Read Ebook: La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846) parte 1 Seconda serie - Storia by Various
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Sbollite infatti le prime illusioni del nuovo regno, cominciarono i fenomeni del pubblico malcontento.
Nel marzo 1831, cospirazione in Abruzzo, due cospirazioni a Napoli nel 1832, cospirazione a Capua e a Salerno nel 1833, insurrezioni nel 1837, cos? nell'isola di Sicilia come sul continente. Poi, altra cospirazione nel 1838, pronunciamento costituzionale in Aquila nel 1841, moto insurrezionale nelle Calabrie durante il 1843, e finalmente spedizione dei fratelli Bandiera nel 1844.
Da tutti questi movimenti uscivano processi, combattimenti, fucilazioni, esilii; e si disperdevano pel mondo giovani divenuti poi stromenti vigorosi d'italianit? nei successivi periodi, come Pier Silvestro Leopardi, Carlo Poerio, Giuseppe Massari, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Luigi Settembrini, Saverio Baldacchini, Francesco Paolo Bozzelli. La politica di Ferdinando II, come quella di tutti i governi persecutori del pensiero, preparava cos? a s? stessa gli elementi della sconfitta. Nessuno sa dire che forze d'ingegno e che virt? di propaganda scompaiano pei supplizi politici; ma le carceri e gli esilii politici ingrandiscono sempre uomini, che forse, meno perseguitati, avrebbero avuto minori spinte all'azione e minori opportunit? di rinomanza. Certo, l'eco mondiale dei dolori di Silvio Pellico, del Confalonieri, del Maroncelli ebbe per l'Austria, come diceva il Sismondi, peggiori conseguenze che una battaglia perduta. E la falange di esuli creata dalle persecuzioni politiche di Ferdinando II rese popolari nell'Europa, che prima non li conosceva, quei nomi e quegli uomini, da cui trasse Guglielmo Gladstone la coscienza di quella terribile invettiva, sotto la quale cadde prostrato il governo dei Borboni di Napoli.
? una delle leggi storiche pi? consolanti, una di quelle che pi? si ripetono e confermano nel tempo. E se il dispregiarla ? carattere proprio dei regimi dispotici, che alle forze morali non credono e l'avvenire non curano, sarebbe fatale pei regimi liberali l'obliarne l'efficacia e la logica.
Del resto, -- ed ora pu? dirsi -- sarebbe stato un grande ostacolo per lo svolgimento normale del sistema italiano se Ferdinando II avesse ubbidito a consigli politici di altra natura. Questa tentazione era passata, nei primi tempi, per l'animo suo: ed anche su lui, come sul duca Francesco IV, aveva tentato qualche pressione quel manipolo di liberali che in ogni regione italiana stava all'agguato per indovinare un principe.... diverso dagli altri. Il pericolo sarebbe stato grave se, cedendo alle influenze di Luigi Filippo, il re di Napoli avesse camminato per quella via delle riforme che lo aveva sedotto nei primi mesi del suo governo. Una iniziativa liberale partita dal mezzogiorno, negli anni fra il 1830 e il 1840, avrebbe potuto impacciare l'iniziativa liberale del settentrione e creato fra i patriotti italiani un dualismo forse esiziale per l'ideale politico.
Se le cospirazioni furono la ragione o il pretesto per cui la dinastia borbonica respinse ogni tentazione di liberalismo e si rifugi? paurosa nell'abbraccio austriaco, bisogna dire che queste cospirazioni hanno raggiunto il loro scopo. Le ultime soprattutto, perch? in queste spuntava nuovo e seducente il concetto unitario, a cui Giuseppe Mazzini, colla sua grande facolt? d'iniziativa, aveva ormai coordinate tutte le fila del movimento settario, staccandolo dalle antiche tradizioni di vendette locali.
Certo, non s'era mai visto prima che un drappello di giovani veneti chiamasse a rivolta popolazioni napoletane; si sarebbe visto non molto dopo un generale napoletano chiamato a comandare rivolte venete. Erano i primi sintomi di quella felice fusione di sentimenti, che avrebbe dato alle popolazioni italiane un solo vessillo ed un solo programma.
