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Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 03 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde

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Ebook has 427 lines and 120964 words, and 9 pages

A quest'epoca Riccardo di san Germano termina la sua storia. Questo scrittore coetaneo indica mese per mese colla pi? scrupolosa esattezza e sufficiente imparzialit? gli avvenimenti del regno delle due Sicilie. La sua lettura non arreca molto piacere, ma istruisce assai; ed io mi sono pi? volte doluto che le repubbliche lombarde non abbiano prodotto in questo secolo alcuno scrittore del suo merito.

Le negoziazioni si ripresero o continuarono nel susseguente anno, e sapendosi gi? ammessi tutti gli articoli pi? importanti, si sper? vicina la pace. L'imperatore ed il papa perdonavano reciprocamente ai partigiani della Chiesa e dell'Impero le vicendevoli offese fattesi durante la guerra. Federico accettava la mediazione del papa per terminare le precedenti sue dispute coi Lombardi; Innocenzo doveva essere rimesso nel godimento di tutte le terre che la Chiesa possedeva avanti alle prime ostilit?; tutti i prigionieri dovevano essere liberati, ed annullate tutte le confiscazioni. Ma probabilmente il papa non acconsentiva alle concessioni che egli faceva che per acquistar tempo, perch? conosceva quanto pericolosa fosse la sua posizione in Roma; e forse Federico disponevasi a rompere i trattati tostoch? gli si presentasse vantaggiosa opportunit? di farlo, imperciocch? quando ancora duravano, cercava di farsi nuovi partigiani in Roma e nel suo territorio. Egli teneva pratiche coi Frangipani perch? gli cedessero le fortificazioni che avevano innalzate nel Coliseo, ottenendo le quali diventava padrone di una fortezza entro la stessa Roma; onde il papa non vedevasi omai sicuro nella sua stessa capitale, e temeva inoltre d'essere sorpreso dai soldati dell'imperatore quando recavasi nelle citt? del dominio ecclesiastico, Anagni, Citt? castellana, o Sutri. Il giorno sette di giugno erasi portato a Citt? castellana, per dare l'ultima mano, come egli diceva, al trattato di pace; ma infatti perch? aveva alcun tempo prima segretamente spedito a Genova un frate francescano per procurarsi la protezione di questa repubblica sua patria. Il 27 giugno ebbe, stando a Sutri, notizia dell'arrivo di ventidue galere ben armate, che i Genovesi gli avevano mandato a Civita Vecchia; perch? in sul far della notte part? quasi solo a cavallo vestito da soldato, e cammin? con tanta celerit? che appena fatto giorno giugneva in riva al mare, avendo fatto in quella breve notte di estate trentaquattro miglia. Quando poc'ore dopo si sparse in Sutri la notizia della fuga del papa, i suoi partigiani andavano dicendo che Innocenzo aveva avuto avviso dell'avvicinarsi di trecento cavalli toscani, spediti per prenderlo; ed il papa, giunto a Civita Vecchia, diceva lo stesso; quantunque tale racconto mal s'accordasse coll'apparecchio d'una flotta considerabile fatto molto tempo prima per venirlo a prendere a bordo.

Innocenzo trov? sulle galere genovesi lo stesso podest? e tre conti del Fiesco suoi nipoti, venuti ad incontrario. Ogni galera aveva sessanta soldati e centoquattro marinaj d'equipaggio; e tutta la flotta era apparecchiata ad una vigorosa difesa, quando fosse attaccata: ma il podest? riponeva la sua maggior fiducia sul profondo segreto conservatosi intorno a questa spedizione, di cui non aveva avuto notizia che il consiglio di credenza. Trattavasi infatti di attraversare quello stesso mare, ove tre anni avanti erano stati fatti prigionieri i prelati francesi, che a bordo di un'altra flotta genovese andavano al concilio. Federico in questo stesso tempo soggiornava in Pisa, e nel precedente anno i Pisani con ottanta loro galere e cinquantacinque di quelle dell'imperatore erano andati ad insultar Genova. Innocenzo non si trattenne a Civita Vecchia pi? di ventiquattr'ore, per dar tempo ad alcuni cardinali di raggiungerlo, di dove, col favore d'un gagliardo vento favorevole, pass? senza incontrare verun ostacolo tra le isole del Giglio e della Meloria tanto funeste al suo partito, ed arriv? in cinque giorni a Portovenere, e di l? dopo cinque altri giorni entr? trionfante in Genova in mezzo alle acclamazioni de' suoi concittadini: le galere erano pavesate con drappi d'oro, e tutta la citt? partecipava della gioja d'Innocenzo vedendolo fuori di pericolo.

Quando Federico ebbe avviso della fuga del pontefice, e seppe che a Genova non aveva voluto ascoltare il conte di Tolosa che gli aveva mandato con nuove proposte di pace, e che senza trattenersi in Italia s'avviava verso Lione, attribu? ad altra cagione la di lui fuga ed il vicendevole odio. Era stata ordita in Roma una congiura contro la vita dell'imperatore: i frati francescani eransi addossato l'incarico di corrompere i cortigiani del principe e que' signori di cui pi? si fidava. Bench? questi frati fossero banditi dal regno, vi si recavano travestiti per tener vive colpevoli corrispondenze; e quando furono catturati i cospiratori e condannati a morte, tutti asserirono di non aver agito che dietro gli ordini della santa sede. Federico ebbe quest'anno i primi indizj della congiura; e forse era vero che aveva ordinato di fermare lo stesso papa, onde confrontarlo coi colpevoli ch'egli aveva pur dianzi scoperti, allorch? questi si sottrasse colla fuga a tale affronto.

Intanto i vescovi d'Inghilterra, di Francia, di Spagna, ed anche alcuni d'Italia e di Germania, adunavansi a Lione in numero di centoquaranta; ed Innocenzo apr? il concilio nel convento di san Giusto il 28 giugno del 1245. In tale occasione present? al senato della Chiesa il prospetto dei mali cui trovavasi la Chiesa esposta: ed era pur vero che i Latini non eransi ancor trovati in pi? calamitosi tempi. Al nord i Tartari Mogolli avevano invasa la Russia, la Polonia e parte dell'Ungheria. L'Impero dei successori di Zengis che comprendeva di gi? met? della China, la Persia e l'Asia minore, minacciava omai d'ingojare tutta l'Europa. Al mezzogiorno i Carismiani, cacciati dal loro paese dagli stessi Mogolli, eransi resi padroni di Gerusalemme, ed avevano passato a fil di spada la maggior parie dei Cristiani di Terra santa. L'Impero latino di Costantinopoli assalito da Vatace e dai Greci riducevasi alla sola capitale, ed il sovrano di questa citt? mezzo deserta, per sovvenire alla propria miseria, demoliva i palazzi de' suoi predecessori per vendere il piombo ed il rame ond'erano coperti. Gli Occidentali, malgrado il pericolo che loro sovrastava, non potevano unirsi per la difesa della Cristianit?, perch? la guerra tra il papa e l'imperatore non permetteva loro di pensare a pi? lontane spedizioni, e perch? lo zelo per le crociate d'Asia era omai spento, per essere promesse le medesime indulgenze a colui che porterebbe le armi contro il capo dell'Impero o contro i Musulmani; e perch? tutti i predicatori apostolici indicavano di preferenza questa pi? facile strada dell'eterna salute.

