati autografi dei principi d'allora.

Del resto, il trionfo momentaneo delle insurrezioni romagnole e modenesi non riusc? a togliere una vittima alle vendette del duca di Modena. Il quale, fuggendo sul territorio austriaco e ritornando dopo la bufera, ne' suoi domin?, aveva trascinato seco in catene l'infelice Menotti. Il processo aperto da un tribunale statario contro di lui ebbe l'esito che non era difficile prevedere. La mattina del 26 maggio 1832 fu appiccato per ordine dell'implacabile Duca, a cui quell'uomo vivo rappresentava il rimorso d'una politica equivoca.

E questa politica fu anche l'unica, fu l'ultima che desse un qualche rilievo al Ducato di Modena. Il quale era poi cercato con affettata ignoranza sulla sua carta geografica dal re Luigi Filippo, un po' indispettito perch? il principe modenese si fosse impuntato a non riconoscere la sua sovranit?. Tempi curiosi, nei quali i principi a cui una rivoluzione riusciva pretendevano essere accettati da sovrani legittimi; mentre poi i principi che in un tentativo di rivoluzione s'erano tuffati credevano disonorarsi riconoscendo principi a cui il tentativo aveva giovato.

Meno feroci, anzi punto feroci, perch? l'ambiente non consentiva ferocia, erano le pressioni esercitate dal gabinetto austriaco sulla famiglia toscana.

Nella casa di Lorena non era minore che in tutte le altre d'Italia la preoccupazione dinastica; ma poich? le miti tradizioni popolari non incoraggiavano tentativi settar?, quel governo cercava mantenersi con politica blanda, addormentando piuttosto che urtando, corrompendo piuttosto che offendendo, cercando di deviare verso istituti di benessere materiale quelle forze intellettuali bramose d'ideali, che nel paese sovrabbondavano.

Era, scrive il Tabarrini <>. Sicch? Gino Capponi pat?va <>. <>, afferma Giuseppe Montanelli <>.

Il che non pareva sufficiente alla politica del principe di Metternich, il quale avrebbe certamente creato delle s?tte dove non esistevano, per darsi la gioia di perseguitarle. Contro il granduca Leopoldo attizzava la diffidenza fra i potentati europei. Il non vedere erette forche in quell'angolo d'Italia gli pareva una debolezza, fomite di prossime rivoluzioni. Quando, nel 1835, il governo granducale mitig? la pena del carcere ad alcuni condannati per causa politica, l'ambasciatore d'Austria a Firenze consegn? un dispaccio ufficiale, in cui era detto che <>.

Per una sommossa di studenti nell'Universit? di Pisa, il gabinetto austriaco consigliava riformare gli statuti della pubblica istruzione, sostituendo nella scelta dei professori al criterio della scienza quello della fedelt? politica. Chiese, e pur troppo ottenne, la facolt? d'istituire per suo conto un gabinetto nero per l'apertura delle corrispondenze private. Chiese, e pur troppo ottenne, che si sopprimesse l'Antologia e si sbandisse da Firenze Niccol? Tommas?o. Chiese, e pur troppo ottenne, crescendo colle rassegnazioni le esigenze, che fossero arrestati il Guerrazzi, il Bini, il Salvagnoli, il Contrucci e parecchi altri, processandoli per aderenze settarie, che non furono mai potute provare. Perfino il Congresso dei Dotti, tenutosi in Pisa nel 1844, fu argomento di fieri rabbuffi alla debolezza del principe che lo aveva concesso. E quel filosofo del maresciallo Radetzki, scrivendo all'ambasciatore austriaco in Firenze, considerava il Congresso di Pisa come <>.

