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Read Ebook: Storia degli Italiani vol. 03 (di 15) by Cant Cesare

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Ebook has 793 lines and 142985 words, and 16 pages

Ma opera maggiore gli chiedevano i suoi protettori, la quale non lasciasse a Roma alcuna invidia delle greche ricchezze; un'epopea. I popoli raffinandosi perdono quell'ingenua credenza nell'immediata intervenzione degli Dei, sopra la quale si fondano le epopee primitive, storia ed enciclopedia delle nazioni ancor prive di critica e d'annali; la scienza ingrandendo spiega ci? che pareva mistero; l'industria toglie la grazia infantile ai famigliari nonnulla della societ? nascente: laonde all'epica grandiosa devono succedere i lavori d'erudizione ragionatamente condotti, e gran pezza lontani dalla generosa sprezzatura dei poemi popolari e nazionali. Il genio di Virgilio e il suo tempo non portavano ad un'epopea naturale; ma a forza di studio, cognizioni, arte, conducevano ad armonizzare quanto sin l? erasi fatto di meglio.

A quella lontananza, favorevole all'immaginazione, per via d'episodj potr? facilmente annestare i nomi di coloro per cui crebbe e s'assod? la romana cosa; potr? coll'episodio di Didone adombrare la guerra punica, il cui esito accert? la grandezza di Roma; e colle antichissime cagioni delle nimist? e colle imprecazioni di Elisa che invocava irreconciliabili gli odj e le vendette contro la schiatta d'Enea, giustificare la distruzione di Cartagine per titolo di sicurezza. Infine metter? a confronto la Roma non nata ancora presso al regio tugurio d'Evandro, con quella meravigliosamente marmorea di Augusto, sulla quale egli concentrer? tutto lo splendore della storia italica e del tempo de' semidei.

Orditura cos? compassata, quanto dovea restare di sotto della spontanea ispirazione di Omero! In questo terra e cielo uniti cospirano a comun fine, e le divinit? perpetuamente intervengono alle azioni e ai consigli de' mortali. Perduta quella iniziazione divina, in Virgilio gli Dei s'affacciano solo tratto tratto per macchina d'arte; e lo scetticismo filosofico gli accetta come spediente letterario. Virgilio vede ed ammira la grande unit? di Omero, ed esclama esser pi? facile togliere la clava ad Ercole che un verso a quello: eppure compagina un poema di frammenti, di erudizione avvivata con grand'ingegno, ma non riuscendo a idealizzare le raccozzate rimembranze.

Se, invece d'imitare separatamente i didascalici di Alessandria, i bucolici siciliani e l'epico Meonio, avesse fuso gli uni coll'altro, e nell'esposizione della civilt? italica antica non introdotte in forma precettiva, ma atteggiate le ingenue dipinture del viver campestre dei prischi Italiani, avrebbe fatto opera non soltanto romana ma italica, causato il troppo immediato confronto coi poeti imitati, e la dissonanza che, come negli altri Latini, vi si scorge fra quello che ha di proprio o quel che toglie a prestanza. N? tampoco si propose egli di ritrarre particolarmente veruna et?, non la sua, non quella che descrive, n? di aprire un nuovo calle ai successori; ma fu tutto amor dell'arte, tutto romana predilezione: l'adulazione stessa non fece sguajata come quella onde Ariosto cant? gl'indegni suoi mecenati, ma fina e convenevole alla forbita corte d'Augusto.

Nella quale vivendo, Virgilio ingentilisce gli eroi: Enea depose la pelasgica rozzezza: la donna non ? pi? una Criseide che passi a chi vince; non un'Andromaca che, da vedova di Ettore, si contenti di divenire la sposa di Elleno; ma una regina che giur? fede al perduto consorte, che soccombe solo alla potenza dell'amore, e all'amore tradito non sa sopravivere. Nell'inferno di Omero, Achille ribrama avidamente la vita: nell'Eliso di Virgilio, Didone guata silenziosa il suo traditore e passa.

In quest'ultimo tratto scorgiamo un merito che render? Virgilio eternamente prezioso a chi ? capace di sentire. Fra tanti poeti che menzionammo, i quali cantarono prolissamente i loro amori, pur uno non troviamo che tratteggi al vero il procedere della passione, accontentandosi essi di ritrarne qualche accidente o le crisi pi? rilevate, e sfogarsi in sentenze, in lamenti ingegnosi, in ricche descrizioni, in tutto ci? che ? esterno. La meditata conoscenza della vita interiore doveva ai moderni venire da una fonte nuova; e parve preludervi Virgilio, che, impedito dai tempi d'essere ingenuo, si conserv? semplice, eloquente, patetico; trasfuse nella poesia il proprio cuore, e ci? che dapprima era soltanto esteriore, ridusse subjettivo coll'insistere sopra un sentimento, e scovar dai cuori i secreti pi? ritrosi, e seguir passo passo il crescere e il declinare d'una passione. Vedetelo in quell'amore di Didone, del quale son gettati i primi semi colla piet? nata dalla fama, poi cresce colla vista, col racconto, colla consuetudine, col raziocinio, finch? deluso, non pu? cessare che colla vita.

A questo fino sentire va debitore Virgilio d'un genere di bellezze nuove, qual ? l'avvicendarsi delle pitture, per cui dalla desolazione di Troja incendiata s'insinua ad una scena di famiglia; di mezzo all'ira disperata, Enea ? rattenuto dalla vista di Elena; alla procella succedono la placidissima descrizione del porto, e le ospitali accoglienze; l'episodio puramente guerresco dell'esplorazione notturna nel campo, ? risanguato dall'affettuoso episodio di Niso ed Eurialo; perocch? il patetico ? il vero dominio dell'arte, siccome la cosa essenzialmente efficace nella vita umana.