Parlando dei pericoli della Chiesa, Innocenzo non si cur? di ricordare le colpe del suo capo; e per lo contrario attribu? a Federico tutte le disgrazie e tutti i delitti, accusandolo di spergiuro, d'eresia, d'empiet? e di scandalosa unione coi Saraceni suoi sussidiarj, stabiliti a Nocera.

Due deputati dell'imperatore, Tadeo di Suessa e Pietro delle Vigne, eransi, d'ordine di Federico, recati al concilio per farne le difese. Per altro il secondo, che aveva in tante altre circostanze date cos? luminose prove della sua capacit?, della sua facondia e del suo zelo, tacque nella presente; e diede col suo silenzio apparente ragione a' suoi emuli per metterlo in disgrazia del sovrano: ma Tadeo di Suessa, escludendo le accuse date a Federico, dichiar? che questo principe non altro aspettava che la sua riconciliazione colla Chiesa per portare le armi contro gl'infedeli; che offriva al concilio tutte le forze del suo Impero, della sua persona, ed i suoi tesori per difesa della fede; e quando Innocenzo gli domand? quai mallevadori potrebbe dare di cos? belle promesse, rispose Tadeo; i pi? potenti di Cristianit?, i re di Francia e d'Inghilterra. Noi non ci curiamo, replic? Innocenzo, d'avere mallevadori gli amici della Chiesa, coi quali ella dovrebbe poi inimicarsi qualunque volta il vostro padrone mancasse, com'? suo costume, alle promesse.

Il giorno 5 di luglio si tenne la seconda sessione del concilio. Innocenzo rinnov? pi? circostanziatamente le sue accuse contro Federico, e Tadeo le confut? nuovamente con non minore eloquenza che coraggio; al rimprovero d'aver violati i trattati colla Chiesa, rispose esaminando ad una ad una le supposte infrazioni; nel quale esame la condotta dello stesso pontefice non and? esente da censura. Con minori risguardi tratt? ancora il vescovo di Catania ed un arcivescovo spagnuolo, che avevano caldamente ridette le accuse del pontefice, dando loro a nome dell'imperatore un'aperta mentita. Finalmente fece noto al papa ed al concilio che Federico era gi? a Torino, disposto di venire a giustificarsi personalmente; e fece calde istanze perch? fosse accordato a questo principe un sufficiente termine per presentarsi all'assemblea. Innocenzo rifiut? l'inchiesta, ed il concilio, ciecamente ligio, approv? la risposta del suo capo. Nonpertanto mosso dalle istanze degli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra, Innocenzo differ? di dodici giorni la seguente sessione, e l'assemblea ader? alla proposta del pontefice. Informando il suo padrone dell'assoluto predominio esercitato dal papa sull'assemblea, Tadeo di Suessa probabilmente lo sconsigli? dal viaggio di Lione, onde Federico non si avanz? oltre Torino. Il 17 di luglio si tenne la terza sessione senza che l'imperatore si presentasse. Incominciando la sessione, Tadeo dichiar? a nome di Federico, che qualunque si fosse la sentenza di un concilio composto di cos? piccolo numero di vescovi, e senza l'intervento de' procuratari de' vescovi assenti, di un concilio al quale la maggior parte de' sovrani d'Europa non avevano mandati ambasciatori, appellava ad un altro pi? solenne e pi? numeroso concilio.

La perseveranza dei papi nel perseguitare un intero secolo tutti i principi della casa di Svevia fino all'epoca in cui l'ultimo rampollo di questa sventurata ed illustre famiglia per? sopra un palco, ? una cosa tanto pi? notabile, in quanto lo spirito del cristianesimo aveva cominciato ad addolcirsi; e le costumanze e le opinioni non riconoscevano pi? la pretesa superiorit? de' papi sul potere temporale. Lo stesso monaco Matteo Paris, che minutamente descrisse le circostanze del processo intentato a Federico avanti al concilio di Lione, assicura che gli assistenti non l'udirono pronunciare senza stupore e raccapriccio. Da una parte i Pauliciani avevano scossa colle loro prediche la credenza dell'infallibilit? papale, specialmente nella Lombardia, ov'eransi moltiplicati assai; e dall'altra il risorgimento delle lettere non era meno contrario alla servit? imposta dalla superstizione. Non si conoscevano allora che tre classi di letterati, giureconsulti, grammatici e poeti, i quali tutti in fatto di religione tenevano opinioni abbastanza liberali; e siccome erano da Federico favoreggiati e protetti, abbracciavano quasi tutti la sua causa contro la santa sede. Tra gli storici coetanei di questo principe o de' suoi figli, molti, e forse i migliori sono apertamente ghibellini. La maggior parte de' gentiluomini che avevano colle azioni loro acquistato qualche diritto alla pubblica opinione, il Salinguerra, i signori da Romano, i marchesi Pelavicino e Lancia, stavano per Federico: la met? delle citt? libere avevano anch'esse abbracciata la medesima causa; e tra queste la potente repubblica di Pisa, che lo ajutava con tutte le sue forze, disprezzava i fulmini del papa per servire l'imperatore. Mentre cos? ragguardevole numero d'Italiani impugnavano il potere de' papi di sciogliere e di legare in terra ed in cielo, fa meraviglia che questi ardissero spingere all'estremo le loro pretese, arrischiando tutto lo stato loro sopra un diritto contestato.

Riccardo di san Germano, Nicola di Jamsilla, Corrado Abate d'Ursperg, Nicola Speciale, Bartolomeo di Neocastro, Gherardo Maurisio, l'autore della cronaca di Ferrara, ec.

Pare che i papi essendosi accorti dei singolari talenti de' principi della casa Sveva, si proponessero di disertarli ad ogni costo, onde imperatori cos? valorosi ed intraprendenti, rinforzati dai rapidi e necessarj progressi delle opinioni gi? in voga, non rivendicassero i diritti di cui la Chiesa gli aveva spogliati, e ristabilissero in Roma la suprema loro autorit?: autorit? che non poteva ripristinarsi senza distruggere l'indipendenza dei papi.

La santa sede entrando in cos? pericoloso conflitto, affidavasi principalmente alla nuova milizia di fresco creata, che non l'abbandon? ne' suoi bisogni; i due ordini de' Francescani e de' Domenicani. Il pi? importante servigio che le rendessero, fu quello di sottometterle completamente i vescovi ed il clero secolare, cambiando l'aristocrazia ecclesiastica in un perfetto despotismo. Cos? adoperando eseguivano il loro voto d'ubbidienza e s'uniformavano allo spirito de' loro fondatori. Avevano essi sull'antico clero il doppio vantaggio del fanatismo e del vigore della giovent? d'una recente istituzione; e con tale superiorit? di forze lo attaccarono e gli tolsero l'affetto dei popoli. I vescovi erano in modo assoggettati, o talmente persuasi della loro debolezza, che i concilj, invece di giudicare i papi, come abbiamo veduto praticarsi nel decimo secolo, e lo vedremo ancora nel quindicesimo, erano diventati nel tredicesimo strumenti passivi nelle mani de' pontefici.

