Read Ebook: La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia Volume I by Burckhardt Jacob Valbusa Diego Translator
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Translator: Diego Valbusa
LA CIVILT? DEL SECOLO DEL RINASCIMENTO IN ITALIA
SAGGIO DI JACOPO BURCKHARDT
TRADOTTO SULLA SECONDA EDIZIONE TEDESCA DAL PROFESSORE D. VALBUSA con aggiunte e correzioni inedite fornite dall'Autore
VOLUME I
IN FIRENZE G. C. SANSONI, EDITORE 1876
In Firenze -- Tip. e Lit. Carnesecchi, Piazza d'Arno.
PREFAZIONE
Se nella storia del movimento intellettuale dell'Europa moderna v'? un'epoca, che a buon diritto reclami tutta l'attenzione dello storico e del filosofo, ella ? certamente quella, di cui, sotto forma italiana, si presenta ora al pubblico una splendida e dotta illustrazione nell'opera del signor Burckhardt. ? cosa omai consentita da tutti che il pensiero moderno, cui l'Europa va debitrice dell'attuale sua grandezza e potenza, non ? che la maturazione di un pensiero che nacque presso di noi negli anni del Rinascimento, quando l'Italia, prima di scadere dal rango delle nazioni, dischiuse ancora una volta le fonti della civilt? e del sapere a tutto il mondo occidentale. Il Rinascimento inaugur? quella battaglia fra due opposti principj, fra la libert? e il despotismo, fra la ragione e il pregiudizio, che non ? peranco finita e che forse non finir? cos? presto. Le citt? libere del medio-evo sono certamente degne di ammirazione e di lode; ma esse non fecero che i primi tentativi per giungere a quel fine, cui il Rinascimento ebbe la mira colla piena coscienza di ci? che chiedeva. Esse domandavano delle libert? e mossero guerra ad alcuni privilegi: gli uomini del Rinascimento vollero la libert? e si ribellarono contro ogni privilegio. La lotta, limitata sino a quest'epoca a singole corporazioni, divenne tutto ad un tratto generale, e dai diritti tradizionali si volse ai diritti originarj e universali dell'umanit?. Non fu una semplice cultura quella che si ridest?, ma un mondo intero, la societ? tutta, che, anelando a rigenerarsi, agli ordini esistenti sostitu? ordini nuovi, alla divisione per ischiatte contrappose il libero ed audace arbitrio dell'individuo, alla consuetudine che soggioga fe' subentrare la ragione che impera. Non a torto adunque fu detto che la storia del Rinascimento ? il proemio di ogni rivoluzione moderna s? nel campo dell'azione, che in quello del pensiero, od anche, se si vuole, il primo atto di quel gran dramma, che si svolse successivamente nella Riforma tedesca, e nella Rivoluzione francese, e che partor? da ultimo la civilt? attuale.
Questa usc? dal concorso maraviglioso delle stirpi latine da un lato e delle germaniche dall'altro: le une vi contribuirono colla restaurazione del paganesimo classico, le altre col ritorno al Cristianesimo secondo i principj evangelici. Ridestando a nuova vita le scadute divinit?, i sapienti e i poeti dell'antica Grecia e di Roma, i Latini rischiararono colla face dell'antico sapere le fitte tenebre, nel bujo delle quali aveano prevalso la scolastica, i delirj fantastici e la superstizione; abbellirono la vita col fascino irresistibile delle forme, e al tempo stesso ruppero le barriere dell'antico mondo, navigando arditi oltre le colonne d'Ercole, trovando una nuova via alle Indie e scoprendo un mondo intero al di l? dell'Atlantico. I Germani, accettando dall'Italia i tesori dell'antica cultura, come gi? una volta il Cristianesimo, non solo se ne impadronirono con quella profondit? e pienezza, che lasciavano fin d'allora presentire la loro futura superiorit? nel campo della speculazione, ma trovarono essi stessi l'arte della stampa, che diede al pensiero ali per distendersi e per durare eternamente, e rovesciarono o riformarono col loro spirito filosofico due sistemi gi? vecchi, il tolomaico del mondo astronomico, e il gregoriano del despotismo papale. Al tempo stesso la caduta allora verificatasi del vecchio e crollante Impero d'oriente per opera dei Turchi, che minacciavano l'Europa di una nuova invasione asiatica, concorse mirabilmente a dare un indirizzo nuovo alla politica di tutti gli Stati. Di fronte all'impotenza dei Papi, che invano credettero di poter scongiurare il pericolo evocando le vecchie Crociate, pi? vivo si fece sentire in tutti il bisogno di unirsi in pi? stretti rapporti al di dentro e al di fuori, e al principio teocratico fu sostituita la politica degli Stati autonomi, creando unit? nazionali o monarchie ereditarie e ponendo in luogo dei Concilj i congressi e l'equilibrio politico invece dell'autorit? internazionale degli Imperatori e dei Papi.
