Read Ebook: Storia degli Italiani vol. 03 (di 15) by Cant Cesare
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STORIA DEGLI ITALIANI
PER CESARE CANT?
EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI
TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1875
Il secolo d'oro della letteratura latina.
Un'altra fortuna ebbe Augusto, che al suo corrispondesse il secolo d'oro della letteratura latina, talch? il nome di lui, non solo si associ? all'immortalit? di quegli scrittori, ma rimase come appellativo de' protettori del bel sapere.
Ne' primordj, Roma s'occup? a difendersi e trionfare, non ad ingentilire gl'intelletti. Sol quando penetr? nella Grecia italica, poi nella Grecia propria, conobbe una coltura pi? raffinata, e la introdusse coi prigionieri e coi vinti, i quali allogaronsi come maestri o clienti nelle principali famiglie; e tal ne prese vaghezza che dimentic? i modi nazionali per tenersi affatto sulle orme greche. Quand'anche non fosse natura degl'Italiani, sappiamo per iscritto che il popolo nostro dilettavasi grandemente di canzoni nelle varie fasi della vita; specialmente alle vendemmie, e quando la riposta messe lusingava terminate le fatiche, e alle solennit? della rustica Pale i prischi agricoli, forti e contenti di poco, coi figli, colla fedele consorte e coi compagni di lavoro esilaravano l'anima e il corpo nel suono e nel ballo; e la gioja bacchica esultava in canti e gesticolazioni, e forse anche dialoghi, di versi regolati dall'orecchio e misurati dalla battuta del piede.
Andronico, Ennio, Plauto, Azzio, Nevio trattarono soltanto soggetti greci, bench? in Grecia non fossero ancora penetrati i Romani, non avessero <
Plauto coll'asprezza e la facezia palesasi famigliare col vulgo, Terenzio ritrae della societ? signorile; quello esagera l'allegria, questo la tempera, e i caratteri e le descrizioni esprime al vivo. Orazio chiama grossolano Plauto, e lo taccia d'avere abborracciato per toccare pi? presto la mercede; alle commedie di Terenzio fu asserito mettesser mano i coltissimi fra i Romani d'allora, Scipione Emiliano e Lelio: l'un e l'altro per? sono troppo lontani dalla finezza dei comici greci, vuoi nel senso, vuoi nell'esposizione.
La bagascia, il lenone, il servo che tiene il sacco al padroncino scapestrato, il ligio parasito, il padre avaro, il soldato millantatore, ricorrono in ciascuna commedia di Plauto, fin coi nomi stessi, come le maschere del vecchio nostro teatro; e si ricambiano improperj a gola, o fanno prolissi soliloquj, o rivolgonsi agli spettatori, o scapestransi ad oscenit? da bordello. Egli stesso professa in qualche commedia di non seguire l'attica eleganza, ma la siciliana rusticit?; il verso talmente trascura, che si dubita se verso sia; grossolano e licenzioso il frizzo; il dialogo da plebe. Meno che pei letterati ha importanza pei filologi, che vi riscontrano idiotismi ancor viventi sulle bocche nostre, e ripudiati dagli autori forbiti: altra prova che il parlare del vulgo si scostasse da quello dei letterati, e forse viepi? nell'Umbria.
In principio i teatri erano posticci, durando al pi? un mese, quantunque l'armadura di legno si ornasse con grand'eleganza, fino a dorarla e argentarla, e vi si collocassero statue ed altre spoglie de' popoli soggiogati. Scauro ne fece uno capace di ottantamila spettatori, adorno di tremila statue e trecentosessanta colonne di marmo, di vetro, di legno dorato. Primo Pompeo, dopo vinto Mitradate, ne fabbric? uno stabile, capace di quarantamila spettatori, con quindici ordini che salivano dall'orchestra fino alla galleria superiore. Quel di Marcello, fatto da Augusto, era un emiciclo del diametro inferiore di circa cinquantacinque metri allo interno, e di cenventiquattro al recinto esterno. Cajo Curione, volendo sorpassare i predecessori in bizzarria se non in magnificenza, nei funerali di suo padre costru? due teatri semicircolari, tali che potessero girare sopra un pernio con tutti gli spettatori; sicch?, compite le rappresentazioni sceniche, venivano riuniti, e gli spettatori si trovavano trasportati in un anfiteatro.
Alla romana severit? parea vile un uomo inteso, non a soddisfare coll'abilit? sua verun bisogno, ma solo a dar diletto; infame chi per denaro fingeva affetti, dava se medesimo a spettacolo, ed esponevasi agl'insulti degli spettatori. Laonde i mimi rimanevano privati delle prerogative civili, i censori poteano degradarli di trib?, i magistrati farli staffilare a capriccio; un marchio impresso sul loro corpo gli escludeva da ogni magistratura, e fin dal servire nelle legioni. Anche donne poteano comparir sulla scena romana, a differenza della greca, purch? vestite decente: ma restavano diffamate, proibito ai senatori di sposare le attrici, n? le figlie o le nipoti d'istrioni.
