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Read Ebook: La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia Volume I by Burckhardt Jacob Valbusa Diego Translator

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Ebook has 330 lines and 103236 words, and 7 pages

Le Repubbliche.

Fra le citt? che seppero conservare la loro indipendenza, due sono della massima importanza per la storia dell'umanit?: Firenze, la citt? dei continui rimutamenti, che ci trasmise le manifestazioni di tutti i disegni e le aspirazioni della cittadinanza e degl'individui, che per tre secoli presero parte a quei mutamenti: Venezia, la citt? della calma apparente e del silenzio politico. Esse formano fra di loro la pi? forte antitesi, che si possa immaginare, ed ambedue alla loro volta sono tali, da non poter essere paragonate con verun'altro Stato del mondo.

Ma se i nemici di Venezia su mali di questa specie fondavano per avventura serie speranze, s'ingannavano grandemente. A prima vista si potrebbe credere che lo slancio stesso del commercio, che anche al pi? povero garantiva un ricco e sicuro guadagno sul proprio lavoro, nonch? le colonie sparse nella parte orientale del Mediterraneo, dovessero aver distrutto tutti gli elementi pericolosi nel campo politico. Ma Genova non ha forse avuto, ad onta di simili vantaggi, una storia politica delle pi? tempestose? Il fondamento della stabilit? di Venezia sta piuttosto in un concorso di circostanze, che non si verificarono mai in nessun altro Stato. Inespugnabile come citt?, essa non si era da tempo remotissimo occupata de' suoi rapporti con gli Stati esteri se non dietro a' calcoli della pi? fredda riflessione, ignorando quasi i parteggiamenti del resto d'Italia, e non concludendo le sue alleanze se non per iscopi al tutto passeggeri ed al maggior prezzo possibile. Il fondo adunque del carattere veneziano era quello di un superbo e dispettoso isolamento, e conseguentemente di una pi? compatta solidariet? all'interno, e a ci? fu spinto anche dal rancore di tutti gli altri Stati d'Italia. Di pi?, nella citt? stessa tutti gli abitanti eran tenuti uniti da fortissimi interessi comuni di fronte alle colonie ed ai possessi di terra-ferma, mentre la popolazione di quest'ultima non poteva esercitare atti commerciali altrove, fuorch? a Venezia. Un vantaggio fondato su mezzi cotanto artificiali non poteva essere mantenuto che mediante una grande tranquillit? e concordia interna; -- questo lo sentiva certamente la grande maggioranza, e quindi il terreno quivi era assai disadatto per qualsiasi cospirazione. Che se pure vi erano taluni malcontenti, costoro furono tenuti talmente divisi tra loro per la separazione esistente tra la borghesia e la nobilt?, che ogni ravvicinamento diventava quasi impossibile. Ed anche nel seno della nobilt? a quelli, che per avventura fossero pericolosi, vale a dire ai ricchi, mancava affatto l'occasione principale di qualsiasi congiura, l'ozio, e ci? per la moltiplicit? stessa dei loro affari commerciali, pei viaggi e per la parte continua che doveano prendere alle guerre coi Turchi, i quali incessantemente tornavano a farsi vedere. Vero ? che i comandanti in queste li risparmiavano a tutto potere, e talvolta in modo ingiustificabile, il che fece predire ad un Catone veneziano la caduta della Repubblica, se avesse durato a spese della giustizia quella stolta paura dei nobili <>. Tuttavia questo libero moto all'aria aperta diede alla nobilt? veneziana, presa nel suo complesso, un sano indirizzo. E se talvolta l'invidia e l'ambizione pretesero ad ogni costo una qualche soddisfazione, non mancavano mai le vittime ufficiali condannate dall'autorit? e con mezzi legali. La lunga tortura morale, alla quale fu sottoposto sotto gli occhi di tutta Venezia il doge Francesco Foscari , ? forse il pi? terribile esempio di una tale vendetta, possibile soltanto dove prevalgono le aristocrazie. Il Consiglio dei Dieci, che aveva una mano in tutto e possedeva un illimitato diritto di vita e di morte, nonch? una sorveglianza sulle cose pubbliche e sul comando dell'armata, che comprendeva nel suo seno gl'Inquisitori e che rovesci? il Foscari come tanti altri potenti, veniva ogni anno rieletto dall'intera casta dominante, dal gran Consiglio, ed era per ci? stesso l'organo pi? immediato della stessa. Non pare che grandi intrighi avessero luogo in queste elezioni, perch? la breve durata e la posteriore responsabilit? dell'ufficio non lo rendevano molto desiderato. Ma dinanzi a questa e ad altre autorit? indigene, per quanto il loro modo di agire fosse tenebroso e violento, il vero veneziano non cercava gi? di nascondersi, ma bens? di mettersi in vista, non solamente perch? la Repubblica aveva le braccia lunghe e poteva, invece che su lui, vendicarsi sulla sua famiglia, ma perch?, nella maggior parte dei casi almeno, si procedeva secondo la norma di certi principii, piuttosto che per sete di sangue. In generale nessuno Stato ha avuto pi? di questo una grandissima autorit? morale sui propri sudditi, anche lontani. E se, per esempio, fra i Pregadi stessi poteva dirsi esservi dei traditori, non ? meno vero da un altro lato che ogni veneziano, che si trovasse all'estero, si credeva obbligato a farsi referendario o spia del proprio governo. Dei cardinali veneziani domiciliati a Roma s'intendeva da s?, che riferivano tutto ci? che si trattava nei concistori segreti del Papa. Il cardinale Domenico Grimani fece rapire non lungi da Roma i dispacci, che Ascanio Sforza inviava a suo fratello Lodovico il Moro, e li sped? tosto a Venezia: suo padre, che allora si trovava sotto il peso di una grave accusa, fece valere pubblicamente questo servizio del figlio dinanzi al gran Consiglio, che era come dire, dinanzi a tutto il mondo.