Fu scritto che tra quest'opera ed una storia propriamente detta corra quella medesima differenza, che si riscontra tra un quadro di figura ed un paesaggio, dove ci? che si guadagna rispetto allo splendor della scena, si perde poi rispetto agli eroi che vi agiscono e al movimento drammatico. La sentenza pu? accogliersi come giusta, se con essa s'intese soltanto di mettere in pi? viva luce la lodevole sobriet? dell'Autore, che in tanta ricchezza di materiali non ha voluto giovarsi se non di quelli, che pi? strettamente facevano al suo scopo, per non recare soverchio ingombro turbare l'armonia dell'insieme. Egli ? un fatto che nel leggere il libro del signor Burckhardt ci par quasi di essere trasportati nel bel mezzo di una selva incantata, dove a nostro agio possiamo abbracciar con lo sguardo l'infinito serpeggiar de' viali, le vedute, i prospetti, e dove qua e l? fra i boschetti vediamo, ad un suo cenno, spuntare ora la testa, ora il braccio marmoreo di una statua, or, mezzo nascoste tra il verde, le magnifiche forme di un gruppo, senza che per questo ne sia dato di maggiormente avvicinarci, o che i nostri sforzi per afferrarne pi? intrinsecamente le parti, restino compiutamente appagati. Ma l'apparente manchevolezza nei particolari, voluta dall'indole stessa sintetica del lavoro, non ? difetto, e infondata affatto sarebbe l'accusa, se nella brevit? impostasi dall'Autore altri volesse scorgere una lacuna effettiva, che, ove realmente esistesse, nessun titolo, per quanto modesto, avrebbe potuto giustificare. Altra cosa ? il lavorar sulle fonti che si conoscono, lo studiarle e il confrontarle fra loro per accertar fatti, precisar date e arricchire di nuovo materiale utile la grande suppellettile storica; altro il mirare ad abbracciar in un tutto e a mettere in pi? vera e piena luce i risultati acquistati alla spicciolata e ridurli in armonia con disegno artistico, per renderli pi? accetti all'universale e per distribuire i frutti del sapere anche a coloro, cui manca l'agio o la volont? di attingere alle fonti originali. Evidentemente il signor Burckhardt si attenne di preferenza al secondo di questi due metodi, come quello che meglio anche rispondeva al suo scopo, di darci un'idea chiara e compiuta del tempo preso a trattare, anzich? di rettificare o correggere questo o quel fatto particolare. L'opera sua non va dunque giudicata come una semplice opera di erudizione, bench? questa non vi faccia difetto in nessun punto dove ? domandata, ma bens? come una di quelle che, mantenendosi in una sfera pi? elevata, mirano innanzi tutto a tener desto lo spirito della scienza e rammentano agli scopritori ed investigatori solitari, che l'indagine per s? sola non basta. Come tale essa porta realmente la vita, il movimento, il colore in un cumulo di materiali che, senza una parola vivificante, avrebbero chi sa per quanto ancora, continuato a rimaner lettera morta, e risponde pienamente alle esigenze della critica pi? severa, perch? nel fatto d? pi? di quanto in sul principio non sembri promettere, e perch? riempie al tempo stesso, e nel miglior modo che mai si potesse desiderare, una lacuna, che era pur sempre rimasta aperta rispetto ad uno dei periodi pi? luminosi della nostra storia.