La generazione contemporanea pu? discutere liberamente il fenomeno delle cospirazioni italiane, che sar? argomento di studio, non sempre facile, per le generazioni venture. Quando un paese, dopo mezzo secolo d'esercizio, s'? tanto inoculato il vaccino della libert? da credere piuttosto al diritto di abusarne che alla possibilit? di scemarla, pu? essere anche impunemente ingiusto verso quei precursori, o efficaci o semplicemente ingenui, che a metodi diversi hanno dovuto ricorrere. Il collocarsi col pensiero negli ambienti giuridici, morali e politici del passato ? uno sforzo che non sempre riesce neanche a storici pacati e desiderosi d'imparzialit?. ? proprio dell'indole umana giudicare altri da s? come esaminare i tempi alla stregua dei criteri contemporanei.
Sugli innumerevoli tentativi di movimento che hanno agitata l'Italia dal 1815 al 1848 si possono portare giudizi diversi, secondo gli scopi, secondo gli effetti, secondo gli uomini. Per? il tentativo dei fratelli Bandiera ha ed ? giusto che abbia un posto a parte. La povert? dei mezzi coi quali fu condotto potr? sempre meritare, nell'opinione dei pensatori austeri, rimprovero di spensieratezza; ma le splendide idealit? a cui s'inspir? quell'impresa, cominciata con tanto amore e finita con tanta piet?, hanno innalzato il sacrificio all'altezza di programma politico, ed hanno gettato su tutto il successivo movimento italiano quel profumo di giovinezza e di poesia, che, anche quando rimane leggenda, aiuta a render grandi le cose nobili e a mantenere nobili le cose grandi.
Ho detto, sul principio di questo discorso, che, ad eccezione di uno solo, tutti gli organismi governativi italiani respingevano volontariamente da s? ogni velleit? di pensiero.
L'eccezione, voi l'avete indovinato, deve cercarsi nello Stato Sardo; che venne pigliando, attraverso molte contraddizioni, il suo preciso indirizzo, soprattutto dopoch?, morto Carlo Felice, senza discendenti diretti, saliva al trono, il 27 aprile 1831, un uomo, contro il quale s'? per lunghi anni sbizzarrita un'aspra e ingenerosa polemica, Carlo Alberto, principe di Carignano.
Sono le grandi ingiustizie dei contemporanei che la storia ? sovente chiamata a rintuzzare. E dopo cinquant'anni sono ormai gi? tanto rintuzzati, che ognuna delle pubblicazioni relative a Carlo Alberto aggiunge una giustificazione od un elogio per lui, nessuna riesce ad aggiungergli un biasimo od una colpa.
Il pensiero politico ch'egli porta al trono e con cui dirige lo Stato ? il pensiero dell'indipendenza italiana. N?, malgrado le difficolt? dei tempi, lo teneva talmente celato che non si avvertisse dai ministri suoi, pi? invecchiati nel sentimento dinastico e nella tradizione diplomatica del diritto divino. Quando infatti, sollecito di non tradir l'avvenire, nominava a suo ministro degli affari esteri un uomo innamorato delle vecchie forme, il conte Solaro Della Margherita, questi lasciava scritto fin dal 1835: <
Che a questo concetto dell'indipendenza della patria si associasse l'altro di ingrandire lo Stato, secondo le secolari tradizioni della casa di Savoia, non ? difficile supporlo e non gli procurerebbe nessun rimprovero dalla storia. Ma dal cauto suo labbro usc? pure una frase, la quale dimostra che non egoista e non angusta era in lui la previsione dell'avvenire; poich? all'inviato suo, conte Ricci, che gli poneva alcune obbiezioni di carattere dinastico, non esit? a rispondere fin dal 1845: <
Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza calmo per esaminare queste due accuse.
Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche per una causa nobile, fuori della legge, il bisogno di aggrapparsi a qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del loro proposito.
Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i loro vincoli colle societ? segrete, chiedendogli appoggio per ottenere promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza che l'adesione di un personaggio cos? vicino al trono avrebbe nel tempo stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.
Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti liberali manifestati nell'intimit? di antecedenti colloqui; un serio ammonimento circa l'impossibilit? che in quel momento l'impresa riuscisse; la pi? esplicita dichiarazione che in nessun caso egli avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario. Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine; non s'? mai potuto accertare che altre da queste siano state le sue dichiarazioni.
Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase, dimenticando le altre; sia, com'? pi? probabile, che il moto li abbia trascinati, al solito, pi? in l? delle loro previsioni, non avevano essi il diritto di affermare la complicit? di Carlo Alberto in una impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto accettarla.
E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una colpa d'aver voluto rimaner tale?
Non egli dunque trad? i congiurati; ma la congiura trad? lui e tutti, portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero cos? bene, dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del 1848, i pi? fedeli suoi consiglieri, i suoi amici pi? cari. N? a quel gran sofferente venne mai meno la generosit? dell'oblio. Poich?, quando gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un segretario, offr? il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva, pei fatti del 1821, flagellato di versi cos? crudeli. E il Berchet, declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo d'Adda, oggi senatore del Regno: <
E lo deploro anch'io. Per? non si pu? non pensare che questo diritto di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse mai lasciata nessuna libert? di considerare i tempi, le circostanze, le difficolt? dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la giustizia non ? offesa dagli atti loro.
Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821, intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severit? legale fosse in quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire? o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settar?, specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero nella sua compagine la monarchia, di cui divisava fare pi? tardi una macchina per l'indipendenza italiana?
Certo ? che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero eccedere ogni misura di colpa, e ne rest? sulla condotta di Carlo Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le sventure del biennio 1848-49 perch? quelle impressioni rimanessero interamente dimenticate.
Del resto, non erano tempi facili, n? pei popoli, n? pei principi; difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede pi? tardi al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: <
I sovrani hanno, anche pi? degli altri uomini, il diritto d'essere giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano che assai tardi le varie responsabilit?.
Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza, avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere una battaglia disperata in nome della libert?. Ebbene? quale ne sarebbe stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato. Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua esistenza.
Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affront?, con mesto animo, ma con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdoner? qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli ultimi; nei quali la sua lealt? non pu? essere pareggiata che dal suo ardimento, e la semplicit? del sacrificio ? in perfetta armonia colla nobilt? della causa per cui lo fece.
In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia dopo il 1846.
E poich? in una legge storica consolante gi? ci siamo imbattuti durante questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che pure al nostro pensiero si afferma.
? assioma di pubblicisti volgari e di menti isterilite da scetticismo, essere la politica fondata sulla furberia piuttosto che sulla lealt?, e doversi respingere dall'arte di governare i popoli ogni miscela di sentimento o di cuore. Tutto ci? risponde ai dettami di quell'egoismo, sul quale una falsa scienza sedicente positiva vorrebbe impernare le novit? del mondo.
Ebbene, la politica dei vari principi italiani dal 1815 al 1848, fu essenzialmente egoista; una sola, quella di Carlo Alberto, ebbe virt? di espansione, carattere di altruismo. Questa rimase, trionf? e trionfa ne' suoi successori; dell'altra non restano pi? che ricordi, rattristati dalle catastrofi e illanguiditi dal tempo. In quegli anni di dolori e di speranze, un solo principe butt? agli eventi la sua corona per capitanare due guerre d'indipendenza; uno solo giur? la Costituzione, senza ritoglierla. Che meraviglia se a quel solo l'Italia s'avvinse, indovinando dalla fede del primo la lealt? non mai smentita dei successori?
Non ? dunque vero che la modernit? debba uccidere gl'ideali per far vivere gl'interessi. La contraddizione fra gli uni e gli altri ? l'ipotesi d'una dialettica artificiosa, non la formola uscita dalla logica degli eventi.
La morale pubblica non pu? essere, non ? diversa dalla morale privata. Attingono entrambe la loro autorit? dal sentimento del dovere, che non ? mai in contrasto coi dettami della virt?.
Vi riuscirebbe difficile dedurre da qualche deplorabile eccezione che nella vita privata la disonest? produca dei felici. Potete affermare, senza tema di smentite, che, nella vita pubblica, la prosperit? degli Stati ? in ragione diretta dell'onest? dei Governi.
LA VECCHIA ITALIA
CONFERENZA DI GUGLIELMO FERRERO
Mezzo secolo addietro la vecchia Europa sent? a un tratto tremarsi sotto la terra. In un impeto di audacia, che anche oggi, dopo tanti anni, sembra a noi miracoloso, gli uomini insorsero quasi dovunque contro l'ordine che si diceva costituito per volere di Dio; e, in pochi mesi, i governi pi? antichi rispettati e temuti parvero distrutti per sempre o vicinissimi all'estrema rovina.