Gli scrittori si esprimono con molta schiettezza su tutte queste cose. Da essi noi apprendiamo che la popolazione della citt? nell'anno 1422 ammontava a 190,000 anime. Forse questo modo di calcolare non pi? per focolari, n? per uomini atti a portar le armi o per tali che potessero reggersi sulle proprie gambe, e simili, ma per anime, ? molto antico in Italia, e pu? meglio d'ogni altro offrire una base giusta e sicura di calcolo. Allorch? i fiorentini intorno al medesimo tempo insistevano per una lega con Venezia a danno di Filippo Maria Visconti, la Repubblica pel momento li rimand?, nella persuasione evidente, e del resto confermata anche da un esatto bilancio del commercio, che ogni guerra tra Milano e Venezia, vale a dire tra compratori e venditori, fosse una vera foll?a. E gi? perfino quando il duca aumentava la sua armata, Venezia se ne accorava, perch?, dovendo egli con ci? aumentare le imposte, il ducato se ne risentiva e il consumo diminuiva. <>. Ma ancor pi? notevole ? il discorso del doge Mocenigo tenuto dal suo letto di morte ad alcuni senatori come quello che contiene gli elementi pi? importanti di una statistica dell'intera forza e dell'avere di Venezia. Io ignoro, se e dove esista una compiuta illustrazione di questo difficile documento; ma come una specialit? mi sia lecito di riportarne qui alcuni dati. Dopo fatto il pagamento di quattro milioni di ducati per un prestito di guerra, il debito dello Stato ammontava ancora a sei milioni di ducati. Il giro complessivo del commercio ascendeva a dieci milioni, i quali ne fruttavano quattro . Su tremila navigli, trecento navi e quarantacinque galere stavano 17 mila e rispettivamente 8 ed 11 mila marinai . A questi erano da aggiungere 16 mila costruttori nell'arsenale. Le case di Venezia avevano un valore di stima di sette milioni e fruttavano in affitti un mezzo milione. Vi erano mille nobili, che avevano una rendita da settanta a quattromila ducati annui. -- In un altro luogo la rendita ordinaria dello Stato in quello stesso anno ? calcolata un milione e centomila ducati: intorno alla met? del secolo, per le perdite sofferte dal commercio in causa della guerra, essa era discesa ad ottocentomila ducati.

Ancora delle Repubbliche.

La pi? elevata coscienza politica e la maggior variet? nello sviluppo delle forme di Stato trovavansi riunite nella storia di Firenze, la quale in questo rispetto merita la lode di primo fra gli Stati del mondo moderno. Qui ? un popolo intero che s'occupa di ci?, che nei principati ? nell'arbitrio di una sola famiglia. La mente maravigliosa del fiorentino, ragionatrice acuta e al tempo stesso creatrice in fatto d'arte, muta e rimuta incessantemente le sue condizioni politiche e sociali, e incessantemente pure le giudica e le descrive. Per tal modo Firenze divenne la patria delle dottrine e delle teoriche, degli esperimenti e dei subiti trapassi, ma anche insieme con Venezia la patria della statistica, e, sola e prima di ogni altro Stato al mondo, la patria della storia intesa nel senso moderno. N? senza una potente influenza vi rimasero la vicinanza dell'antica Roma e la conoscenza de' suoi storici: infatti Giovanni Villani confessa apertamente, che il primo impulso al suo grande lavoro gli venne dalla sua andata in quella citt? in occasione del Giubileo del 1300, e che vi pose mano subito dopo il suo ritorno in patria. Ma quanti fra i 200,000 pellegrini di quell'anno avranno avuto uguali attitudini e inclinazioni, e tuttavia non scrissero la storia della loro citt?! E per vero non tutti potevano fiduciosamente soggiungere come lui: <>. E con ci? Firenze ottenne da' suoi storici non solo una testimonianza autentica del modo con cui si svolse la sua vitalit?, ma altres? una fama maggiore che qualunque altro Stato d'Italia.

Ma non ? del nostro assunto il far qui la storia di questo memorabile Stato, bens? soltanto di additare sommariamente la parte che questa storia ebbe nel risvegliare nei fiorentini tanto amore alla libert? e un senso pratico cos? profondo.