Assumendo l'incarico di rendere accessibile all'universale dei nostri compatriotti un libro scritto con tanta seriet? di propositi e con s? piena coscienza della dignit? e dell'alta missione della storia, noi ci lusinghiamo di aver fatta opera, che non debba parere n? superflua ai bisogni del nostro paese, n? discara a quanti amano fra noi l'incremento de' buoni studi. Altri giudicher? come abbiamo soddisfatto agli obblighi nostri di fronte al Pubblico ed all'Autore. A noi non resta che d'invocare l'indulgenza di entrambi e di porgere a quest'ultimo il tributo della nostra pi? viva riconoscenza per la squisita cortesia, colla quale, autorizzando la nostra traduzione, volle arricchirla di numerose aggiunte e correzioni inedite, che danno un pregio tutto affatto speciale alla presente edizione e la pongono, per questo riguardo, al di sopra delle stesse edizioni finora comparse del testo tedesco.
Mantova, 1? Dicembre 1875.
IL TRADUTTORE.
LUIGI PICCHIONI
VENERATO MAESTRO COLLEGA ED AMICO
L'AUTORE
PARTE PRIMA
LO STATO COME OPERA D'ARTE
Introduzione.
Accanto all'imperatore, che mirava a centralizzare ogni cosa, sorge un usurpatore di un genere tutto affatto particolare, Ezzelino da Romano, vicario e genero di lui. Egli non rappresenta propriamente nessun sistema di governo o di amministrazione, poich? tutta la sua attivit? fu sprecata in guerre continue per l'assoggettamento delle Provincie orientali dell'Italia superiore; ma, come tipo politico pei tempi posteriori, non ? meno importante del suo imperiale protettore. Sino a questo tempo ogni conquista ed usurpazione del Medio-Evo erasi effettuata in vista di veri o pretesi diritti di eredit? ed altro, o a danno degl'infedeli e degli scomunicati. Ora per la prima volta si tenta la fondazione di un trono sulla strage delle moltitudini e su altre infinite crudelt?, che ? come dire, impiegando ogni sorta di mezzi, pur di riuscire allo scopo. Nessuno dei tiranni posteriori, non lo stesso Cesare Borgia, ha uguagliato Ezzelino nella immanit? dei delitti; ma l'esempio era dato, e la caduta di Ezzelino non ricondusse la giustizia fra i popoli, n? fu di alcun freno agli usurpatori venuti dopo.
Subito dopo la caduta di entrambi pullulano numerosi, principalmente dalle lotte partigiane dei Guelfi e dei Ghibellini, i singoli tiranni, in generale quali capi dei Ghibellini, ma in occasioni e condizioni cos? diverse, che ? impossibile non riconoscere in questo fatto una legge di suprema ed universale necessit?. Quanto ai mezzi, di cui si servono, essi non hanno bisogno che di continuare sulla via adottata gi? dai partiti: l'espulsione o la distruzione degli avversari e delle loro case.
Finanze e loro rapporti colla civilt?. -- L'ideale di un principe assoluto. -- Pericoli interni ed esterni. -- Giudizio dei Fiorentini sui tiranni. -- I Visconti sino al penultimo.
