Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 03 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde
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STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO
DI J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI, DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
ITALIA 1817.
STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE
Non erano appena passati sessant'anni dopo il trattato convenuto in Venezia tra le repubbliche lombarde e l'imperatore Federico Barbarossa, che una nuova guerra si riaccese nella stessa contrada fra la medesima lega lombarda e Federico II, nipote del Barbarossa. Apparentemente sembrava provocata dagli stessi motivi che avevano dato luogo alla precedente guerra; e se da un lato pretestavansi le antiche prerogative dell'Impero, facevansi risonare dall'altra banda i diritti de' cittadini e la riconosciuta indipendenza delle citt?. Nel tredicesimo secolo, siccome nel dodicesimo, la Chiesa non tard? a dichiararsi la protettrice delle repubbliche ed a ferire pi? gravemente l'imperatore colle armi spirituali. Si confondono facilmente i due Federici, le due leghe lombarde, le due lunghe contese tra l'autorit? reale e la libert?.
Queste due guerre sono per altro distinte da due importantissime differenze. Era la prima necessaria; perch?, rispetto alle citt?, trovavansi compromessi i loro pi? preziosi diritti, il loro onore, la stessa loro esistenza. La seconda poteva facilmente risparmiarsi, se l'insidiosa politica della corte romana non avesse accesa e tenuta viva la discordia, e se ai Lombardi non avessero ispirata troppa fidanza le loro ricchezze, e troppo orgoglio il sentimento della propria forza. E siccome i motivi della guerra furono meno puri, n'ebbero altres? meno onorevoli risultamenti. Spiegando lo stesso coraggio e la stessa costanza del precedente secolo, ed adoperando maggiori forze, gran parte delle repubbliche d'Italia non respinsero l'autorit? imperiale, che per cadere sotto il giogo della tirannia. L'illimitato potere dei capi di parte, fatti sovrani, subentr? in molte citt? al legittimo e moderato potere del monarca costituzionale.
Ad ogni modo qualunque siano state le segrete pratiche di Gregorio per determinare Enrico alla ribellione, quando in sul cominciare del susseguente anno Federico part? per recarsi in Germania onde ricondurre suo figlio al dovere, il papa assecond? gli sforzi dell'imperatore, scrivendo ai prelati della Germania per esortarli a non favorire il ribelle. Federico attravers? l'Adriatico da Rimini ad Aquilea, ed entr? senz'armata in Germania, assicurato da tutti i principi dell'Impero della loro fedelt?. Lo stesso Enrico si vide costretto a domandar grazia, e venuto a Worms a gettarsi al piedi del padre, il quale lo mand? prigioniero in Puglia dopo di averlo dichiarato decaduto dalla corona di Germania. Questo giovane principe, la di cui istoria ? coperta d'impenetrabili oscurit?, non sort? pi? di prigione, ove mor? pochi anni dopo. Attestano alcuni ch'egli si merit? questa perpetua prigionia con nuovi attentati; altri danno colpa a Federico d'aver trattato il figliuolo con eccessivo rigore.
Alberico conserv? lungo tempo la pi? alta influenza sulla repubblica di Treviso; ma siccome egli aveva strascinata questa citt? a dividere il suo odio contro i signori da Camino, i pi? potenti gentiluomini guelfi del territorio, questi si posero sotto la protezione della citt? di Padova, una delle principali della lega lombarda, dichiarandosi suoi cittadini; e col suo appoggio forzarono finalmente i Trevigiani a rinunciare alla parte ghibellina per unirsi alla guelfa. Ezelino ebbe pi? costante il favore della sorte: la citt? di Verona era governata da un senato composto di ottanta consiglieri scelti tra la nobilt? che si rinnovavano ogni anno; e l'elezione del 1225 fu in modo favorevole ai signori da Romano, che i Montecchi ne approfittarono per eccitare una sedizione, col favore della quale cacciarono di citt? Riccardo, conte di san Bonifacio, capo del partito guelfo. Il senato, dominato dal partito ghibellino, affid? ad Ezelino i poteri di podest? col nuovo titolo di capitano del popolo. Dopo tale epoca la repubblica si govern? sotto l'influenza del signore da Romano, quantunque per lungo tempo ancora Ezelino fosse abbastanza avveduto per non cambiare le forme della sua amministrazione. Soltanto del 1236 egli persuase i Veronesi a ricevere nella loro citt? guarnigione imperiale sotto pretesto di rendere pi? sicuro il partito ghibellino. Queste truppe, poste da Federico sotto gli ordini d'Ezelino, giovarono maravigliosamente a consolidarne il potere.
Le citt? di Cremona, Parma, Modena e Reggio eransi da lungo tempo gi? dichiarate per la parte ghibellina, avevano abbracciata l'alleanza di Ezelino, e con lui formavano una federazione opposta alla lega lombarda; per cui trovavasi questa divisa in tre parti senza sicura comunicazione: cio? da una parte Milano, Brescia, Piacenza e le meno importanti citt? del Piemonte; dall'altra Bologna colle citt? della Romagna, e finalmente nella Marca, Padova, Treviso e Vicenza. Se le due comuni di Mantova e Ferrara, la prima delle quali era influenzata dal conte di san Bonifacio, l'altra dal marchese d'Este, si mantenevano fedeli alla lega, avrebbero assicurata la comunicazione tra le sparse membra, che tanto importava di riunire; ma la costituzione delle repubbliche della Marca e di qualunque altra, ove un capo di parte poteva acquistare molta influenza, non era propria a guarentire la stabilit? dei consigli, o la costanza dei cittadini.