Somma doveva essere l'abilit? degli attori se tanta ammirazione destarono Batillo e Pilade, Esopo e Roscio. Eppure generalmente erano schiavi o liberti greci, che a forza di studio avevano imparato la giusta pronunzia del latino. Inoltre, vastissimi essendo i teatri, doveano forzar la voce perch? fosse intesa da ottantamila spettatori; le parti femminili erano spesso sostenute da uomini; il viso coprivasi con maschere: lo che rende inesplicabile l'effetto che Cicerone e Quintiliano dicono producessero.
Esopo e Roscio non mancavano mai al f?ro qualvolta si agitasse causa interessante, per osservare i movimenti dell'oratore, del reo, degli astanti. Il primo fu amico di Cicerone, e bench? magnifico all'eccesso, lasci? a suo figlio venti milioni di sesterzj, cio? quattro milioni di lire. Da Roscio, che pel primo abbandon? la maschera, prese lezioni Cicerone, che poi gli divenne amico, e sfidavansi a chi meglio esprimerebbe un pensiero, questi colle parole, quegli col gesto: all'anno riceveva cinquecento sesterzj grossi, o centomila lire: ducentomila n'ebbe Dionisia attrice, per una stagione del 377. Neppure questo scialacquo ? dunque novit?.
Il migliore storico di Roma le venne dalla Grecia, Polibio di Megalopoli , che deportato con quelli traditi da Callicrate , acquist? la grazia degli Scipioni, principalmente dell'Emiliano, lo segu? in Africa, e narr? la storia contemporanea dal 220 al 167. Di scarso gusto e d'arte scadente, attiensi al positivo; vide i luoghi, seppe il latino, lesse in Roma documenti ignorati da' natii, e meglio di questi c'informa della loro costituzione, che egli reputa non solo superiore alla spartana e alla cartaginese, ma tale che, a petto di essa, la repubblica di Platone somiglia una statua accanto d'uomo vivo. In serena tranquillit? narra non declama; cura la moltitudine, quanto Livio gli eroi; ma escludendo la Provvidenza regolatrice, e tutto riducendo a invenzione degli uomini: eppure non sa guardarsi dalla funesta simpatia per la prosperit?, rimprovera e ingiuria i nemici de' suoi Scipioni, dice che le leggi della guerra permettono di fare tutto ci? ch'? utile al vincitore o nocevole al nemico. Vero ? che fa giungere qualche disapprovazione alle orecchie degli oppressori della Grecia: vede la colpa de' Romani nella seconda guerra punica; la terza considera come un delitto: professa che fine della vittoria non dev'essere la distruzione del nemico, ma il riparare dall'ingiuria ; che il vincitore non dee confondere l'innocente col reo, e piuttosto risparmiare i rei in grazia degli innocenti; tralasciare i guasti inutili perch? provocheranno eccessi contrarj: la pace ? di tutti i beni il solo che nessuno si perita a considerar per tale; tutti preghiamo gli Dei a concedercelo, n? v'ha cosa che non sopportiamo per ottenerlo.
Moltissimi Greci scrissero de' fatti della Sicilia; alcuni anche Siciliani, fra cui il pi? antico e lodato ? Antioco figlio di Serofane siracusano, autore di una storia di quell'isola, e d'una dell'Italia: fioriva ai tempi di Serse. Temistogene, oltre la storia patria, divis? la spedizione di Ciro il giovane in Persia, che alcuno pretende sia quella che va sotto il nome di Senofonte. Anche i due Dionigi tiranni storiarono; e Filisto, condottiero di eserciti nella guerra cogli Ateniesi, poi relegato a Turio, richiamato per ordinar le cose siracusane, infine ucciso a strazio da' suoi cittadini il 400, aveva esposto la storia siciliana fin a tutto il regno del vecchio Dionigi; conciso, dicono, quanto Tucidide e pi? chiaro. Un altro Filisto ? lodato d'avere pel primo applicato alla storia gli artifizj retorici. Callia, scolaro di Demostene, nelle imprese di Agatocle parve pi? elegante che veritiero.
Timeo da Taormina scrisse una storia universale e varie particolari, e una critica sugli errori degli storici: se il lodano per buona distribuzione cronologica, l'appuntano di soverchia mordacit?, e di raccogliere ogni cosa senza discernimento. Celebratissimo da Cicerone ? Dicearco messinese, morto al principio del regno di Gerone, e vissuto il pi? in Grecia: in istile attico deline? vite d'illustri uomini e dei sette Sapienti, le feste e i giuochi, e una descrizione della Grecia fisica e morale: per incarico de' re macedoni fece e descrisse la misura de' monti del Peloponneso, con buone idee sulla conformazione generale della terra. Aristocle, pur da Messina, raccolse la serie degli antichi filosofi e la somma dei loro insegnamenti. Polo d'Agrigento lasciava la genealogia de' Greci e de' Barbari venuti alla guerra di Troja. Filino, suo compatrioto, milit? sotto Annibale, e ne descrisse le imprese adulando; sicch? pi? rincresce l'averlo perduto, giacch? farebbe contrapposto ai Romani che lo calunniarono. Le guerre Servili furono narrate da Cecilio di Calutta, che tratt? pure sul modo di leggere gli storici. Andera da Palermo narr? le cose memorabili di ciascuna citt? della Sicilia.