Il calcolo freddo ed esatto di tutti i mezzi, di cui in allora nessun principe fuori d'Italia aveva nemmeno un'idea, congiunto con una potenza quasi assoluta dentro i limiti dello Stato, fece sorgere qui uomini e forme politiche affatto speciali. Il segreto principale del regnare stava, pei tiranni pi? accorti, nel lasciare possibilmente le imposte quali ognuno di essi le aveva trovate o fissate al principio della sua signor?a. Tali erano: un'imposta fondiaria basata sopra un catasto; determinati dazi di consumo, e gabelle pure determinate sopra l'importazione e l'esportazione: vi si aggiungevano poi le rendite dei dominii privati della casa regnante. Esse non oltrepassavano mai un certo limite, tranne il caso di un notevole aumento nella pubblica prosperit? e nel commercio. Di prestiti, quali si vedevano effettuarsi nelle comunit? repubblicane, qui non si parlava neppure; e pi? volentieri si ricorreva a qualche ardito colpo di mano, quando si poteva prevedere che non avrebbe prodotto veruna scossa, come, per esempio, la destituzione e la spogliazione, all'uso affatto orientale, dei supremi magistrati della finanza.
Tutti questi fatti eccitano assai per tempo il pi? profondo disprezzo negli scrittori fiorentini d'allora. Gi? il fasto stesso ed il lusso, col quale i principi cercavano forse non tanto di soddisfare alla propria vanit?, quanto d'impressionare la fantasia del popolo, ? fatto segno ai loro pi? amari sarcasmi. Guai se un signore sorto di fresco capita loro tra mano, come fu il caso appunto dell'intruso Doge Agnello da Pisa , che usava uscire a cavallo con uno scettro d'oro in mano e, tornato a casa, mostravasi dalla finestra appoggiato a guanciali e a drappi pure tessuti in oro <>, facendosi servire in ginocchio, quasi fosse un Papa od un Imperatore. Ma pi? spesso ancora questi vecchi fiorentini assumono un tuono grave e serio. Dante intende e caratterizza egregiamente il lato ignobile e volgare della cupidigia e dell'ambizione dei nuovi principi. <
Lo spavento e la miseria di tali condizioni assumevano agli occhi dei contemporanei un aspetto ancor pi? speciale per le superstizioni astrologiche e per l'empiet? di taluni fra quei tiranni. Quando l'ultimo dei Carrara non fu pi? in grado di agguerrire le mura e le porte di Padova spopolata dalla pestilenza e assediata dai Veneziani , gli uomini della sua guardia lo udirono spesso nel silenzio della notte invocare il demonio, <
Ed in tempi come questi Cola di Rienzo s'immaginava di poter fondare sull'entusiasmo cadente della borghesia gi? corrotta di Roma un nuovo Stato, che comprendesse tutta l'Italia! In verit? che, accanto a tali principi, egli ha l'aria piuttosto di un povero illuso o di un folle.
Interventi e viaggi degl'imperatori. -- Loro pretensioni messe in disparte. -- Mancanza di uno stabile diritto ereditario. Successioni illegittime. -- I condottieri quali fondatori di stati. -- Loro rapporti coi propri signori. -- La famiglia Sforza. -- Progetti del giovane Piccinino e sua caduta. -- Posteriori tentativi dei condottieri.
Il suo esempio sedusse. Enea Silvio intorno a questo tempo scriveva: <
Le Tirannidi minori.
I Baglioni di Perugia. -- Loro interne discordie e le nozze di sangue dell'anno 1500. -- Fine di questa famiglia. -- Le case dei Malatesta, dei Pico e dei Petrucci.
Era quello il tempo, in cui Raffaello, fanciullo allor dodicenne, studiava alla scuola di Pietro Perugino. Forse le impressioni di quei giorni sono riprodotte e fatte eterne nelle sue prime figure in piccolo di S. Giorgio e di S. Michele: forse sopravvive ancora, per non morire mai pi?, una reminiscenza di esse nella figura dello stesso S. Michele fatta in grande posteriormente; e se Astorre Baglione ha per avventura avuto in qualche cosa la sua apoteosi, non potrebbesi cercarla altrove, fuorch? nella figura del celeste guerriero nel gran quadro di Eliodoro.