Niun altro governo offre la storia, che abbia pi? delle aristocrazie ben costituite dato prove di maraviglioso coraggio e d'irremovibile costanza. Il senato di Sparta, quelli di Roma e di Venezia sostennero sempre l'avversa fortuna con pi? nobilit? che non fecero mai le assemblee popolari di Atene o di Firenze. Un governo aristocratico, forse con pregiudizio del resto della nazione, giugne ad innalzare l'anima d'una classe privilegiata: ma ci? non si ottiene che assicurando a questa classe dominante tutti i vantaggi della libert?, e tutti ancora quegli affatto illusorj dell'eguaglianza, che pi? degli altri abbagliano l'immaginazione. Uomini che, senza regnare, possono vantare non esservi nell'umana razza un solo uomo loro superiore; uomini che al di sopra di s? medesimi non vedono che l'Essere degli Esseri, e la regola delle leggi immutabili e astratte al pari di esso; questi uomini sentono pi? di tutt'altri il sentimento dell'umana fierezza, e sono capaci di forza straordinaria, di grandi sagrificj, di grandi virt?. L'emulazione tra gli eguali innalza il loro spirito; n? l'obbedienza che li rende degni del comando, n? il comando che li prepara all'ubbidienza, gli avvilisce giammai.
Ma quanto possono essere grandi i nobili, tutti fra di loro eguali, d'una ben costituita aristocrazia, altrettanto piccoli sono d'ordinario i nobili della seconda classe in uno stato oligarchico. La nascita pu? bene dar loro un titolo al disprezzo dei loro inferiori, ma non ad essere superbi della propria indipendenza, perch? anch'essi soggetti ad altri. Piccoli tiranni ne' proprj castelli, e vili cortigiani presso i nobili di primo ordine, hanno tutti i vizj dei despoti, e la vilt? degli schiavi; e non riconoscono le distinzioni della nascita che per abbassare s? ed i loro subalterni al di sotto dell'umana dignit?.
Da una tale oligarchia erano in allora governate le repubbliche della Marca Trivigiana: la loro costituzione ammetteva la nobilt?, ma non era fatta per la nobilt?; perciocch? la possanza di alcuni nobili non era proporzionata n? con quella degli altri, n? con quella del rimanente dello stato. Nondimeno i potenti cercarono sempre di conciliare l'onore colla subordinazione; si studiarono di nascondere la vergogna attaccata alla condizione di loro soggetti; e per traviare l'opinione, fecero credere che l'intero abbandono di s? medesimi al servigio altrui avesse in s? qualche cosa di veramente cavalleresco. I nobili nelle monarchie, i gentiluomini di second'ordine nelle oligarchie mal conformate, riputarono perci? sempre gloriosa cosa il sagrificarsi per il padrone, quasi che il solo nome di padrone non fosse un obbrobrio per colui che ubbidisce. Ogni citt? della Marca aveva tra i suoi cittadini qualche signore feudale potente quasi al paro della stessa citt?; tutti gli altri gentiluomini poi, deboli isolatamente in faccia alla nazione, che per altro disprezzavano, brigavano il favore di questo nobile pi? potente, siccome cosa di loro gloria. Di qui aveva origine la debolezza di tutti i consigli, l'incertezza delle parti, ed il costante sacrificio del pubblico al privato interesse.
Federico II, cedendo alle istanze di Ezelino da Romano entr? in Italia per la valle Trentina, e giunse in Verona il 16 agosto del 1286 con tre mila cavalli tedeschi. Dopo avere ingrossata la sua armata col partito de' Montecchi diretto da Ezelino, s'innoltr? al di l? del Mincio. Le truppe di Cremona, Pavia, Modena e Reggio lo stavano col? aspettando. Con s? ragguardevole ajuto entr? ne' distretti di Mantova e di Brescia, che pose a fuoco ed a sangue.
La citt? di Padova, la pi? potente delle tre repubbliche guelfe della Marca Trivigiana, ed a cui era appoggiata in questo lato la sorte della lega, governavasi in allora da un monaco don Giordano, priore di san Benedetto, risguardato qual santo, e che sapeva, colle sue prediche, riscaldare il coraggio de' cittadini: il podest? era Ramberto Ghisilieri di Bologna; come lo era di Vicenza il marchese d'Este. I due comuni formarono di concerto l'ardito progetto d'attaccare il distretto di Verona mentre Ezelino si trovava coll'imperatore: ma avvertito Federico dell'avvicinarsi della loro armata, si port? sopra Vicenza con tanta speditezza, che giunse inaspettato fino alle porte della citt? prima che il marchese d'Este ed i Padovani potessero darle soccorso. I Vicentini atterriti, e trovandosi privi de' pi? bravi loro soldati ch'erano all'armata, posero una debole resistenza: le loro porte furono atterrate, la citt? saccheggiata, i cittadini incatenati senza distinzione; e lo stesso storico Gerardo Maurisio, quantunque venduto ad Ezelino ed ai Ghibellini, fu tre giorni strascinato quasi nudo per le strade dai Tedeschi che gli avevano saccheggiata la casa. Perdette allora tutti i suoi beni, e perfino i suoi libri, che non pot? in seguito riavere che coi soccorsi ottenuti dagli amici.