Ai Villani, cos? a Giovanni che a Matteo, andiamo debitori non tanto di profonde considerazioni politiche, quanto di giudizi schietti e convalidati dall'esperienza, degli elementi primi della statistica fiorentina e di notizie importanti sopra altri Stati d'allora. Il commercio e l'industria aveano anche qui dato occasione a studi di economia politica. Sulle condizioni pecuniarie in grande nessuno aveva altrove idee pi? precise, a cominciare dalla curia papale di Avignone, l'enorme ammontare della cui cassa non parrebbe credibile, se non fosse dato da fonti cos? autorevoli. Qui soltanto, a Firenze, udiamo di prestiti colossali, per esempio di quello del re d'Inghilterra con le case fiorentine Bardi e Peruzzi, le quali ci perdettero un valore di 1,365,000 fiorini d'oro, , danaro proprio e di soci, e tuttavia si riebbero. -- Ma la cosa pi? importante sono le notizie di quello stesso tempo che si riferiscono allo Stato, vale a dire: le rendite e le spese; la popolazione della citt? , e quella dello Stato; l'eccedenza dei nati maschi su 5800 in 6000 battezzati annuali del Battistero; la frequenza delle scuole, in sei delle quali da 8000 a 10,000 fanciulli imparavano a leggere, e da 1000 a 1200 a far conti; oltre a 600 scolari circa, che in quattro scuole venivano istruiti nella grammatica e nella logica. Segue la statistica dei conventi e delle chiese, degli spedali ; il lanificio, con notizie di sommo valore, la zecca, l'approvigionamento della citt?, i pubblici ufficiali e cos? via. Altre cose si apprendono incidentalmente, per esempio come nell'erezione delle nuove rendite dello Stato , i Francescani abbiano predicato dal pulpito in favore, gli Agostiniani e i Domenicani contro di esse; e per ultimo le conseguenze economiche della peste nera n? furono, n? poterono essere osservate ed esposte in nessuna parte d'Europa, come avvenne in questa citt?. Un fiorentino soltanto poteva lasciare scritto come tutti si aspettassero che, per la scarsezza degli abitanti, tutti i prezzi delle cose ribassassero, e come invece e viveri e mercedi abbiano incarito del doppio; come il popolo in sulle prime non volesse pi? lavorare, ma darsi buon tempo; come nella citt? non potessero pi? aversi n? servi, n? fantesche se non a prezzi elevatissimi; come i contadini non volessero pi? coltivare che i terreni migliori, lasciando incolti gli altri e come gli enormi legati lasciati a favore dei poveri apparissero dopo la peste inutili affatto, perch? i poveri o erano morti o poveri pi? non erano. Per ultimo si ha perfino il saggio di una ampia statistica dei mendicanti della citt? nell'occasione di un grande legato di sei danari a ciascuno di essi lasciato da un filantropo senza prole.

I Fiorentini sono in parecchi pregi il modello e la primissima espressione degl'Italiani e dei moderni europei, ma sono tali altres?, ed in pi? guise, quanto ai difetti. Quando Dante a' suoi tempi paragonava Firenze, che non cessa di correggere la propria costituzione, con quell'inferma che sempre muta lato per sottrarsi a' suoi dolori, egli esprimeva con questo paragone uno dei caratteri pi? stabili di questa citt?. Il grande errore moderno che una costituzione possa farsi e rifarsi mediante il calcolo delle forze e dei partiti esistenti, a Firenze si vede risorgere sempre in tempi di qualche commozione, e il Machiavelli stesso non ne and? immune. Egli ? allora che si vedono farsi innanzi certi artefici di Stati, che con un artificioso spostamento e frastagliamento del potere, con sistemi elettorali lambiccatissimi, con magistrature di sola apparenza e simili, vogliono fondare uno stato di cose durevole, e accontentare o almeno illudere tutte le parti. Essi copiano in ci? con molta ingenuit? i tempi antichi e finiscono perfino col prendere a prestito da quelli i nomi stessi delle fazioni, come per esempio, degli ottimati, dell'aristocrazia ecc. D'allora in poi il mondo s'? abituato a queste denominazioni e ha dato ad esse un senso convenzionale europeo, mentre dapprima tutti i nomi dei partiti erano particolari e diversi secondo i diversi paesi, e o designavano direttamente la cosa, o nascevano dal capriccio del caso. Ma quanto il solo nome non d? o toglie di colorito alle cose!

Politica estera degli Stati italiani.

Invidia contro Venezia. -- L'estero: simpatie per la Francia. -- Tentativo per un equilibrio. -- Intervento e conquista. -- Alleanze coi Turchi. -- Reazione spagnuola. -- Trattazione obbiettiva della politica. -- Arte diplomatica.

A quel modo che la maggior parte degli Stati italiani erano all'interno opere d'arte, vale a dire creazioni coscienti, emanate dalla riflessione e fondate su basi rigorosamente calcolate e visibili, artificiali dovevano essere anche i rapporti che correvano tra di loro e con gli Stati esteri. L'essere quasi tutti fondati sopra usurpazioni di data recente ? cosa per essi sommamente pericolosa tanto nelle relazioni esterne, quanto nel normale andamento interno. Nessuno riconosce il suo vicino senza qualche riserva: lo stesso colpo di mano che ha servito a fondare e rafforzare l'una signoria, pu? aver servito anche per l'altra. Ma non sempre dipende dall'usurpatore che egli possa sedere tranquillo sul trono, o no: il bisogno d'ingrandirsi e in generale di muoversi suol essere proprio d'ogni signoria illegittima. Per tal modo l'Italia diventa la patria di una <>, che poi a poco a poco anche in altri paesi prevale al diritto riconosciuto, e la trattazione degli affari internazionali, completamente oggettiva e libera da pregiudizi e da ogni ritegno morale, vi raggiunge talvolta una perfezione, che le d? apparenza di decoro e di grandezza, mentre l'insieme ha l'impronta di un abisso senza fondo.

Questi intrighi, queste leghe, questi armamenti, queste corruzioni e questi tradimenti costituiscono in complesso la storia esterna dell'Italia d'allora. Da lungo tempo Venezia era specialmente l'oggetto delle accuse di tutti, come se essa volesse conquistar l'intera Penisola o a poco a poco indebolirla per modo, che uno Stato dopo l'altro cadesse spossato nelle sue braccia. Ma, guardando la cosa un po' pi? addentro, si vede, che quel grido di dolore non si solleva dal popolo, ma dalle regioni pi? prossime ai principi ed ai governi, i quali quasi tutti sono gravemente odiati dai sudditi, mentre Venezia col suo reggimento abbastanza mite si concilia le simpatie universali. Anche Firenze colle citt? soggette, che impazienti rodevano il freno, di fronte a Venezia trovavasi in una posizione assai falsa, quand'anche non si voglia tener conto della gelosia commerciale che le inimicava entrambe, nonch? degli avanzamenti, che Venezia veniva facendo in Romagna. Alla fine la lega di Cambray port? effettivamente le cose ad un punto, che Venezia ne usc? con gloria, ma non senza danno, mentre tutta Italia avrebbe dovuto invece concorrere a sostenerla.