Gli avversari parte erano periti, parte per paura si erano allontanati, n? in seguito ebbero pi? la forza di tentar nuovi attacchi. Dopo qualche tempo segu? una parziale riconciliazione e ad alcuni fu concesso il ritorno. Ma Perugia non ridivenne per questo n? pi? tranquilla n? pi? sicura: le discordie interne della famiglia dominante proruppero allora in fatti ancor pi? spaventevoli. Contro Guido, Rodolfo ed i loro figli Giampaolo, Simonetto, Astorre, Gismondo, Gentile, Marcantonio ed altri sorsero uniti due pronipoti, Grifone e Carlo Barciglia: quest'ultimo era al tempo stesso nipote del principe Varano di Camerino e cognato di uno degli anteriori banditi, Geronimo dalla Penna. Indarno Simonetto, che aveva sinistri presentimenti, scongiur? suo zio a permettergli di uccidere questo Penna: Guido glielo proib?. La cospirazione matur? improvvisamente nell'occasione delle nozze di Astorre con Lavinia Colonna, a mezzo l'estate dell'anno 1500. La festa cominci? e dur? alcuni giorni tra sinistri indizi, il cui aumentarsi ci vien descritto egregiamente dal Matarazzo. Il Varano, che era presente, li ingann? tutti: a Grifone con arte diabolica fe' balenare agli occhi la possibilit? di regnar solo e lasci? credere vera una supposta tresca di sua moglie con Giampaolo, e quando tutto fu ordito, ad ognuno dei congiurati fu assegnata una vittima da scannare. . Dei bravi, che erano presenti, ognuno ebbe quindici uomini a' suoi ordini: gli altri furono posti in vedetta. Nella notte del 15 luglio le porte furono forzate e compiuti gli assassinii di Guido, di Astorre, di Simonetto e di Gismondo: gli altri poterono fuggire.
Mentre il cadavere di Astorre giaceva, con quello di Simonetto, sulla pubblica via, gli spettatori <
Il Duomo, che avea visto la maggior parte di queste tragedie nelle sue vicinanze, fu lavato con vino e consacrato di nuovo. Ma rimase pur sempre in piedi l'arco trionfale eretto per le nozze con suvvi dipinte le gesta di Astorre e colle poesie laudative di colui, che ci narr? tutti questi avvenimenti, il buon Matarazzo.
In onta a tutto questo, e' pare che essi di quando in quando abbiano avuto anche de' buoni intendimenti, come ? certo che misero un po' d'ordine nel loro partito e che protessero i pubblici ufficiali dagli arbitrii della nobilt?. Sennonch? la maledizione pareva inseguirli, e scoppi? di nuovo pi? tardi contro di essi, a guisa d'incendio solo apparentemente domato. Giampaolo fu con lusinghe attirato a Roma nel 1520 sotto Leone X e quivi decapitato: uno de' suoi figli, Orazio, che tenne Perugia solo per qualche tempo e in circostanze burrascosissime, specialmente perch? parteggiava pel duca di Urbino ugualmente minacciato dal Papa, inferoc? ancora una volta in modo atrocissimo contro la propria famiglia, assassinando uno zio e tre cugini, tanto che il duca stesso gli fe' dire che era tempo di farla finita. Suo fratello, Malatesta Baglione, ? il duce de' fiorentini, che nel 1530 si rese tristamente immortale col suo tradimento, e il figlio di questo, Ridolfo, ? quell'ultimo della famiglia, che coll'uccisione del Legato papale e dei pubblici ufficiali consegu? nel 1534 una breve, ma spaventevole signoria.