Pure molte biblioteche eransi in Roma raccolte. Paolo Emilio, come altri nobili, per diletto de' suoi figli trasport? in citt? quella di Perseo re di Macedonia: Silla da Atene quella di Apellicone Tejo, che fu messa in ordine da Tirannione, il quale pure ne raccolse una di trentamila volumi: pi? insigne l'ebbe il suntuoso Lucullo, che gli eruditi del suo tempo vi raccoglieva a dotte conferenze. Anche Attico ne form? una doviziosa, e molti schiavi occupava a ricopiare per farne traffico; onde Cicerone iteratamente il prega a non vendere certe opere, giacch? spera poter comprarle lui per aggiungerle alle molte che gi? aveva unite con varie anticaglie. E probabilmente per opera degli schiavi ogni lauto romano procacciavasi una biblioteca: ma sebbene ai copisti sovrantendessero grammatici destinati a collazionare, i testi riuscivano scorrettissimi. Primo Cesare pens? ad una biblioteca pubblica, e n'affid? la cura a Varrone; il qual pensiero interrottogli dalla morte, fu messo ad effetto da Asinio Pollione: poi Augusto ne applic? una al tempio d'Apollo Palatino, ed una al portico d'Ottavio: e di rado ai pubblici bagni mancava un gabinetto per la lettura.
Da antico si registravano gli avvenimenti giornalieri negli Annali Pontifizj; ma al tempo della sedizione dei Gracchi rimasero interrotti. Cesare pel primo istitu? un giornale degli atti del senato, ed uno di quei del popolo, affine di conservarli e pubblicarli. Augusto ordin? si continuasse il primo, ma guai a pubblicarlo, ed elesse egli medesimo chi dovea compilarlo. Su quello del popolo si notavano le accuse recate ai tribunali, le sentenze loro, l'inaugurazione de' magistrati, le costruzioni pubbliche, e in appresso la nascita e le vicende dei principi. Somiglia dunque ai giornali moderni, lontanissimo per? dall'averne la diffusione, che ne costituisce l'importanza.
I nostri lettori sono gi? familiarizzati col pi? insigne storico latino, Tito Livio, e conoscono come per patriotismo riducesse la storia romana ad un'epopea, cui conviene pi? che ad altra quell'epiteto affatto romano di magnifica. Con un'ammirazione candidissima, con una persuasione che sente dell'ispirato, concepisce poeticamente, narra ampio e maestoso, qual conviene al paese dove si congiungevano l'eloquenza poetica con quella del f?ro; rifugge ogni trivialit?, ogni arcaismo di pensieri o di linguaggio, talch? nell'uniforme splendore del suo stile, come in certe moderne tragedie, non ci presenta se non i contemporanei d'Augusto, esprimenti con accento gentile le passioni d'et? gagliarde. Come arte non sapremmo qual lavoro antico o moderno pareggi quella sua eloquenza, neppur un istante dimentica della propostasi gravit?; quella chiarezza che nulla lascia d'indeciso nelle idee, di faticoso all'attenzione; quell'eleganza semplice che cresce grazia al pensiero, vivezza ai sentimenti; quell'armonia penetrante che diffonde sulla storia tutto il vezzo della poesia; quella perfezione di stile, ove nuove bellezze rivela ogni nuova lettura. Qual successione di mirabili quadri, di grandiosi caratteri, di stupende arringhe! quale industria nello scegliere le circostanze! Quindi di poche opere antiche la perdita ? a deplorare quanto de' libri suoi; e il mondo letterario tripudi? ad ora ad ora della speranza sempre tradita di vederli scoperti o nei serragli di Costantinopoli o nei conventi della Scozia.
Cornelio Nepote di Ostilia aveva composto una storia universale in tre libri, ed altre che andarono perdute, non avanzandoci che qualche brano, e le vite di Catone e d'Attico pregevolissime per urbanit? di stile. Le vite degli illustri capitani di Grecia, quali corrono sotto il nome di lui, senza colore nel racconto, senza originalit? e coerenza ne' pensamenti, senza vigore nello stile, n? quelle particolarit? che fan conoscere al vero i personaggi, n? ampia notizia di fatti, o appropriata scelta delle circostanze; accompagnate di costruzioni strane, forme inusitate e fin solecismi, sembrano una compilazione d'et? bassa. Se ? vero che siano tanto opportune alle scuole, almen si corredino di note che non lascino imbevere i giovani di tanti errori di fatto e di giudizio.
Periti i monumenti di questa, si cerc? ricomporla mediante il linguaggio e la giurisprudenza ; e per quanto incerte sieno tali congetture, ce n'esce per? una filosofia non di scuola come fra' Greci, ma pratica e civile. Quanto avea d'originale ben tosto and? mescolato alla greca, alla quale tutti accorrevano, e che essendo fatta men per la vita che per la scuola e per esercizj di penetrazione, variava secondo il differente punto d'aspetto, e menava facilmente al rifugio de' tempi scredenti, l'eclettismo.