Ammirando per? quella forma cos? temperata, cos? pudica della sua bellezza, non per questo diremo superasse i suoi modelli. Come noi esaltiamo l'Ariosto per la forma, pur ridendoci delle sue favole, cos?, mentre si smarriva la tradizione religiosa d'Omero, durava, anzi cresceva di reputazione l'artistica, e Virgilio non se ne volle staccare. Ma in Omero quell'inserire s'un fatto pubblico passioni personali, quell'elevare l'individualit? mediante la grandezza dello scopo e la seriet? del destino, quell'equilibrare la natura collo spirito, ci portano ben pi? in l? che non un'epopea dotta, la quale in fatto non pot? divenire il libro de' Latini, come divennero Omero e Dante. Quella parola de' genj contemplativi e creatori, che ? possente a trarre in terra l'ideale, ? negata a Virgilio, il quale riesce soltanto a magnificare la restaurazione d'Augusto, avvenimento passeggero.

Con Omero versiamo continuo nel mondo greco, dov'egli passeggia da padrone; non cos? con Virgilio, costretto a lavorare d'erudizione. Omero ? pi? universale ne' suoi concetti, e se vuole il meraviglioso infernale, fa da Ulisse evocar le ombre entro una fossa ch'egli medesimo scav? e asperse di sangue; mentre Virgilio guida Enea per regolare viaggio ai morti regni.

Il cuore dell'uomo deve rivelarsi ne' suoi Dei, forme generali, personificazione degli interni suoi motori, nel qual caso sono gli Dei del proprio sentimento, delle proprie passioni: in Omero son essi una cosa sola cogli eroi; in Virgilio convivono ancora, intervengono ancora in avvenimenti semplici, come per indicare la via di Cartagine. Pure, non foss'altro, la diligenza del verso avvisa che si ? gi? a quel punto di civilt? ove pi? non vi si crede; e quegli Dei appajono macchine, inserite nella ragione positiva, non altrimenti che i prodigi in Tito Livio. Circe e Calipso sono abbandonate come Didone, ma in modo ben pi? naturale e ingenuo.

Alla descrizione dei giuochi, tanto semplice nel Meonio, Virgilio oppone un tale affastellamento di artifizii, che sarebbero troppi a narrare la distruzione d'un impero. Chi non ha sentito la sublimit? delle battaglie d'Omero? ogni uomo che cade v'ha il suo compianto, al tempo stesso che tutt'insieme ? un fragore, una mescolanza di cielo e terra, che rimbomba nei versi e nelle parole. Quale assurdit? invece i serpenti che strozzano Laocoonte in mezzo a un popolo! qual meschino spediente quel cavallo di legno! cento prodi che si chiudono in una macchina, esponendo lor vita ai nemici: Sinone che intesse la pi? inverosimile menzogna: Trojani cos? ciechi, da non mandar fino a Tenedo, che dico? da non salire sopra una torre per avverare se la flotta nemica abbia preso il largo nell'Ellesponto: in brev'ora, s? smisurata mole ? trascinata dal lido fin alla r?cca di Troja, superando due fiumi e gli aperti spaldi; poi non appena Sinone l'ha schiusa, ? incendiata e presa quella citt? vastissima, folta di popolo, con un esercito intatto; avanti l'alba ogni resistenza cess?, i vincitori ridussero le spoglie ne' magazzini e i prigionieri; i vinti raccolsero altrove quel che poterono sottrarre.

Molti di questi difetti appartengono all'essenza del suo componimento; alcuni sarebbero scomparsi se avesse potuto dare l'ultima mano all'opera sua. La quale, com'? stile dei grandi, pareagli s? discosta dalla perfezione, che, morendo ancor fresco, raccomandava ad Augusto di bruciarla; voto che l'imperatore si guard? bene di adempire. Tal quale la lasci?, male ordinata nell'insieme, e ad ora ad ora imperfetta nella rappresentazione e nelle espressioni, ? squisito lavoro, e come epopea definitiva serv? di norma e talvolta di ceppo agli epici posteriori, che professavano seguirla da lungi e adorarne le vestigia.

In somma la letteratura romana pu? considerarsi come una fasi della greca. Nei Greci si trovavano in armonia il sentimento dell'ordine generale qual base della moralit?, e il sentimento della libert? personale, non ancora essendosi manifestata l'opposizione fra la legge politica e la legge morale; sicch? ciascuno cercava la propria libert? nel trionfo dell'interesse generale. In questo istante dell'umanit?, fu prodotta nel suo pi? splendido fiore la bellezza sotto la forma dell'individualit? plastica; gli Dei ottennero un aspetto armonizzante colle idee che rappresentavano, sicch? la greca fu la religione dell'arte; la poesia che ha per oggetto l'impero indefinito dello spirito, raggiunse il perfetto equilibrio fra l'immaginativa e la ragione; la civilt? profitt? di tutti i passi precedenti, unificandoli e perfezionandoli in quel patriotismo che della greca fu lo scopo pi? elevato.