Coi tiranni di Rimini avremo occasione d'incontrarci ancora qua e col?. -- Audacia, empiet?, talento guerresco e cultura assai raffinata raramente si riunirono in un uomo solo, come in Sigismondo Malatesta . Ma dove i misfatti sovrabbondano, come in questa casa, quivi finiscono anche col preponderare sopra qualsiasi altra qualit? e col trascinare il tiranno nell'abisso. Il gi? menzionato Pandolfo, nipote di Sigismondo, non giunse a sostenersi se non perch? i Veneziani non volevano, ad onta di qualsiasi delitto, veder la caduta di nessuno dei loro condottieri; e quando i suoi sudditi, per motivi ragionevolissimi, lo bombardarono nella sua cittadella di Rimini , e poi lo lasciarono fuggire, un commissario veneziano lo ripose nella signoria, bench? macchiato di fratricidio e di ogni sorta di scelleratezze. In capo a tre decenni per? i Malatesta trovaronsi ridotti alla condizione di poveri banditi. L'epoca del 1527 fu, come quella di Cesare Borgia, veramente fatale a queste piccole tirannidi, delle quali ben poche sopravvissero, ed anche queste con assai scarsa fortuna. -- Alla Mirandola, dove regnavano i piccoli principi della famiglia Pico, dimorava nell'anno 1533 un povero letterato, Lilio Gregorio Giraldi, che si era quivi rifugiato dal sacco di Roma al tetto ospitale del canuto Giovan Francesco Pico . I dialoghi che egli ebbe col principe intorno al monumento sepolcrale, che questi voleva preparare a s? stesso, diedero origine ad uno scritto, che nella dedica porta la data dell'aprile di quello stesso anno. Ma quanto ? triste il poscritto! <
Una pseudo-tirannide affatto priva di carattere proprio, come fu quella, che Pandolfo Petrucci esercit? dal 1490 in poi nella citt? di Siena, lacerata allora dalle frazioni, ? appena degna di essere ricordata. Incapace e crudele, egli regn? coll'aiuto di un professore di diritto e di un astrologo, e sparse qua e l? qualche terrore con atti di violenza e di sangue. Suo passatempo prediletto in estate era di rotolar massi di pietra dal monte Amiata, senza pensare dove e su chi cadessero. A lui riusc? quello, a cui non avean potuto giungere nemmeno i pi? astuti, di sottrarsi cio? alle insidie di Cesare Borgia: tuttavia mor? pi? tardi abbandonato e dispregiato da tutti. I suoi figli per? si sostennero ancor lungamente in una specie di mezza signoria.
Le maggiori case principesche.
Gli Aragonesi di Napoli. -- L'ultimo Visconti di Milano. -- Francesco Sforza e la sua fortuna. -- Galeazzo Maria e Lodovico il Moro. -- I Gonzaga di Mantova. -- Federigo da Montefeltro, duca di Urbino. -- Ultimo splendore della corte urbinate. -- Gli Estensi a Ferrara; tragedie domestiche e fiscalit?. -- Traffico dei pubblici uffici, polizia e lavori pubblici. -- Merito personale. -- Fedelt? della capitale. -- Il direttore di polizia Zampante. -- Partecipazione dei sudditi al lutto di corte. -- Pompa della corte. -- Protezione accordata alle lettere.
Il di lui genero e successore, il fortunato Francesco Sforza , era forse, fra gl'italiani d'allora, l'uomo pi? di qualunque altro fatto secondo l'indole del suo tempo. In nessun altro, quanto in lui, si parve la vittoria del genio e della forza individuale, e chi non voleva credere alla superiorit? de' suoi talenti, doveva almeno riconoscere in lui il prediletto della fortuna. I milanesi andavano orgogliosi di avere ora un signore di tanta fama; ed infatti nella circostanza del suo ingresso nella citt? la folla del popolo acclamante gli si fece talmente d'attorno, che lo port? a cavallo sin dentro al Duomo, senza che egli potesse smontare. Udiamo ora che cosa scrive di lui il papa Pio II colla sua solita perspicacia: <
Dei figli del Moro, che dopo la sua caduta furono malamente allevati da gente straniera, il maggiore, Massimiliano, non ha pi? alcuna rassomiglianza col padre; ma il minore, Francesco, non era almeno inaccessibile a qualche tratto di nobile entusiasmo. Milano, che in questi tempi mut? tanti padroni e con tanto suo danno, cerc? almeno di guarentirsi dalle reazioni, e indusse i Francesi, che nel 1512 si ritiravano dinanzi alle armi della Lega Santa e a quelle di Massimiliano, a rilasciarle una dichiarazione, nella quale era detto che i Milanesi non ebbero veruna parte nella loro espulsione e potevano quindi, senza farsi rei di fellon?a, darsi in mano ad un nuovo conquistatore. Anche sotto il rapporto politico ? da notare che l'infelice citt? in simili momenti di transizione era solita, al pari di Napoli al momento della fuga degli Aragonesi, di sottostare ad un formale saccheggio esercitatovi da bande di malfattori .