La fuga de' principali nobili accrebbe lo scoraggiamento del popolo, il quale andava ripetendo nelle pubbliche piazze che una citt? abbandonata dai pi? ragguardevoli cittadini dev'essere come una nave in bal?a dei venti; che in tal modo non governavasi Venezia, la sola delle citt? italiane in cui i nobili ed il popolo non avessero separati interessi. Per dare soddisfacimento ai gentiluomini e riavvicinare i due partiti, l'assemblea del popolo destitu? il podest? Ghisilieri nominando in sua vece Marino, dell'illustre famiglia de' Badoeri di Venezia; ma mentre i Padovani ondeggiavano irresoluti, il marchese d'Este fece separata pace coll'imperatore e con Ezelino, per cui duecento soldati padovani che custodivano varie rocche, furono fatti prigionieri. Invano Marino Badoero alla testa delle milizie della citt? rispingeva il 23 febbrajo Ezelino e gl'imperiali che volevano far l'assedio di Padova, che anche questo nuovo podest? fu forzato di ritirarsi. I gentiluomini ghibellini, poi ch'ebbero ripigliata l'amministrazione del comune, s'affrettarono di mandare deputati ad Ezelino, offrendogli di riceverlo in citt?, che dichiaravano sottomessa all'imperatore, a condizione che le fosse guarentito il godimento della sua libert?, e liberati senza taglia tutti i prigionieri. Ezelino non curavasi delle condizioni, purch? in qualunque modo ottenesse d'entrare in Padova, gi? destinata capitale de' suoi nuovi dominj. Si not? che quando ne prese il possesso alla testa delle truppe imperiali, curvatosi sul suo palafreno, e gettato indietro il caschetto di ferro, baci? le porte della citt?: n? questo era certo il pegno della sua riconciliazione cogli uomini che allora si erano a lui sottomessi.
Credevasi dai pi? che Ezelino avrebbe accettata la carica di podest?; ma convien dire che incominciasse a risguardarla come al di sotto delle nuove sue pretensioni. Incaricato da un consiglio, affatto ligio al suo volere, di scegliere questo magistrato, ricus? da prima, con finta modestia, di farlo a nome di tutto il popolo; poi cedendo alle comuni istanze, indic? il conte di Teatino, napoletano, uomo a lui subordinato. Fece in appresso ordinare dalle tre repubbliche di Padova, Vicenza e Verona, che, per la sicurezza del partito ghibellino, prenderebbero al loro soldo delle truppe dell'imperatore, cio? cento Tedeschi e trecento Saraceni. In tal guisa egli s'assicur? d'una gran guardia sempre armata, e che solo dipendeva da lui.
Intanto molti Guelfi eransi chiusi nel castello di Montagnana, ch'essi avevano afforzato; i quali pretendevano di essere i legittimi rappresentanti del comune di Padova, perch? erano i soli rimasti indipendenti dal tiranno. Attaccati da Ezelino, lo respinsero gagliardamente, quantunque combattessero sotto i suoi ordini molti soldati tedeschi e saraceni: ma egli seppe giovarsi di questa resistenza per assodare il suo potere in Padova. Il podest? chiese ostaggi alle famiglie de' gentiluomini e de' cittadini che sapevansi favorevoli al partito guelfo; in appresso adun?, senza distinzione di partito, le pi? potenti persone della citt?, e quelle che potevano avere maggiore influenza sui loro concittadini, e preg? tutti a dare una prova del loro amore per la pace, e della loro sommissione all'imperatore, allontanandosi soltanto per pochi giorni dalla citt?; assicurandoli in pari tempo essere questa l'unica via di smentire le calunniose voci che s'andavano spargendo sul conto loro, alle quali voci per altro egli non dava alcuna fede. In fatti circa venti de' pi? illustri cittadini di Padova ritiraronsi a Fontaniva, a Carturio, a Cittadella ed in altri castelli loro indicati da Ezelino, e tutti vicini alle sue terre. Pochi giorni dopo, senza che nulla se ne sapesse in Padova, li fece tutti sostenere e chiudere nelle proprie fortezze o in quelle del regno di Napoli. Quando si seppe la cosa in Padova, molti cittadini risolsero di sottrarsi colla fuga alla crescente tirannia; ma ogni volta ch'Ezelino veniva avvisato della fuga di una famiglia, ne faceva abbattere le torri e smantellare le case. Scrive Rolandino, che in sul finire del dominio di questo tiranno pi? della met? de' palazzi di Padova altro non erano che un mucchio di rovine.
Ezelino teneva gli occhi aperti per impedire ogni tumulto popolare, che in poche ore avrebbe potuto annientare la sua potenza. Egli non si conteneva dall'aggravare il giogo, avendo solamente riguardo di non farlo in modo che, eccitando tutto ad un tratto lo sdegno del popolo, non gli si porgesse occasione di prendere le armi.
Il priore di san Benedetto, don Giordano, che da quel pulpito, su cui predicava ai cristiani, aveva lungo tempo governata la repubblica, trovavasi in citt? e poteva ad ogni istante illuminare il popolo sulle pratiche di Ezelino. Il tiranno non trascurava in ogni occasione di mostrare il pi? profondo rispetto per questo ecclesiastico. Un giorno gli mand? alcuni suoi cavalieri, pregandolo da sua parte a venire a palazzo per consigliarlo intorno ad un affare di somma importanza. Il priore li segu?, e montato sopra un cavallo che lo aspettava alla porta, venne condotto al castello d'Ezelino, ove rimase lungo tempo prigione. Intanto tutti i pi? valorosi cittadini padovani dovettero ascriversi alla sua milizia; ed in tal modo le loro braccia ed il loro coraggio servirono di sostegno a quella tirannia ch'essi avrebbero potuto rovesciare.