Il secondo servigio reso alla santa sede dagli ordini mendicanti fu quello d'impedire tra il popolo il dilatamento dell'irreligione; imperciocch? agl'increduli che facevano valere nelle loro invettive contro la Chiesa i depravati costumi del clero, opponevano quella austera santit? di vita che da pi? secoli non pi? vedevasi nei grandi prelati. Non dir? gi? che ottenessero di richiamare a meno libere opinioni coloro che la nascente passione dello studio, o lo spirito di partito allontanavano dal cattolicismo; ma se un uomo dava qualche indizio di timorata coscienza, veniva all'istante assediato dai nuovi monaci che se ne impadronivano; e predicandogli come principalissima virt? la cieca ubbidienza alla santa sede, e facendogli vedere i fulmini della Chiesa pendenti sul capo de' Ghibellini, lo forzavano a riconciliarsi colla medesima, a prezzo non poche volte d'un tradimento a danno degli antichi alleati. A ci? si debbono attribuire quelle imprevedute congiure che si videro scoppiare nelle citt? pi? fedeli all'Impero, e quei mali umori che annunziavano i progressi della parte guelfa e l'imminente caduta dei Ghibellini. Nella citt? di Parma, che fino al 1245 erasi mantenuta fedele all'Impero, e che riceveva ogni anno un podest? scelto dall'imperatore, tre delle pi? principali famiglie nobili, i Lupi, i Rossi, i Correggeschi, parenti a dir vero di quella del papa, si dichiararono del partito guelfo e dovettero abbandonare la citt?; e nel susseguente anno altri Guelfi, pretestando di non potere in buona coscienza ubbidire agli ordini dell'imperatore, si ritirarono a Piacenza ed a Milano, ove con Gregorio di Montelungo, legato del papa in Lombardia, ordirono quella trama che diede ben tosto la loro patria alla parte guelfa. Un eguale abbandono del partito ghibellino ebbe luogo in Reggio, per cui, dopo una sanguinosa zuffa, vennero esiliate le famiglie guelfe dei Roberti, dei Fogliani, dei Lupicini.

Non contento il papa di suscitare nemici a Federico nelle citt? lombarde, che incoraggiava a difendere contro di lui la propria libert?, cercava di ribellargli ancora gl'immediati sudditi delle due Sicilie, ai quali spediva due cardinali con lettere dirette al clero, alla nobilt? ed al popolo delle citt? e delle campagne. <>

Un certo che di cos? nobile e liberale spirano i concetti di questa lettera, che ci sforza a rimaner dubbiosi intorno alla giustizia della causa del pontefice e dei Guelfi, ed allo scopo che si proponevano. Ma quand'anche la libert?, e non una licenziosa indipendenza, fosse effettivamente l'oggetto dei Pugliesi e dei Siciliani ribellati, furono certo indegni di cos? nobil causa i modi tenuti per acquistarla; riducendosi a vili cospirazioni, nelle quali presero parte gli antichi amici ed i confidenti di Federico, da loro guadagnati. I due figliuoli del grande giustiziere del Mora, tutti i Sanseverino, tre fratelli della Fasanella, ed altri molti avevano nel 1244 cospirato coi frati minori per assassinare il loro sovrano. Federico, come si disse altrove, aveva, dietro i primi indizj di tale congiura, fatti imprigionare molti frati, nell'istante medesimo in cui il papa fugg? da Roma. Ci? nulla meno la sentenza del Sinodo e l'esortazione dei cardinali legati riaccesero la sopita congiura, che avrebbe facilmente avuto effetto, se il complice Giovanni di Presenzano, scosso dai rimorsi, non palesava il segreto a Federico. Quando seppero imprigionati alcuni de' loro compagni, i del Mora ed i Fasanella si salvarono nello stato del papa, altri s'impadronirono delle rocche di Capaccio e della Scala, ove furono presi dopo lungo assedio. Un solo fanciullo della casa Sanseverino fu salvato da un domestico della famiglia. Quasi tutti i congiurati, condannati a pena capitale, attestarono prima di morire, che il papa era partecipe della loro congiura. L'imperatore dando notizia di questo macchinamento a tutti i re e principi dell'Europa con una lettera circolare, che forse fu l'ultima che scrivesse Pietro delle Vigne, la chiude con queste gravi parole: <>.

Ma la pi? dolorosa perdita di Federico fu quella del suo primo ministro, del suo intimo confidente, del suo amico, Pietro delle Vigne. Ossia che quest'uomo affatto straordinario si fosse macchiato di un tradimento, o che il principe, reso diffidente dalle congiure che ogni giorno si andavano scoprendo, desse troppo facile orecchio alle suggestioni degl'invidiosi cortigiani; o giusta o ingiusta che si fosse la sentenza di Pietro; si dice che Federico esclamasse pi? volte prima di pronunciarla: <>

Pietro delle Vigne era nato a Capoa affatto povero; la passione per lo studio lo aveva condotto all'universit? di Bologna, ov'era costretto di andare elemosinando per vivere, sebbene desse prove di maravigliosi talenti nello studio della legge, dell'eloquenza e della poesia. Condotto accidentalmente innanzi a Federico, ebbe la fortuna di meritarsi in modo la sua stima, che lo tenne in corte, facendolo a bella prima suo segretario; in appresso giudice, consigliere, protonotaro, e partecipe di tutti i suoi segreti. Pietro delle Vigne aveva una maravigliosa arte nello scriver lettere; aggiungendo ad una nobile e dignitosa eloquenza una certa qual forza di ragionamento che convince e persuade. Perci? verun principe avanti che s'inventassero la stampa ed i giornali aveva, come Federico, fatto tanto capitale dell'illusione delle scritture, n? provocato colle sue lettere sopra le proprie azioni la pubblica opinione. N? in ci? solo valevasi l'accorto principe de' talenti di Pietro; abbiamo altrove osservato che approfitt? de' suoi consigli e dell'opera sua per riformare le leggi del regno, e per rianimare lo studio delle scienze e delle lettere; abbiamo veduto che lo incaric? di giustificare la propria condotta innanzi al popolo di Padova contro la sentenza di scomunica pubblicata contro di lui; che lo aveva pi? volte mandato suo deputato al papa, e per ultimo incaricato di trattare la sua causa innanzi al concilio di Lione. Nella quale ultima occasione parve che Pietro mal rispondesse all'antica sua riputazione, conservando un misterioso silenzio, mentre Tadeo di Suessa difese caldamente il suo sovrano.

Dopo tale epoca Pietro delle Vigne non ebbe forse pi? l'intera confidenza di Federico, non trovandolo adoperato in veruna importante occasione, n? meno nello scriver lettere a nome del sovrano; anzi una ne troviamo diretta al medesimo per accertarlo della propria innocenza. ? probabile che, senza abbandonare la corte, non vi avesse pi? quell'opinione che gli aveva dato la confidenza del sovrano; e che soltanto tre anni dopo cedesse alle istigazioni degli emissarj del papa; oppure che i suoi nemici si approfittassero di qualche apparenza per farlo credere a Federico, quantunque non avesse ceduto. Ecco come racconta il fatto Matteo Paris.

<>

Allorch? Federico ebbe notizia della scomunica pronunciata dal Sinodo, non si lasci? punto smuovere, e scrisse a tutti i principi d'Europa per rappresentar loro che il clero, corrotto dalle ricchezze, abusava stranamente del suo potere: scrisse di nuovo al re di Francia per attaccare l'irregolare condotta del papa, e mostrare la nullit? del processo contro di lui intentato, invitandolo a riflettere che potrebbe ben venire la volta loro, quando i sovrani non si unissero a reprimere l'arroganza della corte di Roma. Ma in breve oppresso da spiaceri d'ogni genere, tradito dai suoi pi? cari amici, abbandonato dai principi tedeschi che avevangli sostituito, in qualit? di re dei Romani, Enrico, langravio della Turingia, il quale sconfiggeva suo figlio, il re Corrado, ad altro pi? non pens? che a pacificarsi col papa, onde metter fine alla travagliata sua vita. A tale oggetto sottoscrisse in presenza di molti prelati una professione di fede conforme affatto a quella della Chiesa; ed in pari tempo chiedeva la mediazione di san Luigi: ma tutto inutilmente.