Questa rivoluzione del grande anno, unica in apparenza, fu in realt? molteplice; perch? ogni popolo merit? un premio suo, con le proprie audacie rivoluzionarie. In Italia i rivolgimenti del 1848 parvero mirare specialmente alla liberazione nostra dalla signoria straniera; ma chi fruga un poco addentro nella storia della societ? italiana, dal 1830 al 1848, vien fatto di accorgersi presto che, sotto la guerra tra austriaci e italiani, si nascose allora, come dopo, il conflitto tra una societ? che esisteva e l'idea, il disegno, il proposito di una societ? nuova. Non ? possibile comprendere la storia italiana di questo ultimo mezzo secolo, se non si comprende il carattere sociale della rivoluzione del 1848; ma la natura di questo terribile rivolgimento si pu? a sua volta capire solo studiando la societ? della vecchia Italia dal 1830 al 1848; nella quale matur? la discordia, che doveva scoppiar poi nella aperta guerra durata dal 1848 al 1870.
La vecchia Italia era uno degli ultimi avanzi, e dei meglio conservati, della vecchia Europa aristocratica e teocratica, nemica di quel complesso di cose materiali e morali, che noi chiamiamo la civilt? moderna. I diversi governi ricostituiti in Italia dopo la caduta di Napoleone si affaticarono intorno a una impresa di conservazione, empia e stolta secondo le idee nostre, ma alla quale non manc? una certa avvedutezza e coerenza, derivatale dall'aver quei governi capito quale sia il primo principio dell'arte di conservare gli Stati; che cio? le istituzioni non durano a lungo, se le idee degli uomini non restano eguali; e che gli uomini mutano tanto pi? facilmente di idee, quanto pi? sono mutevoli le condizioni della loro esistenza. L'instabilit? delle idee e delle istituzioni, e l'instabilit? dei destini individuali e delle fortune si accompagnano sempre, come gli effetti alle cause; sono ambedue i segni esteriori della interna elaborazione vitale delle societ? che si rinnovano; onde la vera politica conservatrice deve cercare di distruggere questa plasticit? vitale della societ?, quasi direi pietrificandola in tutti i suoi organi. L'opera a cui attesero principalmente i governi italiani dal 1830 al 1848 fu quasi di pietrificare tutti gli organi della societ? italiana, per modo che questa non fosse pi? un animale vivente, capace di malattie e di guarigioni, di crescite e di invecchiamenti; fu di mummificarla per sempre in una forma morta, tenendola lungamente immobile entro un bagno di ignoranza, di bigottismo, di pregiudizi e anche di virt? modeste e di ragionevoli saviezze.
Le virt? modeste, le ragionevoli saviezze che dovevano essere tra i primi elementi di conservazione della vecchia Italia, furono la semplicit? e parsimonia del vivere, universale in Italia sino al 1848; in una societ? nella quale i bisogni erano meno numerosi e le spese di apparenza minori che nella nuova. Le citt?, salvo qualche monumento di lusso pubblico, qualche teatro, qualche chiesa, qualche palazzo gentilizio, erano costruite dimessamente; strette le vie; pochi e miseri i giardini; trascurata la pulizia e ogni altra cosa nelle strade; scarsa la luce di notte. Gli uomini erano contenti di vivere in case pi? piccole, pi? buie, nelle quali parevano lussi molte cose che ormai sono diventate bisogni volgari. Tutto era solido e durevole: le mura delle case, granitiche e secolari; la mobilia robustissima, costosa ma capace di servire a molte generazioni; i vestiti, tagliati in stoffe solidissime, che passavano di padre in figlio e facevano parte dell'asse ereditario. La spesa per il mantello ricorreva una o due volte nel corso di una esistenza; n? era ancor noto il moderno divenire continuo della moda. Il commercio non conosceva ancora quelle teatralit? goffe, quelle grandiosit? posticcie, quella prodigalit? burlesca di ori e marmi falsi, quel barocco da poco prezzo che hanno ridotte le vie delle nostre citt? grandi a orribili imposture della bellezza, grandezza e ricchezza. I caff? e le botteghe erano in stanze piccole e basse, come se ne vedono ancora a Venezia e a Mosca, i caff? soprattutto non arieggiavano a falsi f?ri romani, ad Alambre di cartapesta.