I Romani, stupiti a quella incomparabile bellezza, non credettero potere far meglio che imitarla. Il linguaggio della magistratura, dell'imperio, era il latino; ma il greco quel della coltura, della eleganza; sarebbe parso sacrilegio il parlare altro che latino dal tribunale o dalla ringhiera; Tiberio cancella una parola greca scappata in un senatoconsulto; Claudio toglie la cittadinanza ad uno che non sa il latino: ma nella conversazione si parla il greco; in greco si scrivono le note e le memorie; il greco si usa in famiglia, si usa coll'amante, dicendole ???, ????; greci sono i maestri, n? i filosofi di quella lingua si varrebbero mai della latina, anzi non la imparano; e Plutarco, che tanto n'avea bisogno per iscrivere le sue vite, ben tardi cominci? a leggere qualche scritto romano, comprendendolo dal senso piuttosto che letteralmente. Cicerone affetta di non capire la bellezza delle statue greche, d'ignorare i nomi de' loro artisti; ma appena sceso dai rostri, parla greco, va in Grecia a perfezionare la sua educazione, traduce i greci filosofi.

Se fosse prevalsa l'Etruria, Italia avrebbe serbato una poesia originale, con forma e lingua proprie: Roma invece dal bel principio s'acconci? all'imitazione, e ricevendo gli Dei della Grecia, dovette pur riceverne l'arte che sulla religione era fondata. Ma la religione fra i Greci era culto e dogma, ai Romani era favola e convenzione; e tale si mostra in tutta la loro poesia. Potrebbe mai credersi che Virgilio, Orazio, Ovidio prestassero fede a quei numi, che adopravano per macchina ed ornamento? n? mai dalla lira latina usc? un inno ove apparisse, non dir? la divota ispirazione ebraica, ma neppure la convinzione che alita in Omero, in Eschilo, in Pindaro. Il poeta non sentiva i numi nel cuore, non era ascoltato dal popolo, preoccupato da positivi interessi; riducevasi dunque a pura arte, n? in ci? poteva far di meglio che seguitare i Greci, i quali ne avevano esibito i pi? squisiti esemplari.

-- Questi esemplari sfoglia giorno e notte>>, raccomandasi ai giovani di buone speranze; non gi? meditare sopra se stessi, sulla natura, sul mondo: divenire per gloria eterni si confida non tanto per coscienza delle proprie forze, quanto per la gran pratica coi capolavori dei maestri, per averne scelto il meglio a guisa d'ape, e tradotte le muse di quelli a favellare con intelligenza la lingua del Lazio. Che se poniam mente a questa moderata pretensione, men vanitoso ci sembra quel loro continuo assicurarsi dell'immortalit?, e d'associare il proprio nome all'eternit? della romana fortuna.

N? trattavasi soltanto dell'imitazione, naturale a chi, venendo dopo, eredita dai predecessori, senza perdere quel che v'ha di proprio nello spirito, nella lingua, nella tradizione, nel pensar nazionale; ma si faceano ligi alle forme artistiche, particolari di quella gente, per conseguenza non riuscivano coll'artifizio a raggiungere l'altezza, cui soltanto colla naturale vivacit? dell'ingegno si perviene. Quel bisogno artistico di esprimere e di comunicare i sentimenti pi? nobili e pi? profondi, dal quale ? creata e conservata una letteratura, fu poco sentito da' Romani, sprovveduti dello slancio ideale, dell'intuizione calma della natura, e dello spirito estetico tanto proprio de' Greci; l'elemento religioso vi rimaneva interamente subordinato al politico; di rado seppero il semplice ed il naturale elevare all'idealit?; e diedero facilmente nel falso, e in quel sublime di parole scarso d'idee, che costituisce il declamatorio. La poesia romana non differ? dalla greca per lo spirito, pel sentimento, pel modo di osservar l'universo, per l'espressione; ma l'arte vi si scorge troppo, tutto ? riflesso e calcolato, nulla della semplicit? di Omero, e l'abilit? del linguaggio e l'arte retorica mal suppliscono alla forza spontanea e alla fecondit? d'invenzione.

Eccettuata la satira, non un genere letterario apersero, e nessuno raggiunse i loro modelli. Ai quali taluno si attenne senza restrizione, come Livio, Virgilio, Orazio, mentre pi? nazionali si conservarono Ennio, Varrone, Lucrezio, poi Giovenale e Lucano, perci? pi? robusti ma meno colti. Povero fu il teatro, il quale non pu? reggersi che su tradizioni e sentimenti nazionali. La lirica massimamente ne risent?, poich? a quest'armonica espressione degl'intimi sentimenti nulla pi? nuoce che il trovare la reminiscenza ove si cercava l'ispirazione, ed esser frenati nella commozione dal pensare che il poeta non s'ispira ma ricorda.

Ma in tutti costoro quale squisita verit? di sentimento! qual perfetta aggiustatezza di pensiero! qual compiuta venust? di forme, e purezza ed eleganza e nobile armonia di stile, e variazioni di ritmo! Un alito di regola e di calma penetra ogni particolarit?, un ordine semplice ed austero d? a conoscere che l'autore ? padrone di s? e del suo soggetto. Tutti poi s'improntano d'un marchio, che li fa originali da ogni altro; ed ? l'idea di Roma, che in tutti predomina, e che supplisce al difetto di quel tipo particolare che distingue ciascuno dei grandi autori di Grecia. La quale differenza ? portata naturalmente dal diverso vivere d'un popolo eminentemente individuale e libero nell'esercitare come gli piace le forze del suo spirito, e d'un altro fra cui ad ogni altra idea predomina quella della patria grandezza.

A stampare questo carattere assai valse l'esser le romane lettere fiorite per opera de' principali cittadini, i quali abbracciando intera la vita nazionale, considerano ogni cosa nelle pi? ampie sue relazioni, a differenza di que' meri scrittori che rimpicciniscono la letteratura riducendola a semplice arte. E la letteratura latina, a tacere di noi pei quali ? un vanto patrio, merita maggiore studio che non la greca, perch?, provenendo da un grandissimo centro di civilt?, meglio rivela la condizione sociale del genere umano.