Ora l'orgoglio del duca era questo che in tutta Italia si sapesse, che in Ferrara i soldati ricevevano esattamente il loro soldo e i professori dell'Universit? il loro stipendio nel giorno della scadenza, che le truppe non potevano in nessun caso mai aggravar la mano arbitrariamente sulle popolazioni della citt? e della campagna, che Ferrara era imprendibile e che nel castello vi era un ingente tesoro in danaro sonante. Di una separazione delle casse non si parlava nemmeno: il ministro di finanza era al tempo stesso ministro della casa ducale. Le costruzioni di Borso , di Ercole I , e di Alfonso I furono assai numerose, ma per lo pi? di poco rilievo: e in ci? si riconosce una casa principesca, che, in onta al suo amore per le pompe -- , -- non vuol per? mai lasciarsi andare a veruna spesa inconsiderata. Si direbbe anzi che Alfonso presentisse gi? anticipatamente la triste sorte, a cui sarebbero soggiaciute le sue graziose, ma piccole ville, tanto quella di Belvedere co' suoi ombrosi giardini, quanto quella di Montana co' suoi begli affreschi e le sue fontane zampillanti.
Egli ? innegabile che la stessa loro posizione perpetuamente minacciata suscit? in questi principi una grande abilit? personale: in una esistenza cotanto artificiale non poteva moversi con buon successo che un uomo di genio, che dovea provare col fatto di esser degno della signoria che teneva. I caratteri di ciascuno hanno in generale dei lati deboli assai pronunciati, ma pure in tutti vi era qualche cosa di ci? che allora costituiva il tipo ideale di un principe, quale se l'erano formato gl'Italiani. Qual regnante d'Europa, per esempio, pu? citarsi, che in quel tempo abbia fatto di pi? di Alfonso I per darsi una vera e soda cultura? Il suo viaggio in Francia, in Inghilterra e nei Paesi Bassi fu un vero viaggio di erudito, e gli procacci? effettivamente una conoscenza molto profonda del commercio e dell'industria di quei paesi. Ella ? cosa veramente stolta il rimproverargli, come altri fa, i lavori da tornitore, ai quali si dedicava nelle sue ore d'ozio, quando si sa che a questi andava congiunta un'abilit? veramente magistrale nella fonderia dei cannoni e una liberalit? superiore ad ogni pregiudizio nel saper attirare intorno a s? i maestri in ogni genere d'industria. -- I principi d'Italia non si limitano, come i loro contemporanei del nord, a trattare esclusivamente con una nobilt?, la quale si crede l'unica classe degna di considerazione a questo mondo e trascina anche il principe in questo errore: in Italia il regnante pu? e deve conoscere ognuno, ed anche la nobilt?, sebbene ristretta in una data cerchia pel privilegio della nascita, nei rapporti sociali ha bisogno di un valore affatto personale e non di casta, come pi? innanzi avremo occasione di dimostrare.
Gli avversari della tirannide.
Gli ultimi Guelfi e Ghibellini. -- I cospiratori. -- Gli assassini nelle Chiese. -- Influenza del tirannicidio antico. -- I Catilinari. -- Opinioni dei Fiorentini sul tirannicidio. -- Il popolo ne' suoi rapporti coi cospiratori.