Nel susseguente anno, non ommise Federico di rinnovare le sue calde istanze per rientrare in seno della Chiesa, sebbene avesse avuta notizia della totale disfatta e della morte del suo rivale, Enrico di Turingia, all'assedio di Ulma. Le condizioni da lui offerte nel presente anno, e ne' due successivi con nuovi schiarimenti, pare che lo mostrino atterrito dalle censure della Chiesa, e che, a fronte della fierezza del suo carattere, e del prospero stato de' suoi affari, non avrebbe ricusato di sottoporsi alle pi? penose umiliazioni, ai pi? dolorosi sagrificj, per rappacificarsi col clero. In questo tempo san Luigi si apparecchiava a condurre in Egitto quell'armata di crociati ch'ebbe cos? sventurato fine. Federico proponeva di unire tutte le sue forze a quelle del re francese, e di fare insieme l'impresa d'Oriente; e perch? tale offerta non era di piena soddisfazione del papa, aggiunse l'altra condizione di militare contro gl'infedeli oltre mare finch? vivesse. Acconsentiva inoltre alla divisione della sua eredit?, purch? non ne fossero privati i suoi figliuoli. L'Impero germanico non doveva pi? essere unito al regno di Puglia; ma il primo rimarrebbe a Corrado, ed avrebbe il secondo Enrico, figlio di Federico e d'Isabella, sua terza moglie. E perch? Innocenzo IV, rigettando la confessione di fede fatta avanti ai prelati per iscolparsi del delitto d'eresia, aveva dichiarato appartenere a lui solo la disamina della coscienza del monarca, e ch'era disposto ad ascoltarlo, qualora si recasse personalmente alla corte pontificia; Federico volle acconsentire ancora a quest'ultima umiliazione, e si pose effettivamente in viaggio, attraversando la Lombardia con un treno affatto pacifico, e non toccando il territorio delle citt? nemiche, delle quali pareva volerne scordare le offese. E gi? era giunto a Torino, quando ebbe avviso che i parenti del papa gli avevano ribellata la citt? di Parma. Abbiamo gi? osservata che tre delle principali famiglie, i Rossi, i Lupi ed i Correggeschi, essendosi dichiarati del partito guelfo, avevano dovuto uscir di Parma. Erano costoro parenti o alleati dei Fieschi, i quali, all'istante che fu nominato papa uno della loro famiglia, eransi dati alla fazione nemica dell'Impero. Altri fuorusciti parmigiani avevano pure raggiunti i primi a Piacenza, aspettando che le prediche di alcuni frati lasciati in Parma disponessero quel popolo alla sedizione. Quando credettero giunto l'istante favorevole, la domenica del 16 giugno 1247, tutti gli emigrati parmigiani s'avanzarono sotto il comando di Gherardo da Correggio fino al Taro, ove trovarono sull'opposta riva Enrico Testa, podest? imperiale, con un grosso corpo di nobili e popolani di Parma; il quale credendosi sicuro della vittoria attravers? il Taro per attaccarli: ma, durante la battaglia, tutti quelli della sua armata, che segretamente favorivano i Guelfi, si unirono ai nemici. Quest'impensato avvenimento port? lo spavento nelle truppe, che non sostennero l'urto de' Guelfi, restando tra i morti lo stesso podest?, Manfredi di Cornazano, ed Ugo Manghirotti, due de' pi? illustri Ghibellini, salvandosi gli altri colla fuga. Intanto la massa del popolo, perduti i capi, manifestava con segni di acclamazione il suo attaccamento alla Chiesa, e conduceva in trionfo gli emigrati entro le mura di Parma. Gherardo da Correggio venne sulla pubblica piazza proclamato podest?, e dati il palazzo, le mura e le torri in guardia ai suoi soldati.

Enzo, ossia Enrico, figliuolo di Federico, e re di Sardegna, trovavasi allora nel contado di Brescia all'assedio di Quinzano. Avuto avviso della rivoluzione di Parma, abbrucia le macchine guerresche, e viene a grandi giornate fino alle rive del Taro, lusingandosi di sottomettere i ribelli con un colpo di mano. Federico, informato a Torino dello stesso avvenimento, avvampa di collera contro il papa, e deposto con orrore il pensiero di andare a Lione per umiliarsi innanzi ad un uomo che non cessava di macchinare contro di lui, riunisce tutti i suoi partigiani delle vicine citt?, e fattane una piccola armata, raggiugne il figlio sulle rive del Taro, di dove si avanza fino a pochi passi dalla citt?.

La perdita di Parma gli toglieva la comunicazione colle citt? ghibelline dalle Alpi al suo regno di Puglia, la quale mantenevasi per Torino, Alessandria, Pavia, Cremona, Parma, Reggio, Modena e Toscana; oltrecch? Parma e Cremona gli aprivano un'altra importantissima comunicazione con Verona, gli stati d'Ezelino e la Germania. Affrettava perci? la leva di una formidabile armata e faceva avanzare a grandi giornate un corpo di Saraceni, i soli suoi sudditi non esposti all'influenza de' frati, n? al terrore delle scomuniche. Ma prima che potesse formare un'armata abbastanza forte per fare l'assedio di Parma, i Guelfi ebbero tempo di provvederla abbondantemente di truppe e di vittovaglie. Il legato del papa, Gregorio di Montelungo, vi si chiuse con mille soldati scelti di Milano, e seicento di Piacenza, ch'egli vi aveva condotti per difficili strade. Un altro rinforzo vi spediva da Mantova il conte di san Bonifacio, il quale alla testa d'un altro corpo di Mantovani entrava in pari tempo nel territorio cremonese, per guastarlo, onde sforzare i Cremonesi ad abbandonare il campo dell'imperatore per venire in soccorso della loro patria. Anche il marchese d'Este, poco curandosi di lasciare in bal?a di Ezelino le proprie terre, si gett? con un corpo di Ferraresi in Parma, ov'eransi pure adunati tutti i fuorusciti guelfi di Reggio, di modo che vi si trovarono due mila cavalieri forastieri e mille della citt?. La milizia dividevasi per quartieri; e le milizie di due porte occupavansi ogni giorno della guardia della terra, dello scavamento di nuove fosse e dell'innalzamento di bastioni e di palizzate per supplire alla conosciuta debolezza delle antiche mura.

Mentre Parma era alleata dell'imperatore, gli aveva spediti dei soldati, ch'egli teneva nelle vicine citt?; de' quali, essendogli, dopo l'accaduto, talmente sospetta la fede da poterli trattare come aperti nemici, ne fece imprigionare ottanta a Reggio e cinquanta in Modena, ritenendoli per ostaggi; ed inoltre fece arrestare tutti i giovani parmigiani che trovavansi allo studio di Modena, i quali tutti spogliati de' loro cavalli, delle armi, dei libri e di quanto avevano, furono mandati carichi di catene al campo imperiale.