Ma quando una letteratura si regge sull'artifizio, prontamente decade. Augusto ben poco merito ebbe all'apparire dei genj, di cui esso fu il contemporaneo, non il creatore, e che, nati nella repubblica, aveano lasciato il campo senza successori prima ch'egli morisse. Gi? egli derideva lo stile pretensivo di qualcheduno e le parole antiquate di Tiberio; e alla nipote Agrippina diceva: -- Il pi? che cerco ? di parlare e scrivere naturalmente>>; ma le idee che contenevano, faceangli mal gradito lo studio degli antichi. Poi Mecenate suo dilettavasi di uno stile floscio e ricercato. Come avviene allorch? cessa la produzione, si sottigliava la critica: Asinio Pollione poeta e storico appuntava Sallustio di vecchiume, Livio di padovanit?, Cesare di negligenza e mala fede; singolarmente professava nimicizia per Cicerone; egli poi scriveva stecchito, oscuro, balzellante; ma era l'amico dell'imperatore, avea buona biblioteca, bella villa, esperto cuoco; sicch? dovea trovar non solo l'indulgenza che agli altri negava, ma anche lode, e ai suoi giudizj forza di oracolo.

Ritiratosi dalla vita pubblica, scriveva orazioni, somiglianti agli articoli di fondo de' nostri giornali, cio? di lettura amena, e che diffondessero certe idee di politica e di letteratura. Cos? svoltavansi gli spiriti dall'eloquenza pubblica verso quella di scuola. Di quella conservavano ancora qualche ombra Azzio Labieno libero parlatore <> ; e Cassio Severo amico suo e altrettanto franco dicitore, che satireggiava anche le persone cospicue, onde Augusto fe bruciare gli scritti di esso, ne' quali gli antichi ammiravano lo stile vigoroso, oltre la mordacit?; e fu lui veramente che schiuse la nuova via, alla quale l'eloquenza si trov? ridotta dopo respinta dalla tribuna. Perocch?, mutata la pubblica attivit? nella monarchica sonnolenza, cessato il giudizio tremendo e inappellabile delle assemblee, si sentenziava degli autori secondo l'aura delle consorterie e dei grandi che davano da pranzo ai letterati.

Quando Augusto mor?, pi? non sonava che la piangolosa voce d'Ovidio, cui l'infingarda abbondanza, lo sminuzzamento, i contorcimenti della lingua, i giocherelli di parole collocano lontano da Orazio, Virgilio e Tibullo, quanto Euripide da Sofocle e il Tasso dall'Ariosto. Cos? breve tempo era bastato perch? la letteratura romana passasse da Catullo non ancor dirozzato ad Ovidio gi? corrotto.

Tiberio.

Augusto non os? sistemare il governo monarchico mediante uno statuto, il quale ponendo limiti a' suoi successori, avrebbe fatto conoscere ai Romani ch'egli non ne aveva. In conseguenza non si ebbe n? elezione legale, n? ordine prefinito di successione, n? contrappesi politici: la repubblica assoluta mutavasi in assoluta monarchia, costituita unicamente sulla forza, dalla forza unicamente frenata; l'imperatore, rappresentante del popolo, poteva quel che volesse, e dell'onnipotenza valeasi a pareggiare tutti i sudditi nel diritto, e a togliere al popolo ed al senato e l'autorit? e l'apparenza.

Tanti anni d'assoluto dominio, mascherato con forme repubblicane, aveano indocilito i Romani al giogo, sicch? vedeasi senza repugnanza che l'impero passerebbe da Augusto in un altro. Tiberio, rampollo dell'illustre casa Claudia, illustre egli stesso per imprese guerresche, rivestito di molti onori e della tribunizia podest?, figliastro e genero d'Augusto, tenevasi sicuro d'esserne chiamato successore, quando lo vide voltar le sue grazie sopra gli orfani d'Agrippa. Tra per dispetto e per rimuovere ogni gelosia, s'allontan? da Roma, come dicemmo, e visse otto anni a Rodi, deposte armi, cavalli, toga: lontano dal mare, in una casa posta fra dirupi, dal tetto di quella faceva che gl'indovini investigassero negli astri l'avvenire; e se la risposta riuscivagli sospetta, nel ritorno il liberto scaraventava per le balze l'astrologo mal avvisato.