Non crediate che, riferendosi a cose cos? umili, queste considerazioni siano futili. Esse hanno invece una importanza capitale: perch? la differenza essenziale tra la vecchia Europa e la nuova, tra la vecchia e la nuova Italia, il mutamento essenziale da cui derivarono gli altri fu proprio questo: che nella vecchia Europa ed in Italia vigeva un tenor di vita semplice, con bisogni sempre eguali o lentamente crescenti; nella nuova, un tenor di vita con bisogni crescenti indefinitamente e rapidamente. Un governo unitario ha potuto alla fine costituirsi in Italia, perch? trov? un sostegno in questa nuova maniera di vivere, divenuta comune nel popolo dopo il 1860; mentre gli antichi governi avevano capito che non avrebbero potuto reggersi a lungo, se le antiche forme del vivere, semplici e parsimoniose, sparivano; e avevano in vari modi cercato di salvare i loro popoli dalla seduzione della nuova civilt?, che prosperava in Inghilterra e in Francia.
Molti furono i mezzi; primo tra tutti, la oppressione della classe che sola poteva farsi veicolo della nuova civilt? forestiera, la borghesia istruita; oppressione esercitata per mezzo di una curiosa alleanza della aristocrazia e del popolino. I re si fecero i tutori della canaglia; l'aristocrazia, che rappresentava la ricchezza fondata sulla propriet? della terra, la devozione alla Chiesa e alla monarchia assoluta, l'orgoglio gentilizio che vuol sovrastare alle capacit? personali, prese a proteggere l'infimo popolino, a mantenerlo grasso e ignorante. Madre per la plebe, la monarchia aristocratica era invece matrigna per il ceto medio; che essa cercava di umiliare in ogni modo, impedendogli di crescere, di imparare, di arricchire; consentendogli appena di vivacchiare oscuramente, con l'elemosina di magri impiegucci o con l'esercizio di professioni, ma a condizione di andare a messa e di esser fedele al re: permettendogli al pi? di darsi a studi punto malsani e pericolosi, come decifrare iscrizioni latine o annotare vecchi testi di lingua. A elaborare questo disegno bizzarro di una societ? aristocratica e plebea, fanaticamente conservatrice in ogni cosa, pi? che ad altro, hanno faticato, nei diciotto anni che precedettero il 1848, gli Stati italiani, dall'Austria a quel Ferdinando II, tipo curioso di re ingegnoso e ignorante, abile e ingenuo, che ha impersonato forse meglio di ogni altro sovrano questa idea dello stato monarchico lazzaronesco.
Quei 18 anni furono infatti il momento della suprema fatica, per i governi della vecchia Italia. Correvano i tempi in cui cominciavano a fiorire in Inghilterra e in Francia i nuovi commerci e la nuova industria meccanica, che hanno contribuito tanto a convertire l'antico tenor di vita modesto e tradizionale, nel nuovo, sibaritico e con bisogni sempre pi? numerosi; che hanno mutato l'antico assetto delle fortune, rese labili tutte le ricchezze, ridotta l'essenza della societ? moderna a un divenire continuo. Per queste ragioni gli antichi governi, soprattutto l'impero d'Austria e il regno delle Due Sicilie, si adoperarono a strozzare in culla le nuove industrie e i nuovi commerci. Non era lecito aprire un opificio senza permesso speciale del governo; ma le formalit? erano tante, tante le condizioni, le restrizioni, i rinvii, le diffidenze e le cautele delle amministrazioni, che introdurre una industria nuova era quasi cos? difficile come costituire una societ? segreta. Inoltre, come sempre succede, la legislazione improntava di s? il sentimento pubblico, il quale era portato a riguardare con diffidenza ogni impresa industriale. Cos? in Lombardia si notano, sino al 1848, solamente progressi agricoli, nella coltivazione del gelso, ad esempio; ma nessun progresso industriale. Ancor pi? ostinata fu la resistenza del governo borbonico, che dur? sino all'ultimo; onde le concessioni industriali di quegli anni si possono contare tanto sono poche; e qualche volta sono motivate con ragioni bizzarre, che mostrano l'intima natura di quel governo; come quel permesso dato al marchese Patrizi, nel 1858, di costruire due molini sul Sebeto, ma a condizione di far dire un certo numero di messe in suffragio delle anime dei terrazzani. E la concessione era data, dice espressamente il decreto, <