Di fronte a questa concentrata potenza principesca ogni opposizione dentro i limiti dello Stato era impossibile. Gli elementi necessari alla esistenza di una repubblica erano sciupati per sempre, tutto tendeva al potere assoluto e all'uso della violenza. La nobilt?, priva di diritti politici, anche dove aveva possessi feudali, poteva bens? continuare a ripartir s? e i suoi bravi in guelfi e ghibellini e ad assumere o far assumere i relativi emblemi, facendo portare in questo o in quel modo la piuma al berretto e i guancialini ai calzoni; -- ma tutti gli uomini pi? illuminati, quale ad esempio il Machiavelli, erano pienamente convinti che tanto a Milano, come a Napoli vi era omai <
Ma torniamo ai principi del Rinascimento. Un'anima pia e timorata avrebbe fors'anche allora concluso che, ogni potenza essendo da Dio, anche questi principi, purch? sostenuti con sincerit? e buon volere, col tempo avrebbero dovuto divenire migliori e dimenticar la violenta loro origine. Ma da fantasie riscaldate, da uomini appassionati ed ardenti come richieder tanto? Essi, al pari dei cattivi medici, stimavano guarita la malattia quando fossero giunti ad eliminarne i sintomi, e credevano che, uccisi i tiranni, la libert? sarebbe risorta da s? medesima. E se anche talvolta non spingevano tanto innanzi i loro pensieri, miravano ad ogni modo o a dare libero sfogo all'odio generale, o ad esercitare vendette private cagionate da rancori ed offese puramente personali.
Quanto all'antichit?, la cui influenza sulle questioni morali e pi? particolarmente sulle politiche avremo occasione di rilevare frequentemente anche in seguito, i primi a dare l'esempio furono i tiranni stessi, che non di rado, tanto nel concetto che s'erano formati dello Stato, quanto nel loro modo di procedere, mostravano di non voler espressamente seguire altro modello, fuorch? l'antico impero romano. Ed altrettanto fecero alla loro volta i loro avversari studiandosi, sin da quando con fredda riflessione preparavansi all'impresa, d'imitare gli antichi nemici della tirannide. Non sarebbe facile il dimostrare che essi nell'idea principale, vale a dire nel risolversi al fatto, abbiano ricevuto il maggiore impulso da questi esempi, ma non ? neanche vero per questo che le allusioni continue all'antichit? fossero semplici frasi o mera faccenda di stile. Una prova notevolissima ne abbiamo negli uccisori di Galeazzo Sforza, il Lampugnani, l'Olgiati e il Visconti. Tutti e tre avevano motivi affatto personali d'odio contro di lui, e tuttavia la risoluzione di ucciderlo parve essere derivata da una causa d'ordine pi? elevato. Un umanista e maestro di eloquenza, Cola de' Montani, aveva infuso in un drappello di giovani appartenenti alla nobilt? milanese un vago desiderio di gloria e d'imprese magnanime in pro della patria, e s'era finalmente aperto col Lampugnani e l'Olgiati intorno all'idea di restituire la libert? a Milano. Non and? molto ch'egli cadde in sospetto, ed essendo espulso, dovette abbandonare quei giovani in preda al loro ardente entusiasmo. Circa dieci giorni prima del fatto convennero essi nel monastero di S. Ambrogio e giurarono solennemente di compierlo: <
Un radicalismo che muova dal popolo, quale si ? venuto formando nei tempi moderni di fronte alla monarchia, indarno si cercherebbe negli Stati principeschi dell'epoca del Rinascimento. Bens? ognuno protestava isolatamente nel suo interno contro il principato, ma cercava al tempo medesimo di farsi una posizione tollerabile o comoda sotto lo stesso, anzich? di assalirlo con forze riunite. Ci volevano eccessi quali si videro a Camerino, a Fabriano ed a Rimini , perch? una popolazione si decidesse a distruggere o a cacciare una casa regnante. Inoltre si sapeva anche troppo bene, che non si avrebbe fatto altro, fuorch? mutar padrone. La stella delle repubbliche era decisamente nel suo tramonto.
Le Repubbliche.
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