L'imperatore entr? in seguito nel distretto di Brescia, e dopo quindici giorni d'assedio prese Montechiari ed alcuni altri castelli di minore importanza; poi s'avanz? al mezzogiorno di Brescia in quella parte del suo territorio che l'Oglio divide dal distretto di Cremona. I Milanesi cogli ausiliari di Vercelli, d'Alessandria e di Novara eransi accampati presso Manerbio, ov'erano coperti da un piccolo fiume e da una palude; perch? vedendo l'imperatore di non poterli vantaggiosamente attaccare in tale posizione, n? obbligarli ad abbandonarla, marci? lungo l'Oglio fino a Pontevico, ove pass? il fiume, dando voce che andava a prendere i quartieri d'inverno a Cremona, e che col? licenzierebbe le sue truppe fino all'aprirsi della nuova stagione.
Nulladimeno questa compagnia, solo avanzo d'un'armata distrutta, non poteva sperare di sostenere una seconda battaglia all'indomani, che Federico non avrebbe mancato di dare. La strada di Milano che attraversa il Cremasco, era gi? presa dalle truppe imperiali; conveniva dunque rimontare l'Oglio fino al distretto di Bergamo, che l'armata aveva prima attraversato per entrare nello stato di Brescia. Riflettendo che in cos? avanzata stagione il terreno reso molle dalle piogge avrebbe ritardata la marcia del Carroccio, i bravi Milanesi risolsero di spogliarlo essi medesimi di tutti i suoi ornamenti, ed in tale stato abbandonatolo tra i carri del bagaglio, si misero in cammino nel cuore della notte. Federico, fatto giorno, non tent? pure d'inseguirli, ma scoperto il Carroccio tra i carri abbandonati, lo fece trionfalmente condurre a Cremona come nobile testimonio della sua vittoria; e poco dopo lo mand? al senato ed al popolo romano con sue lettere che ci sono state conservate, nelle quali egli magnifica questo glorioso avvenimento. Il Carroccio venne collocato in un ricinto del Campidoglio, ove fino al 1727 veniva indicato da un monumento in marmo.
Speravano i fuggitivi milanesi d'essere in luogo di sicurezza tostoch? giugnessero nel distretto bergamasco; ma i Bergamaschi che in principio della guerra avevano domandato di starsi neutrali, si dichiararono contro i vinti quando conobbero la sorte della battaglia. Molti Milanesi furono nella loro fuga imprigionati o trucidati; altri in maggior numero sarebbero infallibilmente periti, se Pagano della Torre, signore della Valsassina, non veniva incontro ai fuggiaschi, e non li accoglieva ne' suoi feudi facendoli passare per le gole del suo dominio. Egli fece curare i feriti, e provvide ai bisogni di tutti; e quando gli parve tempo, li accompagn? egli medesimo fino nel loro territorio. Quest'atto di benificenza fu la prima cagione della grandezza della sua casa. Il popolo di Milano si mostr? lungo tempo riconoscente, e pose in compromesso la sua libert? piuttosto che parere ingrato verso di cos? nobile famiglia.
Diverse sono le opinioni degli storici intorno alla perdita sofferta dai Milanesi in questa fatale giornata. I loro scrittori la portano a due in tre mila uomini tra morti e feriti; le lettere dell'imperatore ne contano dieci mila. Pietro Tiepolo, figliuolo del doge di Venezia e podest? di Milano, cadde anch'egli in potere degl'imperiali; e Federico con una barbarie affatto impolitica, dopo averlo fatto strascinare in diverse prigioni della Puglia, lo fece morire sopra un palco. La repubblica di Venezia pi? non seppe perdonare all'imperatore questa crudele offesa, e dopo tale epoca si un? alla lega lombarda, cui per lo innanzi erasi rifiutata di prender parte.
Federico prese i suoi quartieri d'inverno a Cremona, ma per non rimanere ozioso tutto quell'inverno, visit? Lodi e Pavia, che, quantunque sempre fedeli al partito imperiale, non avevano fin ora osato di prendere a suo favore le armi per timore della soverchiante potenza de' Milanesi. Pass? da Pavia a Vercelli, che pure ricondusse alla sua ubbidienza; e non ? improbabile che in quel momento di terrore si staccassero dalla lega ed abbracciassero almeno in apparenza le parti ghibelline, anche le altre citt? del Piemonte, cio? Tortona, Alessandria, Novara, Asti, Torino e Susa. E per tal modo la federazione lombarda trovossi ridotta a quattro sole citt?, Milano, Brescia, Piacenza e Bologna, le quali pure non mostravansi aliene dall'entrare in trattati coll'imperatore: ma avendo questi domandato che si sottomettessero senza condizioni all'autorit? imperiale, i loro cittadini gli fecero rispondere che speravano di morire colle armi in mano, piuttosto che coprirsi di tanta infamia.