Morti i figli d'Agrippa , torna a Roma, ? adottato da Augusto, il quale pretendono sel destinasse successore acciocch? la propria moderazione traesse risalto dal lento strazio di costui, ch'e' conosceva pauroso, diffidente, irresoluto, simulato. Alla morte dunque del patrigno , Tiberio si trova padrone del mondo a cinquantasei anni. Non volendo accettar l'impero dagl'intrighi d'una donna e dall'imbecillit? d'un vecchio, modestamente convoca il senato, come tribuno ch'egli era; e la offertagli dominazione ricusa, come peso a cui poteva a pena bastare il divin genio d'Augusto; solo dalle lunghe istanze lascia indursi ad accettare, e purch? i senatori gli promettano assistenza in ogni passo. Di fatto li consultava continuo, ne incoraggiva l'opposizione, gli esortava a ripristinare la repubblica; cedeva la destra ai consoli, e sorgeva al loro comparire in senato o al teatro; assisteva ai processi, massime ove sperasse salvare il reo; non soffr? il titolo di signore, n? di padre della patria, n? tampoco quello di Dio, dicendo: -- Io sono signore de' miei schiavi, imperatore de' soldati, primo fra gli altri cittadini romani; mio uffizio ? curar l'ordine, la giustizia, la pubblica pace>>. Alleggeriva da' tributi i sudditi, e avvisava i governatori delle provincie che un buon pastore tosa non iscortica le pecore. Riform? i costumi, diminuendo le innumerevoli taverne, restituendo ai padri l'autorit? di punire le figliuole discole, bench? maritate; viet? il baciarsi per saluto in pubblico; ai senatori interdisse di comparire fra i pantomimi, e ai cavalieri di corteggiare pubblicamente le commedianti; e per raffaccio allo scialacquo de' banchetti, faceasi servire i rilievi del giorno antecedente, dicendo che la parte non ha men sapore che il tutto. Spargonsi satire contro di lui? -- In libero Stato, liberi devono essere i pensieri e la parola>>. Vuolsi in senato portar querela contro suoi diffamatori? -- Non ci basta ozio per tali bagattelle. Se aprite la porta ai delatori, non avrete ad occuparvi d'altro che delle costoro denunzie; e col pretesto di difendere me, ognuno vi recher? le proprie ingiurie da vendicare>>.

Ma per quanto dissimulatore e simulatore, non seppe mai comparire grazioso; le larghezze e l'affabilit? di Augusto disapprovava; non diede molti spettacoli al popolo, non donativi ai soldati; n? tampoco soddisfece ai legati del predecessore; e avendo uno de' legatarj detto per celia all'orecchio d'un morto, annunziasse ad Augusto che l'ultima sua volont? rimaneva inadempita, Tiberio gli pag? il lascito, poi di presente lo fece trucidare perch? riferisse ad Augusto notizie pi? fresche e pi? vere. Non soffr? si concedesse il littore o l'altare od altra prerogativa a sua madre, la quale da tanti intrighi e delitti non colse che l'amarezza d'aver posto in trono un ingrato. A Giulia, indegna sua moglie, da tre lustri relegata, sospese la modica pensione assegnatale dal padre, sicch? mor? di fame; di ferro Sempronio Gracco, drudo antico di lei.

Erano quasi le primizie d'una crudelt?, che ben tosto mostrossi calcolata, inesorabile; e prima contro i pretendenti. Agrippa, nipote d'Augusto, fu ucciso. Le legioni di Germania e di Pannonia avevano offerto l'impero a Germanico, ma questi ne chet? la violenta sedizione: pure Tiberio, che avea dovuto adottarlo, adombrato della popolarit? e del valore di lui, lo richiam? di mezzo ai trionfi per mandarlo a calmare l'insorto Oriente. Ivi gli pose a fianco Gneo Pisone, uomo tracotante e violento, il quale col profonder oro e calunnie ne attraversava tutte le azioni, infine lo fece morire di veleno o di crepacuore a trentaquattr'anni . Tutti, fin i nemici, piansero il generoso giovane, e in Roma il dolore si rivel? con clamorose dimostrazioni. Il giorno che le ceneri sue si riponevano nel sepolcro d'Augusto, la citt? pareva, ora per lo silenzio una spelonca, ora pel pianto un inferno; correvano per le vie; Campo Marzio ardeva di doppieri; quivi soldati in arme, magistrati senza insegne, popolo diviso per le sue trib? gridavano, esser la repubblica approfondata, arditi e scoperti, come dimenticassero ch'ei v'era padrone. Ma nulla punse Tiberio quanto l'ardor del popolo verso Agrippina moglie di Germanico: chi la diceva ornamento della patria, chi unica reliquia del sangue d'Augusto, specchio unico d'antichit?; e v?lto al cielo e agli Dei, pregava salvassero que' figliuoli, li lasciassero sopravivere agli iniqui.

Tiberio, assicurato, strapp? al despotismo la maschera lasciata da Augusto: tolse al popolo l'eleggere i magistrati e il sanzionar le leggi, trasferendo questi atti nel senato, sovvertimento radicale della costituzione romana, sebbene gi? prima i comizj fossero resi illusorj dacch? a spade non a voci si decideva. Il senato cos? divenne legislatore e giudice dei delitti di maest?: affine poi che neppur esso s'arrischiasse a libere sentenze, i senatori doveano votare ad alta voce, e presente l'imperatore o suoi fidati. Per tal passo quell'assemblea, augusta un tempo, allora si trov? avvilita a segno che Tiberio medesimo ne prendeva nausea: pure se ne giovava per gli atti legislativi, davanti ad essa proponendo o ventilando leggi, che nessuno osava contraddire.

L'imperatore non era il popolo? adunque la legge contro chi menomasse la maest? del popolo fu applicata all'imperatore, e gli offri modo legale a grandi atrocit? e a minute vessazioni. Prima l'applic? a cavalieri oscuri o ribaldi, pubblicani rapaci, governatori infedeli, adultere famigerate: e il popolo applause al severo mantenitore della legge. Ma appena trapel? l'inclinazione del principe, ecco una fungaja d'accusatori. I giovani educati a scuola nelle figure retoriche e in un mondo ideale, insoffrenti di passare alla realt? dell'avvocatura e alla prosa della vita, eppure avidi d'adoprare l'abilit? imparata per acquistarsi onori, fama, piaceri, levar rumore di s?, emulare il lusso dei grandi, correvano, all'usanza antica, ad accusare chi primeggiasse per gloria, virt?, ricchezze; sfogo delle invidie plebee contro l'aristocrazia di averi o di merito.