Di fronte all'assoggettamento omai cominciato d'Italia per opera degli Spagnuoli ? un conforto ben meschino, ma non del tutto irragionevole, il pensare, che almeno per questo assoggettamento l'Italia and? salva dalla barbarie, alla quale l'avrebbe ricondotta la signoria turca. Da s? sola, divisa com'era, difficilmente avrebbe potuto sottrarsi a un tale destino.

Se, dopo tutto questo, qualche cosa di buono pu? dirsi della politica italiana d'allora, ci? non pu? riferirsi che al modo positivo, spregiudicato e pratico di trattar le questioni, che non erano intorbidate n? da paura, n? da passione, n? da male intenzioni. Qui non esiste pi? il sistema feudale nel senso inteso dai settentrionali, co' suoi diritti dedotti paradossalmente; ma la potenza di fatto che ognuno possiede, la possiede, di regola, per intero. Qui al seguito del principe non si ha quella nobilt? riottosa, che altrove tien desto nell'animo del monarca un astratto punto d'onore e tutte le strane conseguenze che ne derivano, ma principi e consiglieri convengono in questo, che non si deve agire che conformemente allo stato delle cose e secondo gli scopi, che si vogliono conseguire. Contro gli uomini, dei quali si accettano i servigi, contro gli alleati, da qualsiasi parte essi vengano, non esiste nessun pregiudizio di casta, che possa per avventura tenerne lontano qualcuno, e una prova anche soverchia se ne ha nella posizione fatta ai Condottieri, dei quali riesce perfettamente indifferente l'origine. Per ultimo i governi, in mano di despoti illuminati, conoscono il proprio paese e quello dei lor vicini incomparabilmente pi? addentro, che i loro contemporanei d'oltr'alpe non conoscessero i loro, e calcolano la capacit? di giovare o di nuocere di amici e nemici sin nei menomi particolari, tanto nel rispetto morale che economico: in una parola, appajono, ad onta dei pi? grossolani errori, nati fatti per la politica.

Con uomini di questa tempra si poteva trattare, si poteva tentare la persuasione e sperare anche di convincerli, quando si mettessero loro dinanzi buone ragioni di fatto. Quando Alfonso il Magnanimo di Napoli cadde prigioniero nelle mani di Filippo Maria Visconti, egli seppe persuadere quest'ultimo che il dominio della casa d'Angi? sopra Napoli, sostituito al suo, avrebbe reso i Francesi padroni di tutta Italia, e il duca mut? proposito, rilasci? Alfonso senza riscatto, e si strinse in alleanza con esso. Difficilmente un principe settentrionale avrebbe operato cos?, e certamente poi nessuno, che in fatto di moralit? avesse avuto gli strani principj del Visconti. Una ferma fiducia nella potenza delle ragioni di fatto appare anche nella celebre visita, che Lorenzo il Magnifico fece, tra lo spavento generale dei Fiorentini, allo sleale Ferrante di Napoli, il quale certamente risent? la tentazione non troppo benevola di ritenerlo prigioniero.

La guerra come opera d'arte.

Le armi da fuoco. -- Conoscitori e dilettanti. -- Orrori guerreschi.

S'intende da s? che tutti questi modi di trattar le cose di guerra da un punto di vista razionale e subbiettivo non mancavano, in date circostanze, di far luogo anche ad orribili crudelt?, senza che ci entrasse nemmeno l'odio politico, ma solo in vista di permettere un saccheggio, che per avventura fosse stato promesso. Dopo la spogliazione di Piacenza, che non dur? meno di quaranta giorni e che lo Sforza avea dovuto concedere ai suoi soldati , la citt? per buon tratto rimase vuota del tutto, e per ripopolarla nuovamente si dovette usar la violenza. Ma tali fatti sono ancor poco in paragone dei mali, che l'Italia ebbe a soffrire pi? tardi dalle truppe straniere, e specialmente poi da quegli Spagnuoli, nei quali forse una vena di sangue arabo e fors'anche l'abitudine alle atrocit? della Inquisizione svegliarono il lato pi? perverso della natura umana. Chi impara a conoscerli nelle nefandit? commesse a Prato, a Roma ed altrove, non sa poi qual concetto formarsi di Ferdinando il Cattolico e di Carlo V, che, pur conoscendo l'indole di tali mostri, non si peritarono tuttavia di lasciarli inferocire a loro talento. Il cumulo degli atti consumatisi nei loro gabinetti, e che mano mano vengono prodotti alla luce del giorno, potr? restare come una fonte storica della pi? alta importanza; -- ma nessuno negli scritti di tali principi cercher? pi? un pensiero politico vivificatore.

Il Papato e i suoi pericoli.

Ora egli fu appunto in un momento di cos? generale abbandono, che anche all'interno si manifestarono i pi? serii pericoli. Gi? pel fatto stesso del trovarsi la Chiesa imbevuta delle stesse massime che informavano la politica degli altri principati italiani, essa doveva sentirne le scosse pi? fiere: il suo proprio carattere v'arrec? poi urti affatto particolari.