I primi chiamati a dar prove della loro costanza furono i Bresciani. Federico, cos? consigliato da Ezelino, il 3 agosto circond? Brescia d'assedio colle truppe che aveva raccolte in Germania, ov'erasi recato in primavera: assedio non meno notabile di quelli sostenuti contro Federico Barbarossa da Tortona, Crema, Alessandria e Milano, durante il quale per lo spazio di sessanta giorni n? gli assediati diedero minori prove di coraggio, n? gli assedianti di perseveranza e di crudelt?. L'arte della guerra aveva dopo Federico I fatti notabili progressi, e le macchine adoperate da Klamandrino, ingegnere de' Bresciani, erano assai pi? complicate di quelle che si videro a' tempi della prima guerra lombarda. Ma l'assedio di Brescia non fu circostanziatamente descritto che da Giacomo Malvezzi, storico bresciano, che fioriva in sul cominciare del secolo decimoquinto; e nel suo racconto non troviamo quella perfetta conoscenza de' costumi e de' tempi, che rende interessanti le pi? minute particolarit?, ed esclude ogni sospetto d'invenzione. In questo periodo di tempo i Lombardi non hanno storici coetanei, onde siamo costretti di passare rapidamente sugli avvenimenti loro, e di cercare la descrizione dei costumi e degli uomini nelle storie della Marca Trivigiana, che furono dettate da coloro ch'ebbero parte, o furono testimonj delle cose col? accadute.
In ottobre, vedendo Federico che l'assedio progrediva troppo lentamente, e che i Milanesi, trovandosi la sua armata tutta intorno a Brescia, ne approfittavano per battere a ritaglio i Ghibellini di Pavia e di Lodi, risolse di abbruciare le sue macchine e di ritirarsi a Cremona. Questa prima perdita, che si risguard? come una prova della debolezza del partito imperiale, ravviv? il coraggio delle citt? guelfe, e procacci? loro nuove alleanze. Il papa, dichiarossi loro protettore, e Venezia e Genova stipularono un trattato d'alleanza col papa e colle citt? della lega contro l'imperatore, i di cui ambasciatori dovettero partire da Genova senza ricevere il giuramento di fedelt?, che Federico chiedeva a quella repubblica.
Intanto nella Marca Trivigiana erasi riaccesa la guerra tra Ezelino ed il marchese d'Este. Il primo, spalleggiato dalle milizie delle tre pi? potenti citt? della Marca, aveva omai spogliato il marchese di tutte le sue fortezze, e forzatolo a chiudersi in Rovigo: ma per quanto si trovasse Ezelino avanzato nel favore di Federico, non ottenne per? mai che questa privata contesa si risguardasse come una guerra dell'Impero. Anzi quando Federico venne a Padova, ove soggiorn? gran parte dell'inverno, invit? alla sua corte il marchese, e di? segno di volerlo riconciliare con Ezelino. Fece fare solenni nozze tra Rinaldo figlio del marchese, ed Adelaide figliuola d'Alberico da Romano, com'era stato progettato da frate Giovanni da Vicenza; e parve avere divisa la sua confidenza fra i due capi dell'opposto partito. Nondimeno Ezelino faceva dalle sue spie osservare coloro che frequentavano la casa del marchese, i quali furono altrettante vittime destinate al supplicio dopo la partenza dell'imperatore.
Perch? di que' tempi costumavasi anche nelle dicerie profane di cominciare con un testo. Pietro delle Vigne, applicando il suo all'imperatore, dichiar? in suo nome, che s'egli si fosse meritata la sentenza di scomunica, non sarebbesi rifiutato di confessare il suo fallo avanti al popolo, e di sottomettersi al giudizio della Chiesa; ma chiamando lo stesso popolo testimonio dell'ingiusto procedere del pontefice, e passando in rivista le allegazioni cui appoggiavasi la scomunica, si studi? di provarne la falsit?.
Il papa, dopo aver rimproverato a Federico la sua empiet? ed incredulit?, entrando nei particolari, lo accusava d'avere in Roma suscitate ribellioni contro la santa sede, d'avere oppresso il clero e perseguitati gli ordini mendicanti ne' suoi dominj, d'avere spogliate le mense vescovili delle loro entrate, e finalmente d'avere occupato terre e stati, dipendenti unicamente dalla Chiesa.
Trattanto l'imperatore aveva condotta la sua armata nel territorio di Bologna, ove consum? parecchi mesi nell'assedio di alcune rocche: di dove si volse contro i Milanesi senza ottenere verun decisivo vantaggio. L'infelice esito dell'assedio di Brescia non era la sola causa dello scoraggiamento di Federico, e della guerra debolmente tratta in Lombardia. Questo principe dava fede alle predizioni degli indovini ed ai calcoli dell'astrologia giudiziaria, non movendo mai la sua armata se prima un astrologo non aveva determinato il preciso istante della partenza dietro accurata osservazione delle stelle. Allorch?, avvisato della ribellione di Treviso, disponevasi alla marcia per sottometterla, un eclissi del sole lo rimosse dall'impresa. Forse un egual motivo lo consigli? ad abbandonare la Lombardia per isvernare in Toscana; e forse credette a ragione che gli si convenisse di avvicinarsi ai suoi stati delle due Sicilie, ed alla corte di Roma.
Egli fiss? il suo soggiorno in Pisa, citt? che godendo d'una intera libert? sotto la protezione imperiale, abbracciava caldamente tutti gl'interessi della casa di Svevia. Nuovi semi di discordia incominciavano a dividere quegli abitanti, che all'imperatore importava troppo di spegnere in sul loro nascere, perch? aveva bisogno di opporre le flotte pisane a quelle delle repubbliche di Genova e di Venezia sue nuove nemiche. Il possesso della Sardegna era la cagione principale delle fresche discordie.