Qui dunque come nel resto i Romani si mostrarono utilitarj, stimando la scienza in ragione del vantaggio che recava; e la filosofia disprezzavano non solo come inutile e cianciera, ma come pericolosa, imputando ad essa la decadenza della Grecia. Perci? attesero piuttosto alla morale, cui proposero uno scopo immediato: e Panezio, che inizi? i Romani alle dottrine della stoa, non restringeasi ad angustie di partiti, venerava Platone come il pi? saggio e santo de' filosofi, ma insieme ammirava Aristotele; non approvava negli Stoici la durezza affettata, e giungeva sino a raccomandare il libro d'un Accademico, ove s'insegnava che la piet? ci ? data dalla natura per renderci clementi.
Questo avvicinare delle varie filosofie teneva all'indole conciliatrice di Roma: n? scuola filosofica propria vi si costitu?, solo studiandola come necessaria coltura, e come opportuna a formar l'oratore, a dar fermezza e consolazione nelle calamit?. Perci? prediligevasi la scuola stoica: l'epicureismo era piuttosto praticato che insegnato. Le opere di Aristotele, quantunque da Silla fossero portate a Roma, rimasero chiuse nella biblioteca di lui, finch? Tirannione grammatico non vi diede pubblicit?; corrette poi e supplite da Andronico di Rodi contemporaneo a Cicerone, se ne fecero copie: ma anche persone erudite ignoravano quel filosofo.
De' Latini che scrissero di filosofia, nessuno vi rec? n? gran dottrina n? bastante pulitezza; i libri di Varrone, anzich? istruire, stimolavano ad istruirsi; alfine Cicerone present? agli ultimi nipoti di Pompilio e di Cincinnato le raffinatezze della filosofia greca. Sinch? egli potesse occuparsi della cosa pubblica, in questa si concentrava; n'era escluso? ritiravasi nelle sue ville di Tusculo o del Palatino, dove, senza perdere di vista Roma, s'occupava di filosofia per esercizio dello scrivere, per isfoggiare la propria abilit?, e per fare che nella letteratura romana non rimanesse questa lacuna: i Greci mescevano versi, ed egli fa altrettanto, e non dissimula che le sue sono traduzioni, mediante le quali in vero ci conserv? memoria di molte opere ora perdute. Ma novit? sua vera ? l'intento civile, proponendosi d'indirizzare a una nuova operosit? scientifica e intellettuale i Romani, quando chiudevasi la politica; e preparare ristori alle vicende della fortuna, cui poteano essere esposti.
Con Posidonio e Panezio crede al diritto e alla giustizia; quando posa i grandi problemi religiosi, s'accosta alla verit? assoluta, ha la volont? di raggiungerla, ma si fa scrupolo de' dubbj che, per amore di scuola, deve apporre ad ogni affermazione, arrestandosi nel probabile, cogli Accademici, che objezioni facevano a tutto e non riuscivano a veruna certezza, speculatori sempre, non pratici mai, perturbatori d'ogni principio. Effetto inevitabile in una credenza mancante di base, e che dal panteismo o dalla fatalit? non deriva che illogicamente: laonde i dogmi pi? venerati Cicerone non pu? recarli che come probabilit?, dove il sentimento prevale quand'anche l'argomentazione sia stringente.
E vivissimo ? il sentimento della sociabilit? in Cicerone: crede istinto dell'uomo l'associazione, indipendentemente da bisogni; che di tale convivere sia legge la indulgenza e benevolenza universale: nulla v'ha di meglio che l'amare i nostri simili, che l'esser buoni e far bene: il riscattare i prigionieri e nutrire i poveri trova generosit? ben maggiore che non le larghezze onde i grandi di Roma blandivano il popolo: estende anzi la patria a tutto il mondo, volendo che l'umanit? stia di sopra del patriotismo, e reclamando diritti anche per gli stranieri: fin dei servi si cura, volendo se n'abbia riguardo quanto almeno degli armenti. Ma il patriotismo e gl'istinti pagani ricompajono spesso; Fontejo ? accusato di estorsioni e crudelt?, e Cicerone chiede: -- Chi ? che lo accusa? son barbari, persone in brache e sajo. Chi attestimonia per lui? cittadini romani. Il pi? nobile de' Galli potrebbe essere paragonato coll'infimo de' Romani?>>
Per? le applicazioni sono il pi? delle volte generose: e se mette alquanto della natura sua allorch? predica doversi seguitare la virt? in modo da non pregiudicar la salute, essere da sapiente il secondare i tempi e adattarsi alla procella nel navigare, piace nella Roma di Silla e di Marc'Antonio l'udirlo proclamare che scopo della guerra ? la pace, e non doversi quella intraprendere che per rimovere l'offesa. Siffatte aspirazioni pacifiche in verit? erano comuni al cadere della repubblica, quando della guerra sentivansi tutti i guaj. Come letterato poi preferisce la toga alle armi, e trova qualcosa di feroce nel precipitarsi ciecamente alla strage e lottare corpo a corpo col nemico, e vi prepone la gloria di grandi e numerosi servigi resi alla patria e all'umanit?.