Per quanto riguarda, prima d'ogni altra cosa, la citt? di Roma, era gi? da tempo invalsa la consuetudine di non dare importanza alcuna alle sue agitazioni interne, poich? tanti Papi cacciati da tumulti popolari erano sempre tornati, e i Romani stessi dovevano nel proprio interesse desiderare la presenza della Curia a Roma. Ma non ? men vero per questo, che Roma di tempo in tempo non solo si mostr? proclive ad idee pi? o men radicali, ma nelle cospirazioni che minacciavano la sicurezza dei Pontefici, ubbid? a mani invisibili, che la guidavano dal di fuori. Cos? accadde, per esempio, nella congiura di Stefano Porcari contro quel Papa, che per l'appunto aveva procurato a Roma i maggiori vantaggi, Nicol? V . Il Porcari mirava ad un rovesciamento della signoria dei Papi in generale, e in ci? avea grandi complici, i quali bens? non vengono nominati, ma devono cercarsi fra i governi italiani d'allora. Sotto lo stesso pontificato Lorenzo Valla chiudeva la sua famosa invettiva contro la donazione di Costantino, augurando l'immediata secolarizzazione dello Stato pontificio.

Anche la congrega di cospiratori, colla quale ebbe a lottare Pio II , non nascondeva che il suo scopo era in generale la caduta del dominio dei preti, e il capo di essa, Tiburzio, ne riversava la colpa sui profeti, che gli avevano promesso l'adempimento di quel suo desiderio in quello stesso anno. Parecchi grandi romani, il principe di Taranto e il condottiero Jacopo Piccinino n'erano complici e promotori. E se si ripensa al ricco bottino, che ad ogni momento poteva riguardarsi come pronto nei palazzi dei maggiori prelati , sorprender? piuttosto che in una citt? quasi sempre cos? priva di sorveglianza tali tentativi non fossero invece pi? frequenti e pi? fortunati. Non per nulla Pio II risiedeva pi? volentieri dovunque, anzich? a Roma, ed anche Paolo II ebbe a provare nel 1468 un forte spavento per una congiura, supposta o reale, di questa specie. I Pontefici dovevano o quando che sia soggiacere a tali assalti, o domare colla forza le fazioni dei grandi, sotto la protezione dei quali simili rapaci tentativi venivano ogni d? pi? aumentando.

Se Sisto s'era arricchito colla vendita di ogni sorta di grazie e di dignit?, Innocenzo e suo figlio eressero addirittura una banca di grazie temporali, nella quale, dietro il pagamento di tasse alquanto elevate, poteva ottenersi l'impunit? per qualsiasi assassinio e delitto: di ogni ammenda cento cinquanta ducati ricadevano alla Camera papale, il di pi? a Franceschetto. E cos? Roma, come era naturale, negli ultimi anni specialmente di questo pontificato, formicolava d'ogni parte di assassini protetti e non protetti: le fazioni, la cui repressione era stata la prima opera di Sisto, rialzarono il capo in modo spaventoso: ma il Papa, chiuso e ben custodito nel Vaticano, non si preoccupava d'altro, che di porre qua e l? qualche agguato, per farvi cader dentro malfattori, che avessero mezzi di ben pagare. Per Franceschetto la questione principale era di sapere come avesse potuto piantar tutti con quanti pi? tesori poteva, nel caso che il Papa venisse a morire. Egli si trad? una volta nell'occasione che di questa morte, omai aspettata, corse una falsa notizia ; addirittura egli voleva portare con s? tutto il danaro esistente nelle casse, e quando quelli stessi che lo circondavano, glielo impedirono, volle almeno che lo seguisse il principe turco Zizim, che egli riguardava come un capitale vivente da potersi cedere per avventura a patti vantaggiosissimi a Ferrante di Napoli. Egli ? sempre malagevole il voler calcolare tutte le eventualit? politiche di un'epoca omai remota: ma qui sorge da s? la domanda: come Roma sarebbe stata in grado di sostenersi con due o tre pontificati di questo genere? Di fronte poi all'Europa niuna maggiore imprudenza che lasciar andare le cose tant'oltre, che non soltanto i viaggiatori e i pellegrini, ma un'ambasceria intera spedita da Massimiliano, re dei Romani, fu in prossimit? di Roma assalita e spogliata cos? completamente, che taluni degl'inviati tornarono addietro senza nemmeno aver toccato le porte della citt?!

Alessandro VI, uomo dotato di attitudini non comuni, sal? al potere coll'idea di goderlo nel pieno significato della parola : e siccome con questa idea non poteva certamente conciliarsi uno stato di cose, quale lo abbiamo descritto, il primo suo atto fu l'immediato ristabilimento della pubblica sicurezza e il puntuale pagamento di tutti gli stipendi.

Rigorosamente parlando, noi potremmo qui pretermettere questo Pontificato, appunto perch? non parliamo che delle diverse forme che assunse la civilt? italiana, e i Borgia non erano italiani pi? di quello che lo fosse la casa allora regnante di Napoli. Alessandro, parlando in pubblico con Cesare, si serviva sempre della lingua spagnuola: Lucrezia al suo ingresso in Ferrara fu festeggiata da buffoni pure spagnuoli: di spagnuoli si compose il servidorame pi? fidato della famiglia, nonch? le bande famigerate di Cesare nella guerra del 1500, e pare che lo stesso suo carnefice, don Micheletto, e il suo avvelenatore Sebastiano Pinzon sieno stati anch'essi spagnuoli. Finalmente anche Cesare, fra le altre sue gesta, si mostr? vero spagnuolo, quando atterr?, secondo tutte le regole dell'arte, sei tori selvaggi in campo chiuso. La corruzione soltanto, di cui questa famiglia sembra la personificazione vivente, non potrebbe dirsi portata a Roma da essa, quando gi?, come vedemmo, vi preesisteva e in s? larga misura.