Nel 1237.
Poich? si ebbe a Pisa sentore di questo trattato tanto pregiudicievole alla repubblica, l'indignazione fu universale. I conti della Gherardesca furono i primi a protestare contro la defezione di Ubaldo; e tutto il casato de' Visconti si credette obbligato a sostenere il suo capo: e perch? questo capo aveva contratta alleanza col papa, abbracci? in corpo le parti della Chiesa, mentre i Gherardeschi si strinsero sempre pi? a quelle dell'Impero. L'opposizione fra il titolo di Conti e il nome di Visconti, che distingueva le due famiglie rivali, pass? alle due fazioni. Quindi in Pisa chiamaronsi i Ghibellini la parte dei Conti, ed i Guelfi quella dei Visconti. L'un partito e l'altro presero le armi e si fecero un'accanita guerra finch? la presenza di Federico ristabil? la pace.
In questo frattempo essendo morto Ubaldo Visconti, Federico fece sposare la sua vedova ad Enrico o Enzio, uno de' suoi figli naturali, dandogli il titolo di re di Sardegna, senza pregiudizio per? dei diritti che aveva sull'isola la repubblica di Pisa, e per quanto sembra, senza che Enzio visitasse mai il suo regno. Invece di spedirlo in Sardegna, lo cre? vicario imperiale in Lombardia, affidandogli il comando delle truppe allemanne e saracene per rinnovare la guerra contro i Milanesi.
Federico che aveva approfittato dell'inverno per rappacificare Pisa, per formare una nuova armata, e ravvivare lo zelo de' suoi partigiani, tostoch? la stagione permise di trar fuori le truppe, invase il dominio della Chiesa, e si avvicin? a Roma. Molte citt? dell'Umbria, tra le quali Foligno e Viterbo, si dichiararono per il partito dell'imperatore; ed in seguito gli aprirono le porte, Orta, Citt? Castellana, Sutri e Montefiascone. Gli stessi Romani sembravano proclivi ad abbracciare la causa di Federico; quando Gregorio, avvisato del vicino suo pericolo dalle grida del popolo, facendosi precedere dal legno della vera croce e dalle teste degli apostoli Pietro e Paolo, sort? in processione dal suo palazzo, accompagnato da tutti i cardinali, e trasport? queste reliquie alla basilica vaticana, benedicendo la gente che si affollava sul suo passaggio, ed invitandola a prendere le armi per difendere la Chiesa. Cos? imponente processione attravers? Roma in tutta la sua lunghezza, sedando dovunque recavasi i movimenti de' Ghibellini, e riscaldando l'entusiasmo del popolo. Intanto i frati di san Domenico e di san Francesco spargevansi in tutte le chiese e predicavano la crociata contro Federico, pubblicando le stesse indulgenze che prima non erano accordate che ai crociati di Terra santa. I preti, ottenutane la dispensa dal papa, si crociarono e presero le armi prima degli altri, ed in un sol giorno Gregorio adun? sotto i suoi ordini un'armata abbastanza formidabile per non aver pi? timore di tutta la potenza di Federico. Questi, perduta ogni speranza di occupar Roma, si ritir? nella Puglia; ma adontato in modo nel vedere inalberata la croce contro di lui, che condann? alla morte tutti coloro che avevano indosso questo segno di odio contro la sua persona, o di ubbidienza alla Chiesa.
Pare che allora il papa soggiornasse nel palazzo di Laterano, lontano pi? di tre miglia dal Vaticano.
I nemici di Federico non predicavano la crociata per la sola difesa di Roma. In Lombardia un'armata guelfa e crociata, condotta da un legato, assedi? Ferrara, ov'erasi chiuso Salinguerra, capo in questa citt? del partito ghibellino. Questo vecchio ottuagenario che aveva lungo tempo difesa la sua patria, venne imprigionato a tradimento in una conferenza, e mandato a Venezia, ove mor? cinque anni dopo in carcere. La citt? di Ferrara che da molti anni sacrificava la sua libert? allo spirito di partito, dopo aver ubbidito al capo dei Ghibellini Salinguerra, pi? come a principe che come a cittadino, accord? lo stesso potere al marchese d'Este capo della parte guelfa. Vent'anni pi? tardi i nobili di Ferrara trasmisero la sovranit? al figlio del marchese con questa strana formola, <
Frattanto, a seconda degl'inviti di Gregorio, i prelati francesi eransi recati a Nizza, ove furono ricevuti da due cardinali legati del papa, il quale aveva loro fatta allestire a Genova una flotta di ventisette galere per trasportarli per mare fino alle foci del Tevere. La repubblica di Genova erasi a quest'epoca cos? caldamente impegnata nel partito della Chiesa, che mentre era costretta di battersi alle frontiere della Liguria col marchese Pelavicino e Martino d'Eboli, che gli avevano mossa guerra in nome dell'imperatore; mentre il suo podest? conteneva nell'interno le famiglie ghibelline dei Doria, degli Spinola e dei Volta, essa mandava a Nizza le sue galere a prendere i prelati che andavano al concilio. Invano gli ambasciatori Pisani giunsero in marzo a Genova per rimuovere que' cittadini da tale spedizione: invano, ammessi in consiglio, rappresentarono, che l'alleanza contratta coll'imperatore obbligava i Pisani ad opporsi al viaggio de' prelati, e ad attaccarli ovunque li trovassero; fu loro risposto che la repubblica di Genova, essendosi dedicata ai servigi del papa, non lascerebbe per verun titolo di difendere con tutte le sue forze la libert? della Chiesa e la fede cristiana, e di proteggere i prelati cristiani, ai quali aveva promessa la sua assistenza.