Ma fra gli Stati esiste una moralit? come fra' particolari, o norma unica ne ? l'interesse? Come platonico, egli unisce la morale e la politica, e fa da Lelio proclamare che alle societ? nulla nuoce pi? che l'ingiustizia, n? alle genti ? possibile governarsi e vivere senza rispettare il diritto: ma nell'applicazione ricasca all'angustia del patriotismo, crede che Roma conquist? il mondo nel difendere i suoi alleati, e sostiene legittima la conquista di essa, cogli argomenti onde Aristotele sosteneva legittima la schiavit?: natura ha stabilito che chi ? superiore per ragione sia anche per autorit?, e la dominazione di Roma ? giusta perch? fu un bene pei popoli, i quali perivano in grazia dell'indipendenza. Il patrioto dimentica che la filosofia non dee fondarsi sopra le conseguenze delle azioni, ma sopra le azioni stesse; che l'avvenire ? di Dio, ma regola invariabile dell'uomo dev'essere il dovere.
Tirone suo liberto raccolse le lettere di lui ad Attico, al fratello Quinto e a varj personaggi, carteggio importantissimo a quella posterit? cui non lo destinava. Ivi non pi? retorica, ma parla col cuore in mano, con lingua svincolata dal periodare oratorio; e sebbene le molteplici allusioni, i proverbj, le prudenti reticenze, naturali in cos? fatte scritture, le oscurino a volta a volta, siamo empiti di meraviglia da quell'elegante naturalezza, dall'erudizione spontanea, dal frizzo, dalla concisione, dal felice accoppiamento dell'ingegno col gusto.
Non esitammo a tornare e ritornare sopra questo grand'uomo, il quale ci presenta l'intero circolo della sapienza romana, e i cui libri, eternati dalla chiarezza ed eleganza, esercitarono non solo sulla successiva scuola romana, ma su quella ben anche de' secoli nuovi, maggior efficacia che non i filosofi profondi.
Questi appartengono all'et? arcaica; ma anche i posteriori, poetando d'imitazione pi? che di lena, dovettero fondare il linguaggio poetico sopra forme metriche e grammaticali differenti dalle popolari; talch? quello risult? di una mal fusa mescolanza, finch? si sbandirono le parole composte e le costruzioni esotiche. Di tale appuramento la lode appartiene a Cajo Valerio Catullo veronese , il quale ademp? colla latina quel che il Petrarca colla lingua nostra, spogliandola delle forme aspre, e vestendola di grazie ingenue, al tempo stesso che da austeri argomenti la volgeva a lepidi e amorosi. Vi si sente per? ancora la scabrezza; non ancora il suo pentametro finisce in bisillabo, come negli elegi posteriori, n? chiude il senso; frequenti gli iati, non iscarse le parole composte: talch?, sebbene accuratissimo nei brevi suoi componimenti, sebbene in alcuni, come l'episodio di Arianna abbandonata nelle nozze di Teti e Peleo, mostri bellezze virgiliane di concetto, di sentimento, d'espressione, in generale quell'aria al tempo stesso di negletto e d'affettato lo disgiunge troppo da Virgilio, al quale di sedici anni appena era maggiore.
Tutti dolcezza sono invece Albio Tibullo e Sesto Aurelio Properzio. Il primo, di famiglia equestre, sdegn? i favori di Mecenate e d'Augusto; e <
L'elegia, cio? il verso esametro avvicendato col pentametro, era stata dai Greci de' migliori tempi adoperata alla precettiva ed alla politica, e da' posteriori all'erotica. Di quest'ultima si fecero imitatori i Latini, meglio all'indole loro affacendosi la descrizione e la riflessione, e le impressero quel tono querulo e patetico, che venne poi carattere dell'elegia, e che in Tibullo principalmente tocca a quella malinconia, che forse troppo vien cercata dai moderni. Ogni cosa egli riferisce all'amore; se brama la pace, si ? perch? lo strepito di Marte non conturbi Delia; se deplora il rapitogli patrimonio, gli ? perch? Delia non pu? passeggiare sotto l'ombre avite; se della morte si consola, gli ? perch? Delia accender? il suo rogo, e gli dar? il triplice addio.
Properzio di Mevania nell'Umbria, figlio d'un ricco il quale, per aver favorito Lucio Antonio, perd? la maggior parte dei beni, abbandonata la giurisprudenza, si fece poeta godendo l'amicizia de' migliori, cant? Cinzia, e mor? giovane. Prevale a Tibullo in vigor di fantasia, d'espressione, di colorito, quanto a lui cede in grazia, spontaneit? e delicata sensitivit?, ed a Catullo in agevolezza, profondit? ed affetto. Dotto lo dicono perch? mai non dimentica l'arte, limando, levigando, non dando passo che sull'orme dei Greci; e non de' Greci del miglior tempo, ma dell'et? Alessandrina, come Callimaco e Fileta, i quali rinzeppano erudizione, mitologia, allusioni nocevoli all'affetto. Vantandosi di aver egli primo fra gli elegiaci maritato le feste romane alle danze greche, non pare che senta se non in relazione di avvenimenti mitologici. Cintia piange? ha pi? lagrime che Niobe conversa in sasso, che Briseide rapita, o Andromaca prigioniera: dorme? somiglia alla figliuola di Minosse abbandonata sulla spiaggia, o a quella di Cefeo liberata dal mostro, o ad una baccante del monte Edonio, quando briaca si corca sulle smaltate rive dell'Apidano. I suoi capelli son del colore di quelli di Pallade: la statura, quella d'Iscomaca e d'altre eroine. Vuole invaghirla per le semplici bellezze, pei fiori spontanei, per le conchiglie del lido, pel gorgheggio degli uccelli? a queste ingenue pitture mesce Castore, Polluce, Ippodamia: le rammenta che Diana non si perdeva troppo allo specchio; che Febea e sua sorella Ilaa faceano senza di tanti ornamenti; che de' soli suoi vezzi era vestita la figlia del fiume Eveno, quando Apollo ne disput? il cuore a Ida.