Intanto l'armata ghibellina riceveva ogni giorno nuove genti; erano arrivati dalla Puglia molti Saraceni a piedi ed a cavallo: Ezelino aveva seco condotte le milizie di Padova, di Vicenza, di Verona; ed i Ghibellini di tutte le citt? d'Italia si univano sotto le bandiere di Federico per ricominciare una sanguinosa guerra: ma ossia che le forze ghibelline non fossero tali da poter impedire ai nemici di battere la campagna, oppure gli mancassero le macchine d'assedio, n? assedi? la citt?, n? venne a giornata con Bianchino da Camino ed Alberico da Romano, i quali con un'armata guelfa eransi trincerati dalla banda settentrionale di Parma sull'altra riva del Po. Tutte le fazioni di questa campagna si ridussero dunque ad alcune scaramucce coi Saraceni, i quali cercavano d'impedire che fosse vittovagliata la citt?: al quale oggetto s'impadronirono un dopo l'altro de' castelli del territorio parmigiano, tranne Colorno; e tutti li distrussero; di modo che le bande de' soldati guelfi, quando ancora potevano scorrere la campagna, non trovavano viveri di veruna sorte per portare in citt?: onde i cittadini cominciavano a soffrire la fame, ed i viveri si vendevano a carissimo prezzo.

Credette Federico giunto l'istante opportuno d'atterrire gli assediati con sanguinose esecuzioni. Fece dunque condurre nel prato di Flazano, a due tiri di balestra dalle mura, quattro prigionieri parmigiani, due gentiluomini, e due borghesi, e fece loro tagliar il capo, proclamando in pari tempo che ogni giorno, finch? s'arrendesse la citt?, farebbe morire quattro Parmigiani, e mille ne teneva allora Federico in poter suo; ma il podest? ed i consiglieri, cui il consiglio generale aveva dati illimitati poteri per la difesa della citt?, presero le pi? rigorose misure per impedire che dal campo imperiale si recasse notizia di quanto accadeva; onde il pericolo che correvano tanti cittadini, non consigliasse i loro parenti ed amici a qualche atto di debolezza. Molte spie e messi, che tentarono di penetrare nascostamente in citt?, furono colti dalle guardie del podest?, ed abbruciati nella pubblica piazza, talch? niuno della citt? os? parlare di entrar in trattati col nemico. Frattanto nel susseguente giorno erano stati decapitati due altri prigionieri, e tutti gli altri minacciati dello stesso destino, quando i soldati di Pavia che militavano nel campo dell'imperatore, lo supplicarono ad accordar loro la vita de' prigionieri. <> L'imperatore si lasci? placare, e da quel punto il suo campo non fu pi? macchiato da cos? odiose esecuzioni.

Mentre Federico occupavasi della fondazione di Vittoria, e che Enzo, suo figliuolo, guardava la linea del Po, le citt? di Mantova e di Ferrara allestirono una flottiglia carica di vittovaglie d'ogni sorta; e fattala rimontare il fiume, mentre l'armata di terra cercava di forzare il ponte custodito da Enzo, introdussero il loro convoglio per il fiume Parma nella citt?.

Intanto l'imperatore allontanavasi spesse volte dall'armata, per cacciare col falcone, poich? la cattiva stagione non gli permetteva di muovere le truppe. La guarnigione di Vittoria erasi, durante l'inverno, indebolita assai per essersi molti capi ghibellini recati alle loro case. Avutosi di ci? sentore in citt?, il 18 febbrajo, i Parmigiani coi Guelfi sussidiarj progettarono di attaccare improvvisamente la citt? di Vittoria, mentre l'imperatore stava cacciando co' suoi falconi; e l'assaltarono cos? bruscamente, che se ne resero ben tosto padroni cacciandone gl'imperiali. Perirono in questo fatto molti Saraceni, quel Taddeo Suessa che aveva tanto caldamente difesa la causa di Federico innanzi al concilio di Lione, il marchese Lancia, ed altri assai distinti personaggi; in tutto circa due mila, periti sul campo di battaglia, e tre mila fatti prigionieri. Caddero in mano de' vincitori il carroccio de' Cremonesi, il tesoro della camera imperiale ricco di molto numerario, di corone, di giojelli, di vasi preziosi. La nuova citt? fu incendiata in modo, che non rimase pietra sopra pietra. Federico di ritorno dalla caccia incontr? i fuggiaschi e fu con loro strascinato verso Cremona, insegu?to dai vittoriosi Parmigiani fino alle rive del Taro.

Sebbene Federico sentisse tutto il peso delle sue avversit?, e desiderasse la pace, non ommise di dare non dubbie prove del suo fermo carattere allorch? stabil? il partito ghibellino nella repubblica di Fiorenza. Questo partito era da lungo tempo in Toscana preponderante. Pisa, la pi? potente citt? di questa contrada, era affatto ligia all'imperatore; Siena, fiorente citt? che contava in allora nell'interno delle sue mura undici mila ottocento famiglie, quasi fino dalla sua origine erasi costantemente conservata fedele al partito; le meno potenti citt? di Pistoja e di Volterra, e quasi tutti i feudatarj trovavansi armati per la stessa causa; per ultimo ancora nelle citt? considerate guelfe numerosi erano i Ghibellini e non esclusi dalle cariche pubbliche.

Mentre trovavasi ancora all'assedio di Parma, Federico, per acquistare maggiore influenza su questa repubblica, nomin? suo vicario in Toscana uno de' suoi figli naturali, Federico, re d'Antiochia, cui diede il comando di mille seicento cavalli tedeschi. Nello stesso tempo scrisse alla famiglia degli Uberti, la principale del partito ghibellino, per muoverla a fare un generoso sforzo in di lui favore, cacciando i loro antagonisti fuori di Fiorenza. In fatti gli Uberti presero le armi, ed i Guelfi si affrettarono di porsi in difesa delle loro barricate: ma i Ghibellini non si curando di difendere i proprj trinceramenti si unirono tutti alla casa degli Uberti, e rimasero facilmente vittoriosi dei Guelfi d'un solo quartiere che si erano loro opposti. Marciarono poi tutti uniti contro un'altra barricata guelfa, e la superarono colla medesima facilit?; ed inseguendo cos? di posto in posto i loro avversarj, gli sconfissero dappertutto prima che potessero unirsi, finch? arrivarono alle barricate dei Guidalotti e dei Bagnesi in faccia a porta san Pier Scheraggio. Tutti i Guelfi della citt? sottrattisi alle precedenti zuffe eransi adunati entro di queste barricate, e per tal modo i due partiti trovaronsi in questo luogo con tutte le loro forze in presenza l'uno dell'altro. Ma mentre durava la zuffa, trovando le porte, secondo l'intelligenza, aperte, entr? in citt? Federico d'Antiochia, alla testa di mille seicento cavalieri tedeschi. I Guelfi, dopo essersi difesi quattro giorni contro i proprj concittadini e contro i Tedeschi ne' loro trinceramenti, cedettero alla superiorit? delle forze nemiche e sortirono da Fiorenza tutt'insieme la notte della candelora, ritirandosi o ne' loro poderi del contado, o ne' castelli di Montevarchi e di Capraja, posti in Val d'Arno, dove si fortificarono di bel nuovo.