In fatti non fu appena repressa una sedizione eccitata nella citt? dal partito ghibellino, che la flotta genovese, gi? di ritorno da Nizza, ripart? alla volta di Ostia sotto la condotta di Giacomo Malocello, portando a bordo molti vescovi francesi. Intanto Federico aveva fatti armare in Sicilia tutti i suoi bastimenti da guerra, i quali si unirono in Pisa alle galere della repubblica, delle quali aveva il comando il conte Ugolino Buzzacherino, cittadino pisano, della famiglia Sismondi, come le navi di Federico erano sotto gli ordini di Enzio suo figliuolo. La flotta ghibellina si pose tra la Meloria e l'isola del Giglio, ove il giorno tre di maggio si vide a fronte la flotta genovese, che, quantunque alquanto inferiore di forze, non rifiut? l'incontro. La battaglia fu lunga ed accanita, ma i Ghibellini riportarono infine la pi? completa vittoria. Di ventisette galere genovesi tre colarono a fondo, e diecinove furono prese, restando prigionieri quattro mila Genovesi, i due cardinali, i vescovi e deputati al consiglio: i primi furono condotti in Sicilia, gli altri a Pisa, ove vennero chiusi nel capitolo della cattedrale e caricati di catene d'argento per testificar loro anche nella cattivit? qualche sorta di rispetto. Immenso fu il bottino dai vincitori trasportato in citt?, dicendosi che il denaro si divise collo stajo tra i Pisani ed i Napoletani.
La disfatta della flotta guelfa si pubblic? da Federico come un manifesto giudizio della provvidenza in suo favore. Pure i Genovesi che non avevano mai avuta una cos? terribile rotta, e che inoltre furono subito dopo attaccati dai Ghibellini per terra e per mare, non si avvilirono punto, e furono i primi a mandare conforti al papa sull'infortunio de' prelati, scongiurandolo a sostenere coraggiosamente la libert? della Chiesa. <
La lettera viene riportata per disteso dal Raynaldo all'anno 1241. ? 60 e 63. ? scritta in nome di Guglielmo Sordo podest?, e del consiglio e comune genovese.
Intanto il papa scriveva ai sovrani del cristianesimo per interessarli a suo favore, come ai prelati prigionieri per consolarli nel loro infortunio; ed in pari tempo non trascurava la difesa di Roma e del suo territorio contro un nuovo attacco di Federico, che essendosi guadagnato nel sacro collegio Giovanni Colonna, cardinale di santa Prassede, aveva col suo mezzo fatti ribellare alla santa sede i feudi di Colonna, Lagosta, Preneste, Monticello, ec., mentre occupava colle armi Tivoli, Alba e Grottaferrata. Ma il vecchio pontefice non pot? sopportare tanti travagli, e mor? in Roma il 21 agosto del 1241, tre mesi e mezzo dopo la fatale rotta della flotta de' suoi alleati.
Dopo la morte di Gregorio, la sede pontificia vac? quasi due anni; perch? appena pu? risguardarsi come un interrompimento dell'interregno il pontificato di Celestino IV, milanese, prima chiamato Goffredo da Castiglione, il quale non sopravvisse che dieciotto giorni all'elezione. Il sacro collegio trovavasi ridotto a pochissimi cardinali: dieci soltanto intervennero all'elezione di Celestino IV, e non pi? di sei o sette potevano entrare in conclave dopo la sua morte. E perch? per essere uno eletto papa deve avere in suo favore due terzi dei suffragi, bastava a Federico d'avere tre partigiani tra i cardinali per impedire ogni elezione che non fosse di suo aggradimento: talch? dopo cos? accanita guerra riusciva quasi impossibile agli elettori il mettersi d'accordo. Del resto Federico ascrive ad altre non meno verosimili cagioni la loro irresolutezza: il loro piccol numero li avvicinava tutti in maniera al trono pontificio, che niuno di loro sapeva rinunciare alla speranza di occuparlo. Per metterli d'accordo, l'imperatore loro rimproverava nelle sue lettere il torto che facevano alla Chiesa, e queste lettere erano tali che giammai altro principe non ne aveva scritte di simili ad un conclave. <> Questa lettera ? probabilmente posteriore alle negoziazioni per un trattato di pace, che Federico intavol? senza effetto colla Chiesa. Quando conobbe di non potersi appacificare colla Chiesa, nemmeno quand'era senza capo, fece ricominciare le sospese ostilit? nella campagna di Roma. Intanto pi? occupato del grand'affare dell'elezione del nuovo papa che della sommissione della lega lombarda, la lasci? molti anni in pace, o a dir meglio l'abbandon? alle dissensioni di cui aveva in se medesima i semi.