Dallo stesso ordine di idee nasceva la politica doganale della vecchia Italia, anche essa uno dei tanti processi di pietrificazione applicati alla societ? italiana. A differenza dell'Italia contemporanea, gli Stati italiani di prima del 1848 fecero libera la importazione del grano; o la tassarono di diritti minimi, imposti per fini fiscali, non per favorire come si fece dopo un <
Ma al liberismo agrario corrispondeva un fiero protezionismo industriale, soprattutto negli Stati austriaci, nel regno delle Due Sicilie e nello Stato pontificio. Nel 1846 un cardinale dichiarava in Roma allo Zobi che la libert? di commercio e il giansenismo erano due forme di errore sorelle; tanto ? vero che il solo Stato che inclinasse un poco alla libert? di commercio, la Toscana, era quello che aveva dato motivo di maggior scandalo, con le inclinazioni di alcuni suoi prelati agii errori del giansenismo. La libert? di commercio era considerata come una teoria funesta allo Stato; ci? che ci spiega facilmente come mai l'Italia rivoluzionaria sia stata tenuta al fonte battesimale del libero scambio; fede dalla quale essa doveva fare cos? presto apostasia.
Sennonch? il protezionismo industriale della vecchia Italia era ben diverso dal protezionismo industriale dell'Italia contemporanea. Questo ? la conclusione di una politica nello stesso tempo oligarchica e rivoluzionaria, plutocratica e sovvertitrice; che aggrava la disuguaglianza delle fortune; che affretta la formazione di una oligarchia di milionari e di un proletariato industriale ammucchiato e turbolento al nord dell'Italia; che porta con s? l'aumento dei bisogni, la crescente costosit? della vita, la universale avidit? del denaro, l'idolatria delle apparenze, la dissoluzione morale delle classi medie, la miseria delle plebi rurali, la fermentazione di tutti gli spiriti di progresso e di rivoluzione, di tutte le audacie buone e cattive, l'instabilit? sociale, la contradizione tra i desiderii e la realt?, lo sforzo violento della invidia che tenta colmare l'abisso tra gli uni e l'altra.... Il protezionismo della vecchia Italia era invece un procedimento di mummificazione della societ?; mirava a salvare l'antico artigianato dalla concorrenza delle grandi manifatture inglesi e francesi, l'antica semplicit? del vivere dalle seduzioni alla nuova variet? e molteplicit? dei consumi. L'industria era allora in Italia esercitata da un ceto di artigiani, lavoranti in casa o in piccoli laboratori; e il commercio dei manufatti era quasi un privilegio ereditario di poche famiglie di mercanti. Un ceto operaio ignorantissimo, che si serviva di un macchinario rozzo, che applicava ostinatamente una tecnica tradizionale; nemico, per stupidit? e misoneismo, di qualunque ragionevole novit? industriale; quasi dovunque violento e facile al sangue, tale era la popolazione urbana nella vecchia Italia. Questi artigiani fabbricavano cose di qualit? buona ma costosissime, perch? la rozzezza della tecnica era causa di un grande spreco di lavoro; in compenso per? essi stessi erano un popolo di grandi fanciulli, violenti, imprevidenti, ignoranti, fanaticamente conservatori, pronti al coltello, che potevano facilmente esser governati da un regime di beneficenza e di terrore alternati. Difatti, proprio in mezzo a questo popolino, che odiava ogni cosa nuova, la vecchia Italia trov? quei settari che, specialmente negli Stati della Chiesa, pugnalavano i campioni delle idee liberali. I vecchi governi italiani erano dunque portati dalla forza stessa delle cose a proteggere questo ceto di pretoriani del vecchio regime; onde, quando la industria forestiera cominci?, tra il 1831 e il 1848, a voler portare in Italia, contro la solidit? tradizionale e costosa dei lavori dell'artigianato, la brillante caducit? a buon mercato delle cose sue, studiando di comunicare al pubblico quella volubilit? di gusti divenuta ora universale, i governi corsero subito al riparo, inasprendo il protezionismo.