Non contenti dell'intero dominio di Fiorenza, i Ghibellini volevano altres? disporre a loro arbitrio di tutti i castelli de' Guelfi: onde in marzo del seguente anno assediarono Capraja, ove, dopo l'esiglio da Fiorenza, eransi ritirate le famiglie de' loro avversarj. L'istesso imperatore, rientrato in Toscana, si pose a Fucecchio, facendo stringere Capraja con tanto vigore, che in capo di due mesi gli assediati, non avendo pi? viveri, dovettero rendersi a discrezione. Federico mand? nella Puglia quasi tutti i pi? distinti personaggi fatti prigionieri a Capraja, e gli si d? colpa d'averne condannati molti alla morte, altri alla perdita degli occhi.

Cacciati i Guelfi da Fiorenza, tutta la Toscana rimaneva a disposizione di Federico: ma i suoi affari non procedevano in Lombardia ed in Romagna con eguale fortuna; perch? i fuorusciti fiorentini, riparatisi in Bologna e nelle vicine citt?, combattevano valorosamente contro il partito imperiale. Il papa aveva spedito suo legato ai Bolognesi il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, per istimolarli a porre la Romagna sotto il dominio della santa sede. Il giorno susseguente al suo arrivo, il cardinale fu ammesso nel consiglio del comune, nel quale dal popolo e dal prelato si fiss? il piano della futura campagna. Era pretore di Bologna Bonifacio di Cari, di Piacenza, che, uscito ne' primi giorni di maggio con una bella e poderosa armata e col carroccio del comune, si fece a guastare la parte del territorio modonese, posta al levante del fiume Scultenna, ossia Panaro; occup? Nonantola, e spian? i forti di san Cesario e di Panzano. Di l?, passando all'altra estremit? del distretto bolognese, prese molte castella soggette ad Imola, che poi cinse d'assedio.

Era Imola troppo vicina a Bologna per non soffrire dall'ingrandimento d'una citt? rivale, ed aveva pi? volte fatto infelice esperimento della inferiorit? delle sue forze, onde sentiva di non potersi lungamente sostenere. Altronde i Bolognesi non volevano toglierle la libert? e l'indipendenza; ma chiedevano soltanto che si unisse al partito della Chiesa, promettendole fedelt?. A tali condizioni i due podest? segnarono tra le repubbliche un trattato di pace il 6 maggio del 1248, che fu all'istante approvato dai due consigli generale e speciale, dai consoli de' mercanti, dagli anziani del popolo e dai maestri dei collegi della repubblica bolognese adunati dal podest? nel campo medesimo, perciocch? la repubblica trovavasi tutta intera nell'esercito; la sovrana podest? passando alternativamente dal podest? al popolo e dai cittadini, diventati soldati, al magistrato loro generale.

Dopo questo, l'armata bolognese marci? sopra Faenza, Bagnocavallo, Forlimpopoli, Forl? e Cervia, le quali, non essendo caldamente attaccate al partito ghibellino, lo abbandonarono, giurando fedelt? alla Chiesa ed alla lega di Bologna.

Nel susseguente anno il cardinale Ubaldini faceva nuove istanze alla repubblica bolognese perch? trattasse vigorosamente la guerra contro gl'imperiali ora ridotti in basso stato; non avendo Enzio, figliuolo naturale di Federico, nominato re di Sardegna e suo vicario in Lombardia, che poche forze sotto i suoi ordini: di modo che, quantunque Modena e Reggio fossero le sole citt? alle quali egli doveva specialmente aver l'occhio, non aveva potuto impedire che varie loro castella si dassero alla parte guelfa. I Bolognesi, determinati di approfittare della presente debolezza degl'imperiali, offrivano al marchese d'Este la carica di capitano generale dell'esercito alleato e delle loro milizie; il quale, trovandosi allora infermo, mandava, rifiutandola, in ajuto de' Bolognesi tre mila cavalli e due mila fanti. L'armata bolognese era composta di mille cavalli, di ottocento uomini d'arme e di tre trib? della citt?, cio? porta Stieri, porta san Procolo e porta Ravegnana; la quale sort? in bella ordinanza preceduta dal carroccio, e capitanata dal pretore Filippo Ugoni e dal cardinale Ottaviano degli Ubaldini. Posti sufficienti presidj ne' pi? importanti castelli di Nonantola, Crevalcore e Castelfranco, si avanz? fino al Panaro contro i Modenesi, i quali, avuto sentore dei movimenti dei loro nemici, ne avevano dato avviso al re Enzio, che, poste insieme speditamente le truppe napoletane e tedesche lasciategli dal padre, le milizie reggiane e cremonesi, gli emigrati di Parma, Piacenza e delle altre citt? guelfe, form? un'armata di quindici mila uomini. Erasi lusingato di trovarsi a fronte dei Bolognesi prima che passassero il Panaro che scorre tre miglia al di l? di Modena; ma giunto a Fossalta, distante due miglia, seppe che i nemici avevano occupato il ponte di sant'Ambrogio, e passato il fiume. Le due armate, sebbene si trovassero in presenza ed in aperta campagna, non osarono, per alcuni giorni, di venire alle mani essendo pressoch? eguali di forze. Di ci? avutone avviso il senato di Bologna fece marciare due mila uomini della quarta trib?, detta di san Pietro, ordinando al pretore di venire a giornata immediatamente. Perci? il 26 di maggio, in sul far del giorno, essendo la festa di sant'Agostino, i Bolognesi attaccarono i nemici con un movimento che fecero a sinistra, mostrando di volerli prendere alle spalle dalla banda degli Appennini. Li ricevette valorosamente Enzio, il quale aveva divisa la sua gente in due corpi di battaglia, ed in uno di riserva, collocando in cadauno de' primi due met? de' suoi soldati tedeschi, ne' quali assai fidava, onde sostenessero gl'Italiani; e formando la riserva della sola milizia modenese. Dall'altro canto il pretor bolognese aveva partito il suo esercito in quattro corpi: nel primo trovavansi i pedoni ausiliarj del marchese d'Este e parte della sua cavalleria, nel secondo il rimanente de' suoi cavalieri, e due mila Bolognesi della trib? di san Pietro, ch'erano di fresco arrivati al campo; componevano il terzo le milizie delle tre altre trib? ed ottocento cavalli bolognesi; e nella quarta trovavansi le truppe scelte sotto gl'immediati ordini dello stesso pretore consistenti in novecento cavalli, mille cittadini e novecento arcieri a piedi. Questa divisione che dimostra l'intenzione di economizzare le proprie forze, di condurle successivamente alla battaglia, di sostenere con truppe fresche quelle che si vedessero piegare in faccia al nemico, ? una non dubbia prova de' progressi che andava facendo l'arte della guerra. La battaglia si mantenne vigorosa fino a sera, senza che si vedesse alcuno apparente vantaggio dall'una o dall'altra banda. Enzio, caduto sotto il cavallo ucciso, fu difeso da' suoi Tedeschi finch? fu rimesso in sella. Non pertanto a notte gi? fatta i Ghibellini avevano cominciato a piegare in modo, che si ruppe l'ordine della battaglia; onde inseguiti dai nemici, molti perirono sotto i loro colpi, altri smarriti in una campagna, tagliata da' profondi canali, trovaronsi separati dai loro amici e fatti prigionieri. Furono di questo numero lo stesso re, Buoso di Dovara che gi? cominciava ad essere potente in Cremona, e molti gentiluomini e cittadini modenesi.