Le ire, sopravissute alla libert?, insegnavano mille tranelli; traevasi appicco dai dissidj delle famiglie; tenuissime prove bastavano dove cos? piaceva al padrone; e ogni fatto, per quanto semplice, traducevasi in caso di Stato. Tu ti spogliasti o vestisti al cospetto d'una statua d'Augusto; tu soddisfacesti a un bisogno del corpo od entrasti in postribolo con un anello o con una moneta portante l'effigie imperiale; tu in una tragedia sparlasti di Agamennone; tu hai venduto un giardino, nel quale sorgeva il simulacro dell'imperatore; tu interrogavi i Caldei se un giorno potrai divenir re, e tanto ricco da lastricare d'argento la via Appia: dunque sei reo di maest?; reo Aulo Cremuzio Cordo che, nella storia delle guerre civili di Roma, intitol? Bruto l'ultimo de' Romani. Cremuzio nel difendersi diceva: -- Sono talmente incolpevole di fatti, che m'accusano di parole>>, ed evit? la condanna col lasciarsi morir di fame: gli edili arsero i libri di lui, ma il divieto li fece pi? preziosi e cercati; ove Tacito esclama: -- Ben ? folle la tirannia nel credere che il suo potere d'un momento possa estinguere nell'avvenire il grido, la memoria. Punito l'ingegno, ne cresce l'autorit?; n? i re che lo punirono, riuscirono ad altro che a procacciar gloria alle vittime, infamia a s?>>.

Chi nomina libert?, medita rimettere la repubblica; chi piange Augusto, riprova Tiberio; che tace, macchina; chi mostrasi mesto, ? scontento; chi allegro, confida in prossimi mutamenti. Fra straniero o fratello, fra amico o sconosciuto non mettevasi divario nelle delazioni; anche i primi del senato le esercitavano o all'aperta o alla macchia; ben presto si accus? senza n? timore n? speranza, unicamente perch? era l'andazzo; furono processate persone, non si sapeva di che, condannate, non si sapeva perch?.

Appena uno fosse querelato, vedeasi cansato da amici e da parenti, timorosi d'andare involti nella sua ruina. Fuggire era impossibile in cos? vasto impero: la campagna ridondava di schiavi vendicativi: ognuno agognava di cogliere il proscritto per salvare se stesso. Tradotto a senatori complici o tremebondi, ostili fra di loro, a fronte di quattro o cinque accusatori addestrati nelle scuole a trovare e ribattere argomenti, ove nessuno ardiva assumere la difesa, ove la tortura degli schiavi suppliva al difetto di prove, il convenuto quale scampo poteva sperare? pensava dunque a vendicarsi coll'imputar di complicit? gli stessi accusatori o i giudici: scherma, di cui Tiberio prendeva mirabile sollazzo. Solo gli facea noja che alcuni si sottraessero al supplizio e quindi alla confisca coll'uccidersi; onde l'arte scherana consisteva nel sorprenderli improvvisi. Uno si trafigge colla spada, e i giudici s'avacciano di darlo al manigoldo: uno dinanzi ad essi sorbisce il veleno, e senz'altro vien tradotto alle forche: di Carnuzio che riusc? ad uccidersi, Tiberio disse, -- E' m'? scappato>>; a un altro che il supplicava d'accelerargli il supplizio, -- Non mi sono ancora abbastanza rappattumato con te>>.

Come doveano andar calpesti gli affetti che serenano la vita e alleggeriscono la sventura, allorch? in ciascuno si temeva un traditore! Deboli e paurosi perch? isolati, piegano alla prepotenza, o cospirano con essa; il senato, nel quale stavano accolti coloro che poteano far fronte a Tiberio, glieli consegnava un dopo l'altro, lieto ciascuno di veder salvo se stesso; e Tiberio viepi? sprezzava una gen?a cos? abjetta, e prorompeva senza ritegno al sangue. Il merito divien colpa a' suoi occhi: un architetto che raddrizza un portico minacciante ruina, ? bandito; uno che sa restaurare un vaso di vetro spezzato, ? subito messo a morte.

E perch? non gli manchino i piaceri della citt?, vi saranno accuse, torture, supplizj; vi saranno sofisti e grammatici, coi quali disputa del come si chiamasse Achille mentre stava da donna alla corte di Sciro, chi fosse la madre di Ecuba, che cosa di solito cantassero le Sirene, e regola ogni atto suo secondo gl'indicano gli astri, gli animali, interrogati da Trasillo rodiano. I senatori deputati a recargli o richiami od omaggi, dopo lungo aspettare son rinviati: fin le lettere non riceve che per mano del suo ministro Elio Sejano, prefetto de' pretoriani.

Costui, di mezzana condizione, di turpi costumi, di spirito e corpo vigoroso, erasi traforato nella grazia di Tiberio col rendergli rilevanti servizj e sleali. Ord? con esso di perdere Agrippina vedova di Germanico, la quale col costume severo e coll'amorosa venerazione verso l'estinto sposo dava ombra all'imperatore. I costei amici sono un dopo l'uno accusati e morti; ond'essa vien guardata con una specie d'orrore. Ucciderla per? non ardiva Tiberio: onde uscito di Roma, ronza nella parte pi? deliziosa d'Italia; poi restituitosi a Capri, scrive una lettera ambigua al senato, imputando colei d'orgoglio, i suoi figli d'impudicizia. Il senato vede la mina contro la casa di Germanico, ma ? rattenuto dal favore del popolo per questa. Quand'ecco da Capri giungono rimproveri perch? non s'abbia verun riguardo alla sicurezza dell'imperatore e dell'impero; e tosto Nerone ? esigliato, Druso messo prigione , n? tardarono a morire. Agrippina confinata nell'isola Pandataria, dissero si fece poco poi ammazzare; e Tiberio si lod? al senato di clemenza per non averla fatta esporre alle gemonie.