Nel padre l'ambizione, l'avidit? e la depravazione erano congiunte con un'indole energica, e con tendenze assai splendide. Tutti i godimenti che pu? dar la potenza, egli volle goderli sino dal primo giorno e in ampia misura. Nella scelta dei mezzi che doveano condurlo al suo scopo, egli non si mostr? mai titubante: sin dalle prime tutti seppero che egli non intendeva di rifarsi soltanto dei sacrificii fatti per ottenere il Papato, ma voleva senz'altro che la simonia dell'acquisto fosse ampiamente sorpassata dalla simonia delle vendite. S'aggiungeva poi che Alessandro, in virt? degli ufficii di vice-cancelliere ed altri da lui anteriormente coperti, conosceva meglio d'ogni curiale tutti i mezzi possibili di far danaro. N? egli nomin? mai nessun cardinale senza un deposito anticipato di somme considerevoli. -- Del resto sin dal 1494 un carmelitano, Adamo da Genova, che a Roma aveva osato predicare contro la simonia, fu trovato morto nel suo letto con ben venti ferite.

Ma quando il Papa col tempo cadde sotto il dominio del proprio figlio, i mezzi violenti presero quel carattere veramente infernale, che necessariamente reagisce perfin sugli scopi. Ci? che si fece nelle lotte coi grandi di Roma e coi tiranni delle Romagne supera, in linea di crudelt? e di perfidia, quanto di peggio commisero gli Aragonesi di Napoli, con questo di pi? che le arti, con cui si tradiva, erano assai pi? raffinate. Affatto spaventevole ? il modo, con cui Cesare giunse ad isolare il padre, togliendo di mezzo il fratello, il cognato ed altri congiunti e cortigiani, non appena il favore che essi godevano presso il Papa e la loro posizione suscitarono in lui qualche ombra di gelosia, Alessandro fu spinto al punto di dare il suo consenso all'uccisione del figlio suo prediletto, il duca di Gandia, perch? tremava per s? stesso dinanzi a Cesare.

Ora quali erano i segreti disegni di quest'ultimo? Ancora negli ultimi mesi della sua signoria, quando egli appunto aveva finito di sterminare i condottieri a Sinigaglia ed era di fatto divenuto padrone dello Stato della Chiesa , ripetevasi abbastanza modestamente da chi lo avvicinava, che egli non voleva sottomettere se non le fazioni e i tiranni, e ci? solo a vantaggio della Chiesa, ritenendo per s? tutt'al pi? la Romagna, e che quindi non gli sarebbe mancata la riconoscenza anche di tutti i Papi futuri, ai quali rendeva il pi? grande servigio, abbattendo gli Orsini e i Colonna. Ma chi potrebbe ammettere che questo realmente fosse l'ultimo suo pensiero? Un po' pi? apertamente una volta si espresse Papa Alessandro in una conversazione avuta coll'ambasciatore veneziano, mentre raccomandava suo figlio alla protezione della Repubblica: <>. Veramente Cesare aggiunse, che non doveva divenir Papa, se non colui che avesse avuto l'assenso di Venezia, e che a tal uopo i cardinali veneziani non aveano bisogno che di star bene uniti e compatti. Nessuno ? in grado di dire, se egli con tali parole intendesse alludere a s? medesimo; ma, in ogni caso, le espressioni del padre bastano bene a provare quali fossero le sue idee circa l'occupazione del trono papale. Qualche ulteriore indizio ci viene per via indiretta da Lucrezia Borgia, potendosi presumere che certi passi delle poesie d'Ercole Strozza non sieno che l'eco di espressioni, alle quali ella, come duchessa di Ferrara, pu? benissimo essersi lasciata andare. Anche qui innanzi tutto si parla dell'intendimento di Cesare di farsi Papa, ma in mezzo a ci? traluce altres? qualche cosa che alluderebbe ad una sperata signoria su tutta l'Italia, e sulla fine si accenna al fatto che Cesare, qual principe secolare, macchinava cose grandissime e per questo anche avea deposto una volta il cappello cardinalizio. Infatti non ? a dubitare che Cesare, fosse eletto Papa o no dopo la morte di Alessandro, pensava a conservare per s? ad ogni costo lo Stato della Chiesa, e che egli, dopo tutte le scelleratezze commesse, pi? facilmente poteva sperare di sostenersi come principe, che come Papa. Nessuno pi? di lui sarebbe stato in grado di secolarizzare lo Stato, e nessuno pi? di lui avrebbe dovuto farlo, se voleva continuare a tenerlo. Se noi non c'inganniamo affatto, questo sarebbe il motivo principale della segreta simpatia, che il Machiavelli manifesta per questo grande ribaldo: o Cesare, o nessuno sarebbe stato capace di <>, vale a dire, di annientare il Papato, causa di tutti gl'interventi e fonte di tutte le divisioni d'Italia. -- Gl'intriganti che credevano d'indovinare le mire di Cesare, quando gli facevano balenare agli occhi la possibilit? di regnare sulla Toscana, furono respinti sdegnosamente, a quanto sembra, da lui medesimo.

Ma forse tutte le logiche deduzioni che si tirano da tali promesse, riescono vane, -- non tanto per una speciale genialit? satanica, di cui altri lo volle fornito, ma che in lui non v'era, come non v'era, per esempio, nel duca di Friedland; bens?, perch? i mezzi, di cui egli si serv?, erano di quelli che in generale non si conciliano con nessuna maniera pienamente logica di agire in grande. E nessuno pu? dire se, quando l'eccesso dei mali avesse raggiunto l'ultimo limite, una prospettiva di salute non si sarebbe nuovamente dischiusa pel Papato anche senza quell'eventualit?, che affatto casualmente pose fine alla sua signoria.