Il pretor bolognese, non volendo esporre a qualche impensato accidente un prigioniere di tanta importanza qual era Enzio, si pose quasi subito in cammino per condurlo a Bologna. Allorch? giugneva presso al castello d'Anzola incontr? le milizie bolognesi, che, prevenute dell'accaduto, venivangli incontro per onorarne il trionfo colle trombette ed altri strumenti. Da questa borgata fino alla citt? tutta la strada era affollata di gente, curiosa di vedere tra i prigionieri il principe Enzio, e per essere figliuolo di cos? potente imperatore, e perch? re egli stesso. Oltre di ci?, la sua fresca et? di venticinque anni, i biondi dorati capelli che gli scendevano fin sopra i fianchi, la gigantesca statura, la nobilt? del viso su cui vedevansi vivamente espressi il suo coraggio e la sua sventura, tutto facevanlo oggetto della universale ammirazione. Grande fu veramente la sua sventura, perciocch? il senato di Bologna fece una legge, poi sanzionata dal popolo, colla quale si vietava per sempre di concedere ad Enzio la libert?, per grandi che fossero le offerte o le minacce del magnanimo suo padre. In pari tempo la repubblica provvedeva nobilmente ai bisogni dell'illustre prigioniere per tutto il tempo del viver suo, e lo alloggiava in uno de' pi? magnifici appartamenti del palazzo del podest?. Per lo spazio di ventidue anni, che tanti ne sopravvisse alla sua disgrazia, i nobili bolognesi lo visitavano ogni giorno, onde temperare in qualche modo i suoi mali, ma si mantennero egualmente inaccessibili alle offerte od alle minacce di Federico.

Poi ch'ebbe posto l'illustre suo prigioniero in luogo di sicurezza, il pretore accord? pi? settimane di riposo alle truppe; e solo ne' primi giorni di settembre le condusse nuovamente nel territorio di Modena, mentre i Parmigiani avevano convenuto di attaccare, dal canto loro, la citt? di Reggio, onde queste due citt? ghibelline non potessero ajutarsi a vicenda. La repubblica di Modena era di lunga mano pi? debole della bolognese; e la sconfitta d'Enzio, e la lontananza di Federico scoraggiato da tante sventure, facevano apertamente sentire ai Modenesi che non potevano trovare salvezza che nel proprio coraggio. Si chiusero perci? entro le proprie mura, mostrandosi lungo tempo insensibili ai guasti del loro territorio, ed agl'insulti de' Guelfi accampati presso i loro baluardi, finch? i Bolognesi li forzarono ad uscire dalle porte con un'ingiuria creduta in allora tanto grave, che tutti gli storici contemporanei la trovarono meritevole di particolare ricordanza. Essi gettarono con una catapulta entro la citt? il cadavere d'un asino cui avevano posti dei ferri d'argento, il quale and? a cadere appunto in mezzo alla vasca della pi? bella fontana della citt?. Dopo tanta ingiuria i Modenesi si credettero dal loro onore costretti ad uscire contro ai nemici: resi dalla collera pi? valorosi, ruppero le file degli assedianti, e giunti alla macchina fatale con cui erano stati insultati, la fecero in pezzi e tornarono trionfanti in citt?.

Dopo tal fatto che poneva in sicuro il loro onore, si mostrarono meno difficili ad ascoltare le oneste condizioni di pace che proponevano loro i Bolognesi. Il trattato fu proposto al pretorio di Modena il 7 dicembre del 1249, e fu esaminato dai maestri delle arti e dal consiglio generale; poscia il 19 gennajo 1250 venne discusso in Bologna dai varj consiglj, dagli anziani del popolo, dai consoli de' mercanti, e da tutti i collegi, ed avendo ottenuta l'universale approvazione, le due nazioni giurarono la pace sotto le seguenti condizioni: che il comune di Modena si obbligava a conservarsi amico ed alleato di quello di Bologna, a dargli ajuto contro i suoi nemici, nessuno eccettuato, come pure a soccorrere il legato apostolico; prometteva inoltre di non far nuove alleanze senza il consentimento del legato e della repubblica di Bologna; di pi? richiamava tutti i fuorusciti della fazione degli Aigoni , e li rimetteva in possesso de' loro beni. I due partiti dei Grasolfi, o Ghibellini, e degli Aigoni, o siano Guelfi, furono autorizzati a nominare il proprio podest?; ma gli ultimi dovettero nominare un Bolognese. Dall'altra parte il comune di Bologna rendeva a Modena tutte le terre conquistate nella presente guerra, e si faceva mallevadore della pace tra le opposte fazioni; ed i prigionieri furono dai due comuni fatti liberi senza pagamento di taglia. Intanto il legato Ottaviano Ubaldini riconcili? Modena colla Chiesa, togliendo l'interdetto in cui era incorsa da tanto tempo, e permettendo la celebrazione dei divini uffici.

Mentre i Guelfi trionfavano nella Romagna e nella Lombardia, la parte ghibellina otteneva non minori vantaggi nella Marca Trivigiana. Da che Federico erasi, l'anno 1239, allontanato da Padova, Ezelino, come si disse nel precedente capitolo, approfittando della ottenuta indipendenza, faceva morire tutti coloro che credeva suoi nemici; ed aveva in modo rassodata in tutta la Marca la sua tirannide, che appena aveva pi? bisogno di riconoscere l'autorit? imperiale. Egli incominci? dall'attaccare le fortezze d'Agna e di Brenta, occupate dai fuorusciti padovani, e resosene padrone, aveva fatti perire tutti quegl'individui delle illustri famiglie dei Carrara e degli Avvocati, ch'eransi col? riparati per sottrarsi alla sua crudelt?. Era in appresso entrato nel territorio del suo capital nemico, il marchese d'Este, ed aveva, nel periodo di dieci anni conquistate una dopo l'altra tutte quelle fortezze, non escluse quelle di Montagnana e di Este, che pure si credevano inespugnabili. Nel distretto di Verona erasi reso padrone del castello di san Bonifacio, antico patrimonio di un'illustre famiglia da pi? anni rivale della sua; aveva tolte molte terre alla citt? di Treviso in allora governata da suo fratello Alberico da Romano, il quale pareva che avesse abbracciato il partito guelfo: finalmente aveva a forza occupate le piccole citt? di Feltre e di Belluno, che da molto tempo eransi poste sotto la protezione di Biachin da Camino, gentiluomo guelfo, che Ezelino spogli? affatto de' suoi dominj.

Ma nel tempo che il signore da Romano andava in tal modo dilatando il suo dominio, giustificando con ci? il titolo che aveva preso di vicario imperiale in tutti i paesi posti tra le Alpi trentine e l'Oglio, faceva scorrere il sangue a torrenti in tutte le citt? a lui sottomesse, e con una funesta esperienza insegnava agl'Italiani quale dev'essere un tiranno che acquista signoria in un paese avvezzo alla libert?. Farebbe orrore un troppo circostanziato racconto di tutti i suoi delitti; il semplice annovero delle sue vittime non riuscirebbe interessante che a coloro cui non ne sono sconosciuti i nomi, nomi illustri solamente entro i confini della Venezia: ci limiteremo quindi a scegliere in cos? vasta messe alcuni tratti bastanti a dare un'adequata idea di quest'uomo crudele.