Snidatone Tiberio, Sejano govern? Roma a sua posta. Rese importante il comando de' pretoriani, ai quali, col raccorli in un campo solo sotto Roma, attribu? pericolosissima potenza. Disponendo a suo arbitrio delle cariche, poteva acquistarsi amici: colla promessa di sposarle, traeva principali donne ad ajutare il suo ingrandimento, e scoprire i segreti de' mariti: Tiberio stesso lo chiamava il consorte di sue fatiche, lasciava effigiarlo sulle bandiere, e bruciar vittime quotidiane sulle are di esso.

Non contento del dominio, Sejano vuole anche le apparenze; e poich? fra lui e l'impero si frapponea Druso figlio di Tiberio e di Vipsania, seduce la costui moglie Livilla e glielo fa avvelenare, poi chiede a Tiberio la mano di essa. Da quel punto diviene presuntivo erede; in conseguenza Tiberio lo teme, in conseguenza lo odia. Ma come abbatterlo se ha tutto l'impero in mano? Tiberio comincia ad elevargli a fronte Cajo Cesare Caligola, prediletto dal popolo e dai soldati perch? figlio di Germanico; poi manda secretamente al senato Macrone , colonnello dei pretoriani, con lettera nella quale sul principio getta qualche lamento contro di Sejano, poi parla d'altro; torna alle querele, indi divaga; si rif? sopra Sejano con parole sempre pi? acerbe; ordina sieno condannati a morte due senatori, intimi del ministro; e mentre questi stordito non osa proferir parola a loro scampo, ode chiudersi la lettera col comando ch'e' sia arrestato. Detto fatto, gli amici lo abbandonano; pretori e tribuni gli recidono la fuga; il popolo, partigiano d'Agrippina e vindice de' figli di Germanico, lo insulta allorch? il console lo mena al carcere; e mentre, se fosse riuscito, avrebbe avuto adorazioni, vede dappertutto abbattersi le sue statue, e il senato decretarlo al supplizio.

Tiberio, che peritavasi sull'esito di questo gravissimo colpo di Stato, non aveva ommesso veruna precauzione; teneva vascelli sull'?ncora per fuggire, spiava d'in vetta agli scogli i concertati segnali; tanto temeva che il gelo dell'egoismo non si squagliasse un istante. Ma al cessare della potenza era cessato il favore al dio, al futuro imperatore; i pretoriani, invece di difenderlo, si buttano a saccheggiar Roma; il popolo si svelenisce sul cadavere esecrato del nemico del popolo; quanti amici aveva egli avuto, sono perseguitati, vuotate dal boja le prigioni ov'erano accumulati i complici del ministro, messi a orribile carnificina i suoi figli; e perch? la legge vietava il supplizio delle vergini, una sua figliuolina fu data prima al carnefice da violare.

I sudditi, propensi sempre ad attribuire ai ministri le colpe de' regnanti, persuadevansi che Sejano fosse la sola causa dei delitti di Tiberio, e che, morto lui, il principe si mitigherebbe; al contrario, Tiberio diventa pi? sitibondo di sangue: ciascun senatore, per salvar s?, corre ad accusargli un complice del caduto; sicch? egli non discerne tra amici e nemici, tra fatti recenti e inveterati; sprezza e teme il senato, e ogni giorno un nuovo membro ne recide; teme i governatori, e a molti, dopo nominati, impedisce di recarsi alle provincie, rimaste cos? senz'amministrazione; teme le memorie, e molti fa uccidere perch? compassionevoli ; teme gli avvenire, e fanciulli di nove anni manda al supplizio. Le pi? assurde cagioni portano condanna: ad uno appose l'amicizia di un suo antenato con Pompeo; ad un altro, onori divini attribuiti dai Greci al bisavolo di lui: un nano che il divertiva a tavola gli domanda, -- Perch? vive ancora Paconio reo d'alto tradimento?>> e Paconio poco dipoi ? morto. La storia di quegli anni pu? dirsi il registro mortuario delle famiglie illustri, e notavasi come cosa rara il personaggio che morisse a suo letto: una volta Tiberio mand? scannare tutti gl'imprigionati per l'affare di Sejano, senza divario d'et?, sesso o condizione; i mutili loro corpi giacquero pi? giorni per le vie sotto la custodia dei carnefici che denunziavano chi si dolesse.

Or tremendamente sardonico, or tremendamente serio, voleva essere adulato, eppure sprezzava gli adulatori; sicch? diventava pericolo fin la vigliaccheria. Voconio propose che venti senatori per turno gli facessero la guardia qualvolta entrasse in senato; e tocc? le beffe dell'imperatore, troppo alieno dal concedere armi ai senatori, i quali anzi volea fossero frugati all'entrare. Al suo ventesimo anno i consoli decretano solennit?, ringraziamenti, voti: Tiberio dice che con ci? vogliono far intendere che gli prorogano per un altro decennio la sovranit?, e li fa mettere a morte.

Un animo sospettoso e severo pu? d'assai peggiorare invecchiando fra l'aspetto della universale vigliaccheria e delle reciproche malevolenze, e fra le sordide adulazioni che mascherano il rancore e la trama. Pure, tanta frenesia di crudelt?, sottentrata alla severa ma giusta onest? de' primi anni di Tiberio, tiene perplesso lo storico, il quale abbia deplorato, anche ai proprj giorni, quella menzogna che svisa i fatti meglio conosciuti, e quella credulit? che accetta i meno fondati.