Sicch? non ? meraviglia se la politica austriaca avesse anche immaginato, circa la Toscana, ipotesi pi? ardite e pi? avide, quando pareva che al granduca Leopoldo mancasse la prole. Le manifestava senza ambagi l'imperatore Francesco al Granduca, dicendogli: <>. Fortunatamente -- guardate di che avverbi deve talvolta servirsi la storia! -- fortunatamente la granduchessa Marianna Carolina mor?, e da un successivo matrimonio Leopoldo ebbe prole maschile. La <> agognata dall'imperatore d'Austria era destinata a tutt'altra sovranit?.

Di questa politica toscana, tutta a spinte e controspinte, ebbe per moltissimi anni la responsabilit? principale Vittorio Fossombroni, spirito arguto, scienziato eminente, uomo di Stato profondamente scettico, i cui ideali di governo non oltrepassavano i limiti d'un dispotismo bonario, e che, finite le ore d'ufficio, respingeva ogni affare, dicendo: <>.

Pure, cos? scettico com'era, si devono a lui quelle poche resistenze che oppose la Toscana cos? alle pretese austriache come alle esigenze chiesastiche. Sapeva di rispondere ad una vecchia tradizione di governo locale, equilibrandosi contro Vienna e Roma. Spento lui, prevalsero sulla fiacca indole del principe lorenese influenze tortuose e schiettamente retrive. Il suo confessore Balocchi gli negava l'assoluzione se resisteva alle domande della Corte di Roma; il suo ministro degli esteri, Hombourg, gli faceva firmare tutto ci? che piaceva al Gabinetto di Vienna.

Era con siffatte disposizioni che la dinastia lorenese si affacciava ai nuovi tempi. Erano queste le forze che preparava per resistere all'onda mossa dietro di lei da quella pleiade illustre di liberali colti ed energici, che dai Galeotti, dai Salvagnoli, da Ferdinando Andreucci giungeva a Gino Capponi, a Ubaldino Peruzzi, a Bottino Ricasoli.

Ci allontaniamo parecchio da questi nomi scendendo gi? per l'Italia fino a Napoli, dove troviamo quelli di Ferdinando II, del marchese Del Carretto, di monsignor Cocle, confessore del Re.

Qui ritorniamo all'antitesi nella sua pi? cruda espressione; la prosperit? dinastica fondata sulla pubblica umiliazione; i supplizi correttivi delle cospirazioni; la polizia e lo spionaggio, elementi dominatori dello Stato.

La polizia muta, pur rimanendo identica. Vuol dire, cio?, che nel sogno d'un despotismo pi? intenso, si cerca perfino di allontanare l'influenza austriaca, contrapponendovi ora influenze francesi, ora influenze sarde, purch? aiutino il programma d'una indipendenza del principato, unicamente volta a intera libert? di oppressione.

Questo parve essere infatti il pensiero direttivo del nuovo Sovrano, che saliva al trono l'8 novembre 1830. Ferdinando II, come fu pi? tardi giudicato da scrittori senza passione, non era uomo cattivo, ma sopraffatto da un'indole rozza e volgare. Apparteneva ad una stirpe regia, per la quale il giurare una Costituzione era fenomeno altrettanto consueto quanto il ritoglierla. Governava un'amministrazione, la cui corruttela formava il disgusto di tutti i diplomatici accreditati presso la Corte di Napoli. Non voleva lasciar far nulla a nessuno ed era poi cos? inerte e svogliato, che non riusciva a far nulla da s?. Si stemperava in motti di spirito, in lazzi osceni o brutali. Ora toglieva la sedia di sotto alla regina, per farla sconciamente cadere a rovescio, ora frustava le gambe al cavaliere Caracciolo di Castelluccio, per vederlo saltare, gridare e piangere. Quando gli parlavano di modificare le uniformi dei soldati, rispondeva: <>. Quando gli additavano qualche ufficiale pubblico, arricchitosi scandalosamente colle concussioni, diceva: <>.

Con siffatto re e siffatta politica, i destini delle popolazioni meridionali apparivano chiari; oscillare fra le agitazioni e le repressioni.

Sbollite infatti le prime illusioni del nuovo regno, cominciarono i fenomeni del pubblico malcontento.

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