N? solo gli amori rimpinza di ricordi, ma non sa ornare le leggende d'Italia che con miti greci, non deplorar Roma che rammentando le sventure d'Andromaca e l'afflitta casa di Lajo. Eppure, quando mette da banda questi fronzoli, fa sentire voci nazionali, siccome in alcune elegie veramente sublimi, e la propria emozione sa trasfondere nel lettore e volentieri si rileggono i versi ove dipinge gli antichi costumi degli Italiani a raffaccio dell'attuale corruzione: nel calendario ha men arte e pi? nobilt? che Ovidio, e descrive la campagna, non come questo dalla citt?, ma come uom che la vede.
Il quale Publio Ovidio Nasone , cavaliere da Sulmona terra ne' Peligni denominata dal frigio Solimo, di rimpatto mostra maggior brio, ed ? il verseggiatore pi? limpido, pi? fluido. Per? in quella spontaneit? da improvvisatore, ch'egli stesso confessa eppur non ismette, cerchi invano o l'eleganza di Tibullo o la dignit? di Properzio; spesso si ripete, sminuzza in particolarit? indiligenti; talvolta lede persino la grammatica; ma purch? riesca a farsi leggere, che gl'importano difetti e censure?.
Sebbene l'illustre nascita gli spianasse il calle agli onori, antepose la vita gaudente, e divenne carissimo alle corrotte compagnie ed alla Corte d'Augusto. Se non che improvvisamente ? relegato a Tomi, esigilo mite nelle ridenti glebe della Bulgaria; esiglio non inflitto dal senato ma dal padre della patria, dall'amico dei dotti, senza torgli n? le sostanze n? i diritti, ma senza processo, senza addurre motivi. Teneva egli mano alle scostumatezze di Giulia? vide, e non seppe tacere le costei dimestichezze col padre? stomac? Augusto co' laidi versi? Il bel mondo susurra della mancanza del suo poeta, ma non ardisce scandagliarne la cagione, finch? dimentica i gemiti impotenti della vittima e l'illegalit? del punitore.
Di molti poeti latini andarono smarrite le opere; e le commedie di Fendanio, le tragedie di Pollione e di Vario, e le epopee di Vario stesso, di Rabirio, di Cornelio Severo, di Pedo Albinovano, il poema di Cicerone sopra Mario, le didascaliche di Marco, i versi di Giulio Calido, riputato il pi? elegante poeta dopo Catullo, non ci son noti che di nome. Cornelio Gallo, confidente di Virgilio, combatt? contro Antonio ed ebbe il governo dell'Egitto, poi caduto in disfavore, si uccise.
Da quelli che ci restano e che erano i migliori, siam chiariti come in Roma dominasse una letteratura di tradizione e d'imitazione, sicch? tutti si esercitavano in eguali generi, eguali soggetti, quasi eguali sentimenti. In generale imitavano i poeti della scuola Alessandrina, e pi? che dell'invenzione si occupavano della forma, mostrando maggiore erudizione che originalit?; letterati insomma, non genj. Della loro vita conosciamo poco pi? di quel ch'essi medesimi ce ne tramandarono per incidenza; e in un tempo in cui dotti e indotti faceano versi, ma pochissimi leggevano, altro pubblico non aveano che i pochi ricchi, altro applauso che di qualche consorteria, a meritar il quale bisognava sagrificassero l'indipendenza. Ammusolata l'eloquenza, la poesia per sopravivere si fa stromento alla corruzione, onestata col nome di pacificamento; e colle blandizie e colle armonie delicate abitua la pubblica opinione a lodare il fortunato, il quale s'annojava di questi adulatori, ma per interesse li proteggeva e concedeva loro i piccoli onori, avendo della letteratura fatto uno spediente di governo. Da tutti trapela una societ? infracidita dai vizj del conquistato universo, fiaccata dalla guerra civile, assopita dall'elegante despotismo, indifferente ai pubblici interessi e ai gravi doveri, anelante al riposo, ai godimenti del senso, allo stordimento delle volutt?. Sulle iniquit? passate hanno cura di stendere un velo recamato, di scusare o anche giustificare l'ingiustizia, e travolgere o pervertire i giudizj. Quale oser? lodare chi ? disfavorito dal principe? Al comparire d'una cometa il popolo si sgomenta? i poeti canteranno che ? la stella di Giulio Cesare. Augusto ha paura? ripeteranno quanto sia necessaria la sua vita, che tardi ascenda ai meritati onori dell'Olimpo, e vanteranno la beatitudine d'un tempo, del quale gli storici s'accordano a piangere la decadenza.