Almeno per consolazione dell'umanit? sappiasi che costui aveva la coscienza de' proprj misfatti e dell'orrore che ispirava, onde scriveva al senato: -- S'io so che cosa dirvi, gli Dei e le Dee mi facciano perire ancor pi? crudelmente di quel che mi senta perire ogni giorno>>. Ma non che ridursi al meglio, ripeteva: -- M'aborrano, purch? m'obbediscano>>, e precipitava in eccessi, che non solo scrivere, ma n? possono tampoco immaginarsi.

Qualora per? trovasse resistenza, piegava. Marco Terenzio, accusato della benevolenza di Sejano, disse in senato: -- Dell'amicizia con esso ci assolver? la ragione che assolve Cesare d'averlo avuto genero e confidente>>; e Cesare lo mand? giustificato. Getulio generale, imputato di aver voluto dare nuora sua figlia a Sejano, risponde a Tiberio: -- M'ingannai io, ma anche tu. Io ti sar? fedele, se non m'offendono; se ricevessi lo scambio, mi crederei minacciato di morte, e saprei ripararla. Accordiamoci: tu resta padrone di tutto; a me lascia la mia provincia>>. Cos? poteva scrivere un generale a quello che faceva tremar Roma e il mondo.

Imperocch? non era egli robusto per amministrazione salda e compatta, ma per la disunione degli altri; potentissimo dove arrivavano i suoi carnefici, poco valea di lontano; chiunque fosse insorto intrepidamente fra lo sgomento universale, era certo d'abbatterlo. Lo sentiva Tiberio, e di qui la diffidenza, motrice sua prima. Mentre gira per Italia, ode che alcuni da lui accusati furono rimandati dal senato senza tampoco interrogarli, crede compromessa l'autorit? sua e la vita, vuol ritornare a Capri, ma tra via muore . Roma sulle prime la dubit? arte di spie; accertata, esult?, quasi il cadere di lui restituisse la libert?. Eppure egli tiranneggiava anche postumo, e trovandosi in Roma de' prigionieri, che, secondo un consulto del senato, non si potevano strozzare che dieci giorni dopo la condanna, n? essendovi ancora il successore che li potesse assolvere, i manigoldi li strangolarono per seguire la legalit?.

Tiberio fin? di demolire le barriere al despotismo; indocil? senato e popolo agli assurdi talenti del dominatore; spense i sentimenti che formano la dignit? dell'uomo e del cittadino; pervert? la coscienza pubblica, che, dopo caduto ogni altro sostegno, mantiene e reintegra gli Stati; coll'uccidere i migliori, col contaminare i rimasti, col mostrare che il senato e il popolo potevano spingere la vilt? e la paura fino ad adorare chi dispensava l'oltraggio e la morte, attest? che nessuna forza morale esisteva pi?, che tutto poteva la materiale.

Un imperatore pazzo, uno imbecille, uno artista.

La desolazione che il popolo e l'esercito aveano provata alla morte di Germanico, s'era risolta in fervoroso amore pel fanciullo di lui Cajo Cesare: i soldati ne folleggiavano, tenevanlo a giocare tra loro, e dalle scarpe militari con cui lo calzavano gl'imposero il soprannome di Caligola. Tale affetto sarebbe bastato perch? Tiberio volesse mal di morte al nipote; ma il garzoncello, non che lamentarsi della condanna di sua madre e dell'esiglio de' fratelli, evit? le insidie e attut? la gelosia dello zio con s? profonda dissimulazione, che l'oratore Passieno ebbe a dire, non esservi mai stato migliore schiavo n? peggior padrone di costui. Per via poi della moglie di Macrone, abbandonatagli da questo per le lontane speranze, Caligola rientr? nella grazia di Tiberio, che in testamento il domand? erede dell'impero.

All'accortissimo costui sguardo non era sfuggito che Caligola avrebbe tutti i vizj di Silla e nessuna delle sue virt?; e disse: -- Quest'? un serpente che nutro pel genere umano>>; poi vedendolo un giorno rissare con Tiberio, figlio di suo figlio Druso, non senza lacrime esclam?: -- Tu lo ucciderai, ma un altro uccider? te>>; indovinamenti tratti non da contemplazione di stelle, ma da conoscenza degli uomini e dei tempi.

Il giovane imperatore accorso a Roma, ? ricevuto dal popolo, che lo acclama suo bambolo, alunno suo, suo pulcino, sua stella; e dal senato, che ripiglia la sua potenza col cassare il testamento del defunto che aveagli associato il giovane Tiberio. Egli recita l'elogio del predecessore con parole poche e assai lacrime; deroga le azioni di lesa maest?, brucia i processi iniziati, permette i libri proibiti da Tiberio; denunziatagli una congiura, non vi d? retta, dicendo -- Nulla feci da rendermi odioso>>; mostra voler restituire al popolo le elezioni, appena nel creda capace; vuol pubblicati i conti dello Stato; cresce il numero de' cavalieri, scegliendoli accuratamente; va a raccorre le ceneri della madre Agrippina e dei fratelli per riporle nel mausoleo d'Augusto, talch? si concilia tutti i cuori: e in feste universali, inni, tripudj, sacrifizj, vacanza da affari, si gode una di quelle illusioni, a cui Roma e in antico e in moderno sempre eccessivamente si abbandon?, per lagnarsi poi al domani che sia svanito il castello da essa medesima fabbricato colla nebbia.

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