Noi avremo frequenti occasioni d'incontrarci in questo Papa, ogni volta che ci accadr? di discorrere dei momenti pi? splendidi dell'epoca del Rinascimento: qui adunque e pel nostro scopo ci baster? di accennare, come sotto di lui il Papato abbia corso nuovamente gravissimi pericoli tanto al di dentro, quanto al di fuori. Fra questi non contiamo la congiura dei cardinali Petrucci, Sauli, Riario e Corneto, perch? questa tutt'al pi?, riuscendo, avrebbe cagionato un mutamento di persone e non altro: e d'altronde a Leone fu facile sventarla colla creazione, inaudita per vero, di trent'un nuovi cardinali in una sola volta, la quale del resto non fece che produrre un'eccellente impressione, perch?, in parte almeno, premiava il vero merito.

Sommamente pericolose invece furono certe vie, alle quali si lasci? tirare Leone nei due primi anni del suo pontificato. Egli aveva infatti intavolato pratiche molto serie per procurare il regno di Napoli a suo fratello Giuliano e per creare a suo nipote Lorenzo un gran regno nell'Italia settentrionale, che abbracciasse Milano, la Toscana, Urbino, e Ferrara. ? evidente a chiunque che lo Stato della Chiesa, rinserrato per tal modo da tutte parti, avrebbe dovuto finire col diventare un appannaggio mediceo, senza che nemmeno s'avesse avuto bisogno di secolarizzarlo.

Il progetto trov? uno scoglio insuperabile nelle condizioni politiche generali d'allora. Giuliano mor? a tempo; tuttavia, per provvedere a Lorenzo, Leone intraprese l'espulsione del duca Francesco Maria della Rovere da Urbino, e con ci? si tir? addosso l'odio universale, impover? il tesoro, e fin? poi, quando anche Lorenzo nel 1519 mor?, col dover dare alla Chiesa ci? che con tanta fatica aveva per altri acquistato: cos? egli non ne raccolse nemmen quella gloria, che certamente non gli sarebbe mancata, se quella cessione fosse stata anteriore e spontanea. Anche ci? che tent? pi? tardi contro Alfonso di Ferrara, e che pot? realmente condurre ad effetto contro un pajo di tiranni e Condottieri, non fu tal cosa, da cui potesse venirne incremento alla sua reputazione. E tutto questo accadeva nel momento stesso, in cui i monarchi d'Occidente d'anno in anno si andavano ognor pi? abituando ad un colossale giuoco di politica, ch'era fatto alle spese di questo o di quel territorio d'Italia. Chi avrebbe voluto farsi garante che essi, dopoch? la loro potenza all'interno negli ultimi decenni era immensamente cresciuta, non fossero per allargare quando che sia le loro viste anche allo Stato della Chiesa? Leone visse abbastanza per essere testimone di un fatto, che era come il preludio di ci? che si verific? poi nel 1527: un pugno di fanti spagnuoli apparve nel 1520, -- di proprio impulso, a quanto sembra, -- ai confini dello Stato pontificio, unicamente allo scopo di taglieggiare il Papa, ma si lasci? respingere dalle truppe di quest'ultimo. Anche la pubblica opinione, di fronte alla corruzione della Curia e della corte romana, s'era negli ultimi anni svegliata pi? imperiosa che mai, ed uomini che vedevano nel futuro, come, per esempio, il giovane Pico della Mirandola, invocavano con forza pronte riforme. Infrattanto era comparso sulla scena Lutero.

Le riforme vennero sotto il pontificato di Adriano VI, , ma scarse e insufficienti e ritardate di troppo, di fronte alla foga invadente del grande movimento tedesco. Adriano non pot? far altro, fuorch? manifestare l'orrore, di cui era compreso per tutte le piaghe che avean deturpato la Chiesa sino a quel tempo, vale a dire la simonia, il nepotismo, la prodigalit?, il malandrinaggio e la pi? profonda immoralit?. N? per allora il pericolo, che minacciava da parte del luteranismo, sembrava neanche il maggiore: un arguto osservatore veneziano, Girolamo Negro, presente vicinissima una spaventevole catastrofe per Roma stessa, e ne esprime il proprio dolore apertamente.

Con una serie di quelle menzogne, che sono sempre permesse ai forti, ma che recano la rovina ai deboli, Clemente provoc? la venuta delle truppe austro-spagnuole comandate dal Borbone e da Frundsberg . Egli ? fuor d'ogni dubbio che il gabinetto di Carlo V meditava di prendere del Papa una fiera vendetta, e che l'imperatore non poteva prevedere anticipatamente quanto oltre nel loro zelo sarebbero andate le orde che aveva assoldate, ma non pagava. L'arrolamento pressoch? gratuito non avrebbe potuto effettuarsi in Germania, se non si avesse saputo che si doveva marciare contro Roma. Forse si ritroveranno quando che sia le istruzioni date in questa occasione al Borbone, e pu? darsi anche che esse suonino pi? miti di quanto ora si possa supporre; ma la storia non si lascer? travolgere per questo a men severi giudizii. Fu una fortuna pel cattolico re e imperatore che n? il Papa, n? alcuno dei cardinali sia stato ucciso dalle sue genti. Se ci? fosse accaduto, nessun sofisma al mondo avrebbe potuto salvarlo da una gravissima responsabilit?. Ma l'uccisione di innumerevoli persone delle infime classi e la spogliazione delle altre ottenuta colla tortura o coll'infame mercato, che se ne fece, mostrano ad esuberanza fino a qual punto fu permesso di spingere le atrocit? nel sacco di Roma.

Ma se anche tali intendimenti erano in lui, non furono certo di lunga durata; e intanto dalla desolazione stessa della citt? sorge uno spirito di riforma, che promette una completa restaurazione della Chiesa e del principato. Il primo a presentirla fu il cardinal Sadoleto: <>.