Questo differente stato morale della vecchia Italia si manifesta mirabilmente nella corruzione amministrativa di allora, cos? diversa da quella presente. Gli alti funzionari di allora erano quasi tutti nobili e ricchi, che amministravano per onore e che per un senso di probit? e fierezza gentilizio non rubavano, ma lasciavano invece per buon cuore rubacchiare i piccini, che non potevano fare gran danno e che cos? si ingegnavano a viver meglio; mentre nella amministrazione borghese successa dopo, pi? colta ma formata da una classe in cui erano stimolate tutte le ambizioni e tutte le cupidigie, i piccoli doverono rispettare i centesimini, ma i grandi rubarono i milioni.... In questo consiste tutta la filosofia della storia del Banco di Napoli. Sotto il governo borbonico i piccoli impiegatucci del Banco si ingegnavano per spillar qualche quattrino dai clienti rendendo quei piccoli servigi che un impiegato pu? rendere ai clienti di una grande amministrazione; spesso anche trascuravano il loro ufficio per altri lavori. Ma l'amministrazione del patrimonio, affidata a grandi personaggi, era cos? rigorosa, le regole per gli sconti cos? severe, e cos? osservate, che dal 1818 al 1861 sopra una media annua di 69 milioni di sconti e prestiti su pegno, le perdite furono in media di 65,000 lire l'anno. Dopo il 1860 gli uscieri e gli scribi poterono ingegnarsi meno; ma si ingegnarono troppo intorno al Banco altri amministratori, ben pi? avidi e malefici.
? facile capire come questa corruzione spicciola contribuisse a conservare lo Stato, perch? giovava agli umili e non metteva a repentaglio la prosperit? pubblica. Cotesta era una corruzione conservatrice; mentre quella che successe poi fu una corruzione rivoluzionaria, che generando la miseria di molti, mettendo in mezzo alla societ? lo scandalo di poche grandi fortune fatte col furto, dissest? la fortuna pubblica e turb? il senso morale del popolo e fu uno stimolo a desiderare forme pi? perfette di Stato.
Se dunque anche la corruzione amministrativa contribuiva alla politica della stabilit? eterna, che fu propria della vecchia Italia, la politica intellettuale le port? il compimento. Che la vecchia Italia fosse poco amica della istruzione popolare ? notissimo, e lunghe dimostrazioni sarebbero inutili, se anche nella Toscana, che pure tra il 1830 e il 1848 fu il pi? civile degli Stati italiani, si trovavano dei borghi di 10,000 abitanti senza scuole. Sennonch? questa politica intellettuale, fatta di semplice astensione, era possibile rispetto al popolino, che poteva restare illetterato e ignorantissimo; ma non rispetto alla classe media e all'aristocrazia, che qualche cosa dovevano pure studiare, per la necessit? stessa della loro funzione sociale. Che cosa poteva dunque esser dato a studiare a costoro, tra il 1830 e il 1848, senza che gli studi fossero veicolo di idee empie, stimolo di ambizioni malsane? I vecchi governi avevano stabilito censure pi? o meno rigorose; ma tutti sanno che il contrabbando delle idee ? il pi? facile di tutti. Perci? quei governi apprestarono un'altra difesa, pi? potente: l'istruzione classica, con carattere specialmente letterario. Nelle scuole frequentate dalla classe media e dalla aristocrazia si insegnavano soprattutto il latino e l'italiano: si insegnavano bene, ma non si insegnava altra cosa. I nostri nonni imparavano davvero a leggere il latino e a scrivere l'italiano, l'italiano pretto dei classici, la pura lingua letteraria, la cui tradizione era conservata con molto zelo nelle scuole dei vecchi governi, anche di quelli stranieri, come l'austriaco. Fedeli in tutto alla tradizione, i vecchi governi erano in filologia puristi: cosicch? sino al 1848 tutte le scritture degli uomini colti furono scritte in pretto italiano, dalla requisitoria del poliziotto austriaco che voleva mandare sul patibolo il Confalonieri, ai libri dei medici, degli scienziati, degli eruditi. La rivoluzione nazionale imbarbar? poi la lingua in quel gergo bastardo in cui oggi si scrive ogni cosa: le leggi, i giornali, il maggior numero dei libri, e dal quale bisogner? trar fuori una nuova