Del 1228 aveva Ezelino fatto prigioniere Guglielmo nipote di Tisone di Campo san Piero, in allora fanciullo di pochi anni, e lo aveva fatto educare nella propria corte. Era costui suo nipote; e morti essendo Tisone e Giacomo di Campo san Piero, pareva che la nimicizia di Ezelino contro questi due signori dovesse essersi spenta, ed aver ripreso il debito vigore, i legami del sangue. Accadde tutt'all'opposto, che Ezelino, l'anno 1240, fece sostenere il giovanetto Guglielmo sotto pretesto di averlo come ostaggio: onde quattro dei signori suoi pi? vicini parenti presentaronsi ad Ezelino come mallevadori di Guglielmo. Vinto dalle loro preghiere lo rilasci?; ma Guglielmo, troppo giovane per riflettere in mezzo al turbamento ed al terrore, ch'egli comprometteva i suoi generosi amici, fugg? al suo castello di Treviglio che fortific? in modo da non dover paventare un colpo di mano del tiranno. Ezelino fece allora imprigionare i quattro signori di Vado, che furono custoditi nella fortezza di Cornuda, di cui dopo pochi anni fece murare le porte. Per interi giorni udironsi questi sciagurati che con lamentevoli grida domandavano pane; e quando furono, dopo morti, aperte le prigioni, si trov? che le loro ossa erano coperte soltanto da una pelle nera e diseccata.

Nondimeno Guglielmo da Campo san Piero, dopo essersi conservato indipendente sei anni, atterrito dai progressi grandissimi che faceva Ezelino, tent? di riconciliarsi seco lui; gli consegn? le sue fortezze, e venne a mettersi tra le sue mani dichiarando di volergli essere amico, siccome nipote. Ma si racconta che, la notte medesima in cui trovavasi in potere del tiranno, credette di vedere in sogno le ombre de' suoi zii, i signori di Vado, che chiedendo pane, gli ricordavano la dolorosa loro morte ch'egli aveva troppo incautamente dimenticata, e gli fecero sentire, ma troppo tardi, a qual crudele signore si fosse fidato. Non tard? a farne un crudele esperimento. Del 1249 Ezelino gli ordin? di ripudiare la consorte, siccome quella che apparteneva ad una famiglia da lui proscritta; al che rifiutandosi Guglielmo, fu imprigionato, e dopo un anno condannato a morte, confiscati tutti i suoi averi, e posti in ferri i suoi parenti senza distinzione di sesso o di et?.

La maggior parte de' giustiziati, coperti d'una veste nera, perdevano la testa sulla pubblica piazza. I loro beni erano confiscati, atterrate le loro case, dichiarati sospetti ed imprigionati i loro parenti ed amici d'ambo i sessi. Ma non tutte le vittime perivano di morte cos? dolce: accusate indifferentemente d'aver cospirato contro il tiranno, non si allegavano altre testimonianze del loro delitto, che le confessioni strappate loro di bocca coi tormenti: e molti gentiluomini che rifiutavansi di confessare i supposti delitti, si fecero perire in mezzo agli orrori d'una tortura spinta al di l? di quanto pu? soffrire l'umana natura.

Tante erano le persone sospette condensate nelle carceri da Ezelino, ch'egli ordin? di far nuove carceri presso alla chiesa di san Tomaso di Padova. Uno di que' vili cortigiani che i tiranni sanno trovare in ogni paese e valersene nell'esecuzione de' loro disegni, chiese, come una grazia, la direzione della fabbrica delle prigioni, affinch? riuscissero veramente infernali. <>.

Doveva credersi che poco considerabile fosse il numero di quegli uomini vili e feroci di cui abbisogna un tiranno per dare esecuzione alle sue crudelt?; ma tutt'all'opposto accadde sotto il governo d'Ezelino. Ogni podest? ch'egli mandava alle citt? soggette, tutti i governatori de' castelli, i carcerieri, sembravano quanto Ezelino insensibili e crudeli. Egli aveva, dopo abbandonato l'assedio di Parma, fissata la sua residenza in Verona, ed aveva affidato il governo di Padova ad uno de' suoi nipoti, Ansidisio Guidotti, forse pi? crudele del suo signore. Un apologo incautamente raccontato nel pubblico palazzo, ed applicato ad Ezelino, fu un delitto espiato colla morte non solo del suo primo autore, ma di tutti coloro che si suppose averlo applaudito. Eran essi dodici, e le loro consorti, i fratelli, i figli, quantunque fanciulli, furono tutti imprigionati.

Di que' tempi all'incirca tra coloro che perirono sul palco furono assai compianti que' della famiglia Delesmanini, una delle pi? ricche e potenti della fazione ghibellina. Una signora di quella casa aveva di fresco sposato in seconde nozze un gentiluomo affezionato al conte di san Bonifacio, e perci? nemico d'Ezelino. Queste nozze fattesi in Cremona probabilmente senza saputa dei Delesmanini, provocarono in modo la collera del tiranno, che fece imprigionare tutte le persone di quella famiglia, ordinando al suo podest? Guidotti di farle perire. Sebbene un suo fratello avesse sposata una sorella di quegli sciagurati gentiluomini, senza avere alcun riguardo ai legami del sangue e dell'amicizia, fu rigoroso esecutore della crudel vendetta del suo padrone. Volle per altro far esperimento del popolo, temendo che si ammutinasse; e mand? al supplicio un solo Delesmanino, il pi? giovane ed il meno stimato; ma vedendo che i loro vassalli ed amici non facevano verun movimento, fece strascinare tutti gli altri sulla piazza, ove furono decapitati. <>

Trovandosi nella Puglia gi? da un anno, senza aver fatto cose, per quanto si sappia, di molta importanza, Federico fu sorpreso a Florentino, borgata di Capitanata, da una dissenteria che lo condusse al sepolcro il 13 dicembre del 1250, nel cinquantesimo sesto anno dell'et? sua, essendo stato trentun anni imperatore, trentotto re de' Romani, cinquantadue re delle due Sicilie.

Nel corso di questa Storia abbiamo dovuto formarci un'idea del carattere di questo principe; ma siccome verun sovrano fu attaccato con maggiore accanimento, n? difeso cos? caldamente, riesce quasi impossibile lo spogliare le sue azioni dalle imputazioni della calunnia, o dal favore de' suoi zelanti partigiani. Non saprei meglio chiudere ci? che ho fin qui detto intorno a questo principe, che trascrivendo ci? che ne dissero due storici della susseguente generazione, uno de' quali Giovanni Villani, fiorentino, fu uno zelante Guelfo, l'altro Nicol? di Jamsilla, napoletano, uno de' pi? caldi Ghibellini.

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Colla morte di Federico II ebbe fine in Italia l'autorit? degl'imperatori, la quale, sebbene ne fossero controversi i limiti, era per? confessata da tutte le repubbliche. Di ci? ne furono principale cagione i principi di Germania che protrassero ventitre anni l'elezione del nuovo re de' Romani, e la debolezza di Rodolfo d'Absburgo, eletto re di Germania dopo la morte di Federico II, e de' suoi immediati successori Adolfo ed Alberto, i quali non avendo potuto scendere in Italia a ricevere in Roma la corona dell'Impero, non ebbero il titolo d'imperatori. Dopo sessant'anni Enrico VI, di Lussemburgo, entr? in Italia per farvi rivivere i diritti dell'Impero; ma dopo la subita morte di questo monarca un secondo interregno lasci? i popoli italiani in piena libert? di rassodare la loro indipendenza e di rompere tutti i legami che gli univano alla Germania.

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