Tosto dopo manifestossi pel Papato, fatto segno di tante umiliazioni, una simpatia d'indole in parte politica e in parte religiosa. I monarchi non potevano permettere che un loro uguale si arrogasse l'ufficio di carceriere privilegiato del Papa, e nell'intento di ridonare a quest'ultimo la sua libert? conclusero per l'appunto il trattato di Amiens . Con ci? essi ottennero almeno di far ricadere sull'imperatore tutta l'odiosit? dei fatti test? commessi dalle truppe imperiali. Ma contemporaneamente all'imperatore creavansi serii imbarazzi anche in Ispagna, dove i prelati ed i grandi lo tempestavano di rimostranze, quante volte era lor dato di avvicinarlo. E quando si parl? di una dimostrazione generale del clero e della cittadinanza, che minacciavano di presentarsi a lui in forma solenne e in abito di gramaglia, egli se ne spavent?, temendo si rinnovassero le scene della insurrezione delle comunit? poco prima domata, e volle che a qualunque costo fosse impedita. Egli non poteva adunque, nemmen volendo, prolungare pi? oltre la persecuzione contro il Papato, anzi, prescindendo anche dalla politica estera, trovavasi imperiosamente costretto a riconciliarsi con esso al pi? presto possibile, molto pi? che non volle mai tener conto n? in questa, n? in altre occasioni, dello stato dell'opinione pubblica in Germania, che per vero gli avrebbe additato un'altra via da tenere. Finalmente non ? neanche impossibile, come opinava un veneziano, che la ricordanza del sacco di Roma gli pesasse sull'anima come un rimorso, e che appunto per questo egli abbia sollecitato quell'ammenda, che doveva essere suggellata con lo stabile assoggettamento dei Fiorentini sotto la tirannide de' Medici. Quasi a conferma di ci?, una figlia naturale dell'imperatore fu data in moglie al nuovo duca Alessandro.

L'Italia dei patriotti.

Prima di chiudere, ci sia permesso un brevissimo sguardo al contraccolpo di questo stato di cose sullo spirito della nazione in generale.

Quanto al patriottismo locale o di campanile, non potrebbe dirsi altro, se non che esso teneva il luogo di questo sentimento, ma non lo sostituiva.

PARTE SECONDA

LO SVOLGIMENTO DELL'INDIVIDUALIT?

Lo Stato e l'individuo.

L'uomo del Medio-Evo. -- Il risvegliarsi della personalit?. -- I tiranni e i loro sudditi -- L'individualismo nelle Repubbliche. -- L'esiglio e il cosmopolitismo.

Nell'indole delle repubbliche e dei principati, di cui fin qui s'? tenuto discorso, sta, se non l'unica, certo la pi? potente causa, per cui gl'Italiani, prima d'ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono di esser detti i figli primogeniti della presente Europa.

I primi a mettere in piena mostra una siffatta individualit?, come vedemmo, sono i tiranni e i Condottieri, e poi a poco a poco gli uomini d'ingegno da loro protetti, ma anche in ogni occasione fatti strumento di governo, i cancellieri, i segretari, i poeti e gli uomini di corte. Tutti costoro imparano necessariamente a tener conto di tutte le risorse, stabili o momentanee, che ciascuno sa trovare in s? stesso; ed anche nel godimento della vita esteriore ricorrono a mezzi men grossolani e di un'indole pi? spirituale, per circondare del maggior prestigio possibile un periodo forse assai breve di potenza e d'influenza.

Anche in queste ultime lo sviluppo del carattere individuale era promosso al pari che nei Principati, ma in guisa affatto diversa. Quanto pi? frequentemente i partiti si scambiavano fra loro la signoria, tanto pi? forte gli uomini che li componevano, sentivano la tentazione di sfruttare il potere e talvolta di abusarne. Egli ? appunto per tal modo che nella storia fiorentina gli uomini politici e i caporioni del popolo acquistano una personalit? cos? spiccata, che altrove non si riscontra se non in via al tutto eccezionale in un uomo solo, in Jacopo d'Arteveldt.

Ma gli uomini dei partiti soccombenti venivano spesso a trovarsi in una condizione simile a quella dei sudditi dei tiranni, con questo di pi? che la libert? o la signoria gi? gustate, e forse anche la speranza di riacquistar l'una e l'altra, davano al loro individualismo uno slancio pi? ardito. Appunto fra questi uomini condannati ad un ozio involontario trovasi, per esempio, un Agnolo Pandolfini , il cui trattato <>? il primo programma di una vita privata portato al massimo suo sviluppo coll'aiuto della educazione. Il raffronto ch'egli fa tra i doveri di un privato e le incertezze e le molestie della vita pubblica, merita di essere riguardato, nel suo genere, come un vero monumento del suo tempo.

Ma ci? che sopra ogni altra cosa ha la forza o di logorare un uomo o di portarlo al massimo grado del suo sviluppo, ? l'esiglio. <>. Ed era vero: quegli uomini non erano semplici fuggiaschi banditi dalla loro patria, ma l'avevano abbandonata di proprio impulso, perch? le condizioni politiche ed economiche di essa erano divenute omai insopportabili. I Fiorentini emigrati a Ferrara e i Lucchesi rifugiatisi a Venezia costituivano delle vere colonie.

Il cosmopolitismo, che si manifesta negli esuli pi? colti, ? l'individualismo portato al suo pi? alto grado. Dante, come abbiamo gi? accennato , trova una nuova patria nella lingua e nella cultura di tutta Italia, ed anzi va ancora pi? in l? ed esclama: <> -- E quando gli fu offerto di tornare a Firenze, ma a condizioni ignominiose, egli rispondeva: <>. Con fiero orgoglio alzano pi? tardi la voce anche gli artisti, affermando la propria libert? indipendentemente dal luogo ove si trovano. <>. E in modo non molto diverso anche un umanista fuggiasco scriveva: <>.

Perfezionamento dell'individualit?.

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