La potenza di alcuni gentiluomini che eransi usurpati la tirannide nella loro patria o nelle vicine citt?, moveva l'ambizione di tutti gli altri. Treviso era soggetto ad Alberico da Romano; Padova, Vicenza, Verona a suo fratello Ezelino; Ferrara al marchese d'Este; Mantova al conte di san Bonifacio, e Ravenna aveva lungo tempo ubbidito a Paolo Traversari. Tale era il furore delle fazioni, che all'esaltamento di una famiglia doleva assai pi? la caduta del partito guelfo o ghibellino, che la perdita della libert?. I nobili potenti speravano che le repubbliche che tuttavia duravano, sarebbero un giorno o l'altro loro preda; ed i nobili di second'ordine avevano la vilt? di accontentarsi delle cariche che il favore de' nuovi principi lasciava loro sperare. In quella citt? per altro ove i nobili erano pi? eguali, quest'ordine procurava non gi? di darsi un padrone, ma di ristringere l'oligarchia e di allontanare affatto il popolo dal governo. La discordia tra i patrizj ed i plebei si manifest? in Milano l'anno 1240. Pretendevano i primi di far rivivere l'antica legge de' Lombardi, che limitava il compensamento di un omicidio ad una piccola somma di danaro, cio? a sette lire e dodici soldi di terzuoli. Il popolo risguardava questa legge come fatta contro di lui, e come quella che metteva a troppo vil prezzo il capo di un plebeo. Lagnavasi inoltre, perch? ne' tempi in cui la repubblica andava soggetta a spese considerabili, i nobili si liberavano da qualunque imposta ritirandosi ne' loro castelli; e perch?, malgrado le fresche leggi che dividevano con perfetta eguaglianza tra i due ordini le magistrature dello stato, e le dignit? della chiesa, i nobili soli ne usurpassero tutte le cariche. Onde per sottrarsi ad un giogo che diventava ogni giorno sempre pi? insopportabile, il popolo risolse di eleggere un protettore; e Pagano della Torre, signore della Valsassina, che aveva, dopo la rotta di Cortenova, salvata parte dell'armata milanese, parve l'uomo pi? degno di occupare questa carica. E per tal modo mentre il popolo attaccava i privilegi della nobilt?, non rinunciava al vantaggio che un'illustre nascita poteva dare alla sua causa, e sceglieva un nobile per tribuno della democrazia.
Dietro il peso della moneta milanese, di cui devo la notizia alla gentilezza del conte Luigi Castiglione; io valuto la lira di terzuoli di quel tempo a quindici franchi tornesi, ossia sette lire e dodici soldi a lir. 114 di Francia.
Dall'altra banda i gentiluomini milanesi scelsero per loro capo un uomo straordinario, Leone di Perego, frate eloquente dell'ordine de' Francescani, che di que' tempi, secondo raccontano quasi tutti gli storici, si era da s? medesimo eletto arcivescovo, valendosi della piena facolt? che gli aveva dato il capitolo di scegliere un nuovo prelato, siccome ad uomo di provata santit? ed alieno da pensieri ambiziosi. Frate Leone da quest'epoca in poi abbracci? i pregiudizj dell'aristocrazia con quella violenza di cui era capace la sua anima di fuoco, comunic? tutta la sua energia al proprio partito, e lo sostenne in mezzo alle disgrazie colla sola forza del suo carattere.
Indipendentemente dalle discordie civili, l'animosit? delle citt?, le une contro le altre, bastava per tener viva la guerra in tutta la Lombardia, senza che l'imperatore vi prendesse parte. Ma i piccoli vantaggi ottenuti dai Milanesi contro i Pavesi, dai Bresciani contro i Veronesi, dai Genovesi contro i ribelli di Savona e di Albenga, d'Ezelino contro il marchese d'Este, non possono descriversi minutamente che nelle particolari storie di quelle citt?. Nondimeno questa piccola guerra non fu di leggier vantaggio alla parte guelfa, poich? queste contese furono cagione che si unissero alla lega lombarda i marchesi di Monferrato, del Cerreto e della Ceva, e le citt? di Vercelli e di Novara.
Il 24 giugno.
Malgrado questo pronostico che non tard? a verificarsi, Federico fece ogni sforzo per pacificarsi colla Chiesa col mezzo di questo nuovo pontefice. Per felicitare Innocenzo sul di lui innalzamento al trono pontificio, e per domandare la pace, gli mand? una solenne ambasciata composta de' pi? illustri personaggi de' suoi stati, il suo gran-cancelliere Pietro delle Vigne, il gran maestro dell'ordine teutonico, ed Ansaldo de Mari, grande ammiraglio di Sicilia, concittadino del papa, e come lui appartenente ad una casa ghibellina. Gli fece dire d'essere disposto ad una compiuta sommissione, proponendogli ad un tempo un glorioso parentado per la famiglia del Fiesco, il matrimonio di una nipote del papa per Corrado suo figliuolo ed erede presuntivo. Innocenzo dal canto suo mostravasi desideroso della pace, per cui entr? volentieri a trattarne: ma egli domandava che precedentemente alle concessioni della Chiesa, Federico accordasse la libert? a tutti i suoi prigionieri, e le restituisse le terre conquistate: l'imperatore invece chiedeva che la santa sede desistesse dal proteggere i Lombardi, e richiamasse il legato che predicava tra que' popoli la crociata contro di lui: e perch? niente pot? ottenere dal papa di quanto gli aveva chiesto, assedi? Viterbo ch'erasi di fresco ammutinato.
A quest'epoca Riccardo di san Germano termina la sua storia. Questo scrittore coetaneo indica mese per mese colla pi? scrupolosa esattezza e sufficiente imparzialit? gli avvenimenti del regno delle due Sicilie. La sua lettura non arreca molto piacere, ma istruisce assai; ed io mi sono pi? volte doluto che le repubbliche lombarde non abbiano prodotto in questo secolo alcuno scrittore del suo merito.
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