Del resto que' poeti non s'affannino troppo a perseverare in opinioni meditate e di coscienza; vaghino di scuola in scuola, sfiorino tutto, non approfondiscano nulla; principalmente persuadano che il godere la vita, usar moderatamente de' piaceri, fare germogliar rose di mezzo alle spine, ? il fiore della sapienza: uffizio tanto pi? efficace, quanto che adempiuto con giusto equilibrio delle locuzioni patrie colle forestiere, e colla correzione delle forme e la finezza del gusto, che s? breve doveano durare.
Da questo conobbe Orazio i vecchi Latini, ma li sent? inferiori ai Greci, e massime ad Omero, nel quale esso trovava poesia, morale, politica, tutto, siccome avviene dei libri che spesso si rileggono.
Entrato nella milizia, di ventitre anni capitan? una legione nelle file pompejane, come la giovent? che imita, non sceglie: ma nella giornata di Filippi gett? lo scudo e fugg?. Pacificate le cose, toltogli dai soldati il modesto retaggio, n? rimastegli che le lettere, si tenne alcun tempo colle vittime e cogli imbronciati, reso audace dalla povert?: e se fosse perdurato in questo eroismo negativo, sarebbe riuscito inopportuno come Catone, mentre invece si immortal? coll'accostarsi ai potenti e trascendere in adulazioni. Perocch? Virgilio e Vario lo introdussero a Mecenate, che accolse freddamente questo partigiano di Bruto; ma conosciutone l'ingegno, se lo guadagn?, e presentollo ad Augusto. In quel vivere pubblico sul f?ro, al portico, nel campo, era facile che s'accomunassero i cittadini anche in gran diversit? di nascita e di posizione; ed Orazio, gioviale e tollerante, divenne amico senza invidia e senza bassezza del buon Virgilio, come del dovizioso Mecenate e d'Augusto stesso; gli uni invitava a cena, dagli altri riceveva e anche domandava pranzi, campagne, ville, quando tante ce n'era da distribuire, confiscate, occupate militarmente, vacanti per padroni uccisi.
E un podere sulle colline di quel Tivoli che una volta s'intitolava superbo e allora solitario , bastante al lavoro di cinque famiglie, ebbe Orazio in dono, e col? godeva i suoi giorni, gustando il pi? che potesse della vita, non pretendendo sottoporre a s? le circostanze, ma a quelle sottoponendosi; tanto scarco d'ambizione e aborrente da legami, che n? tampoco volle essere segretario di Augusto: ma alle lusinghe di questo non pot? negar le lodi, anzi divenne il poeta di Corte, che nella sua faretra aveva pronto uno strale per ogni evento; per celebrar natalizj o vittorie de' nipoti del suo padrone, da buon Romano esecrando tutto ci? ch'era forestiero, e pregando che il sole non potesse veder cosa pi? grande di Roma.
Fedele alle regole d'un gusto squisitissimo, del resto egli vaga per ogni tono della sua lira, per ogni variet? d'opinioni: ora vagheggia la tracia Cloe a dispetto della romana Lidia, e sberteggia l'invecchiata Lice e la mal paventata strega Canidia; poi di repente vanta a Licino l'aurea mediocrit?, o tesse un inno ai numi: aborre dal lusso persiano e dall'avorio e dalle travi dorate, e desidera che Tivoli dia riposo alla sua vecchiaja, stancata nell'armi: una volta dipinge le delizie campestri, in modo che tu nel credi sinceramente innamorato e gi? gi? per divenire campagnuolo; ma due versi di chiusa ti rivelano che tutto fu ironia. A Mecenate, suo sostegno e suo decoro, egli ricanta che senza lui non pu? vivere, che vuole con lui morire; ma il genio suo l'assicura d'avere alzato un monumento pi? perenne che di bronzo.
Come dell'esser nato da padre liberto, cos? celia dello scudo che gett? via a Filippi, e chiama se stesso un ciacco delle stalle d'Epicuro, mentre raccomanda che la giovent? romana si educhi a soffrire l'augusta povert?, e faccia impallidire la sposa del purpureo tiranno, allorch?, come lione entro un branco di pecore, egli s'avventa fra' nemici. Per blandire Augusto, si astiene dal lodar Cicerone: agli Offelj, dalla rapace largizione del triumviro convertiti da possessori in fittajuoli, predica di vivere con poco, d'opporre saldo petto all'avversa fortuna: tratta da pazzo il gran giureconsulto Labeone, perch? non si mostra ligio all'imperatore: di Cassio Parmense fa un sommo poeta sinch? favorito, lo vilipende quando cade in disgrazia: colla stessa meditata facilit? geme se minacciano rinnovarsi le guerre civili, e solleva il velo che copre gli arcani della politica. Ma quando encomia la virt? originale di Regolo o la imitatrice di Catone, e coloro che furono prodighi della grand'anima per la patria, e geme su' guaj che toccano al popolo pe' delirj dei re, vien di credere che vagasse nella lirica per disviarsi dal cantare epicamente le glorie, su cui il secolo d'oro voleva disteso l'oblio.