lingua letteraria, nostra e bella, viva e limpida, che non sia n? la lingua arcaica ora in uso in una certa letteratura, n? il miscuglio fangoso in cui si appesantisce il pensiero del maggior numero degli altri scrittori. Era quella dunque una coltura tutta letteraria, che insegnava a curare una forma la quale doveva restare vuota di ogni contenuto di idee vive e di cui il maggior numero degli uomini colti del tempo si accontentava; perch? gli uomini si appassionavano per le questioni sostanziali nei tempi di rapidi e molteplici mutamenti sociali, per le questioni formali nei tempi di universale osservanza delle tradizioni. D'altra parte l'educazione puramente letteraria, il culto della forma, il classicismo, cio? l'ammirazione delle opere antiche professata secondo certi canoni fissi, convengono interamente a una societ? che vive di tradizioni, perch? sono una scuola eccellente dello spirito di conservazione. Gli uomini hanno immaginato mille prigioni per serrarci dentro la infinita energia espansiva e sovvertitrice del pensiero umano; le carceri, la povert?, l'infamia, la morte; sempre invano per?! perch? una sola ? la prigione capace di contenere il pensiero: il carcere di formole irrigidite, la gabbia di parole che hanno perduto il loro significato, il sepolcro di antiche scritture ormai vuote di senso. Dal momento in cui le classi colte di un paese si danno a curare la propria lingua come una lingua morta e a lavarne continuamente il cadavere; quando esse prendono a considerare certi capolavori della loro arte antica come i tipi perfetti soli ed eterni della bellezza, che si devono ricopiare indefinitamente, senza tentar cose nuove che sono di per s? inferiori alle antiche, il loro spirito si chiude alle novit? sostanziali, ripugna ai rivolgimenti ideali che precedono o almeno accompagnano i rivolgimenti sociali. Il Settembrini si meravigliava che il governo borbonico lasciasse il Puoti, il celebre purista di Napoli, insegnare a 300 giovani l'amore dei trecentisti, dimostrando ancora una volta la nobile ingenuit? del suo animo e la abilit? del governo borbonico; il quale sapeva che quei limatori di aggettivi, quei futuri puristi che sarebbero caduti in convulsioni a udire un francesismo, sarebbero stati quasi tutti buonissimi conservatori, salvo pochi cos? perversi che sarebbero usciti liberali anche dalla educazione del pi? fanatico prete. In un certo senso, i pi? formidabili baluardi della vecchia Italia contro l'avvenire erano allora l'Accademia della Crusca e la Rettorica di Aristotele; perch? gli studi letterari servirono fino al 1848 a cristallizzare le idee degli Italiani, come lo studio del Corano serve a cristallizzare quelle dei Turchi. Negli studi della letteratura classica si preparava il personale delle amministrazioni italiane di quei tempi, come adesso con lo studio del Corano si prepara la burocrazia turca; e cos? quel personale riesciva facilmente pieno di un fanatico spirito conservatore, che metteva in armonia l'amministrazione con il governo.
Infine la vecchia Italia trovava le ultime seduzioni alla neghittosit? sociale, nella universale pigrizia e gaiezza. La vecchia Italia era poco laboriosa e allegra; sapeva asciugar presto le lagrime e non conosceva quegli esaurimenti ereditari che hanno tanto incupito, dopo, il carattere italiano. I proprietari abbandonavano le terre ai fattori e ai coloni, non passavano in campagna che qualche mese di autunno, ma non per sorvegliare i contadini in un lavoro di cui essi del resto non sapevano nulla, ma per convitare gli amici e divertirsi; poi tornavano, alle prime nebbie invernali, in citt?, a oziare tra il caff?, la piazza, il salotto e il teatro. Un principio di rivolta contro questa neghittosit? si nota qua e l? tra il 1830 e il 1848; ma sono voci solitarie che ammoniscono un popolo di sordi. Nel 1845 si istituisce a Ravenna una societ? di agricoltura, di cui fu presidente il conte Pasolini; tra il 1840 e il 1848 si discusse molto in Toscana nella Accademia dei Georgofili, e il Salvagnoli rimprover? aspramente ai <
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