La satira, poesia dei tempi critici, o coopera a distruggere e riformare; o associandosi colla elegia, sorge alla sublimit? della poesia civile; oppure si contenta di ridere, come fece con Orazio. Conservando la finezza di cortigiano e la docilit? di liberto anche in questo genere essenzialmente democratico, mostrasi dedito a frequentare la societ?, il che ne scopre il ridicolo, anzich? al vivere solitario, che ne scopre i vizj. E perch? i vizj di Roma erano dalla prosperit? pubblica ammantati, potevasi ancora sorridere di quello onde al tempo di Giovenale un'anima onesta non poteva se non bestemmiare. Poi le monarchie tendono sempre a diffondere uno spirito di moderazione; e come Augusto col lodare gli antichi costumi adottava i nuovi, Orazio il second? scalfendo senza ferire, ponendo se stesso in prima fila tra que' peccatori; sicch? punzecchia le colpe senza mostrarne aborrimento, esorta alla virt? senza farsene apostolo, rimprovera la onnipotenza attribuita al denaro, ma i denarosi corteggia e ne implora le cene e i doni; e colloca la morale nel fuggire gli eccessi, i desiderj misurare ai mezzi di soddisfarvi, viver pago di s? e accetto agli altri; e pingue e lucido in ben curata pelle, ingagliardisce nelle lussurie e non si d? un pensiero dell'avvenire. Nel che, lontano dallo stoicismo desolante di Persio, dall'atrabile di Giovenale, e dal cinismo in cui alcuni ripongono la forza della satira, mai non si scosta da quella finezza di vedere e aggiustatezza d'esprimere, che non si possono cogliere se non nelle grandi citt? e nella conversazione. E poich? i mediocri, s? nei meriti s? nei peccati, sono sempre il numero maggiore, perci? dura eterno il morso ch'egli diede ai costumi, e gli originali suoi ci troviamo accanto tuttod?; sicch?, in fuori della settima del libro primo, composta a ventitre anni, nessuna delle sue satire invecchi?.
Molto egli trae da Aristotele, ma molto dalla propria sperienza; n? quell'epistola ? inutile in tempo che, salite ai primi posti l'erudizione e la storia, molti sostengono non darsi principj certi di critica, canoni non potersi dedurre che dai capolavori, ed esser tiranniche tutte le regole antiche, per verit? nulla pi? severe di quelle che s'impongono a nome della libert?.
In quel gran latrocinio contro i prischi Italiani, per cui i campi furono ripartiti fra i soldati d'Ottaviano, Publio Virgilio Marone , nato nel villaggio d'Andes presso Mantova, educato a Cremona e a Milano, venne a Roma a reclamare l'avito suo poderetto; e coll'ingegno trovato grazia appo Augusto, l'ebbe come un dio e ne accett? i favori. Candido, forbito, innamorato dell'arte e della pace, era il poeta nato fatto per quei tempi, in cui dal mareggio civile importava richiamare alle operose dolcezze della villa, e mutare le spade in aratri, l'attualit? in memorie. Quest'era l'uffizio a cui Augusto convitava le Muse: e tutti i poeti dell'et? sua si mostrano credenti a tutta la litania degli Dei, fin nelle pi? beffate loro trasformazioni; predicatori del buon costume e della sobriet? degli antenati, plaudenti al ritorno della pace, del pudore antico, della casta famiglia; encomiatori dell'agricoltura, e di quel vivere campagnuolo che avea prodotto i vincitori di Cartagine.
Come gli altri Romani, Virgilio non si propone d'inventare, ma di far una poesia finita; copia le bellezze di quei che lo precedettero, aggiungendovi finezze tutte sue; collo studio migliora ci? che a quelli il genio somministr?, eliminandone ogni scabrezza, ogni sconvenienza; e col maggior garbo lusinga il lettore, il quale s'affeziona ad un poeta tutto occupato nel recargli diletto. E qual altri conobbe s? addentro ogni artifizio dello stile? Con variet? inesauribile di voci, di frasi, di ritmo, carezza gli orecchi del lettore, non lasciandone un istante rallentare la schizzinosa attenzione, senza per questo solleticarla con lambiccamenti o con pruriginose vivezze. Quel che impar? nella colta conversazione dell'aula d'Augusto, egli nella solitudine raffina col delicato sentire; e dalla maestosa onda del suo esametro fino alla scelta de' vocaboli ben equilibrati di vocali e consonanti, e di dolci ed aspre, tutto ? nel dimostrare che di pari sieno proceduti il pensiero e l'espressione.
Ma opera maggiore gli chiedevano i suoi protettori, la quale non lasciasse a Roma alcuna invidia delle greche ricchezze; un'epopea. I popoli raffinandosi perdono quell'ingenua credenza nell'immediata intervenzione degli Dei, sopra la quale si fondano le epopee primitive, storia ed enciclopedia delle nazioni ancor prive di critica e d'annali; la scienza ingrandendo spiega ci? che pareva mistero; l'industria toglie la grazia infantile ai famigliari nonnulla della societ? nascente: laonde all'epica grandiosa devono succedere i lavori d'erudizione ragionatamente condotti, e gran pezza lontani dalla generosa sprezzatura dei poemi popolari e nazionali. Il genio di Virgilio e il suo tempo non portavano ad un'epopea naturale; ma a forza di studio, cognizioni, arte, conducevano ad armonizzare quanto sin l? erasi fatto di meglio.
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