bell notificationshomepageloginedit profileclubsdmBox

Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 04 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde

More about this book

Font size:

Background color:

Text color:

Add to tbrJar First Page Next Page

Ebook has 346 lines and 104773 words, and 7 pages

STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO

DI J. C. L. SIMONDO SISMONDI

DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI, DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.

ITALIA 1817.

STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE

La strage di Sicilia che non aveva tolti al re Carlo che quattro mila soldati francesi, era pi? che una disfatta, un affronto ch'egli doveva vendicare; n? tale perdita era di tanta importanza ch'egli non potesse ben tosto ripararvi. Se ? vero che avesse adunati dieci mila cavalli ed un proporzionato numero di pedoni per fare l'impresa del Levante; se ne' suoi vasti progetti calcolava la conquista di tutto l'impero greco, pare che con queste forze gi? riunite egli avrebbe in pochi giorni potuto sottomettere una provincia ribelle, non ancora preparata ad una vigorosa resistenza, sprovvista di arsenali, di armata, di tesoro, non sostenuta da uno stabile governo, non difesa da esperti generali; ove tutto quanto gli si poteva opporre era l'odio profondo contro di lui concepito ed il timore delle sue vendette. Ma le passioni che agitano un'intera nazione, che le danno un solo sentimento, una sola vita, un solo interesse in faccia al quale tutto cede; le passioni che non lasciano calcolare n? sforzi, n? pericoli, n? sagrificj, danno ad un popolo assai maggiori mezzi di resistenza, di quelli che potrebbe somministrargli la previdenza d'un governo regolare, e l'azione uniforme e sempre subordinata al calcolo della militare disciplina. La Sicilia fu invincibile: ella resistette agli sforzi combinati del re Carlo, del papa, del re di Francia, di tutti i Guelfi d'Italia e dello stesso re d'Arragona, che per rappacificarsi colla Chiesa prese parte in una vergognosa lega co' suoi nemici. La casa d'Angi? consumossi con inutili sforzi per ricuperare un regno avuto gi? in suo dominio; e, mentre combatteva, l'Italia, di cui aveva minacciata la libert?, ricuper? la propria indipendenza: anch'essa forse ne abus?, perciocch?, mancati i grandi interessi che la tenevano unita, e non vedendosi minacciata da vicino pericolo, si abbandon? alle parziali guerre tra citt? e citt? ed alla violenza delle fazioni.

Ad ogni modo se la Sicilia non era dal mare separata dagli altri stati del re Carlo, non avrebbe probabilmente potuto lungamente resistere. Un'armata vendicatrice sarebbesi presentata in faccia a Messina ed a Palermo pochi giorni dopo la strage dei Francesi; avrebbe trovato il popolo spossato dai suoi proprj furori e di gi? in preda al pentimento, che in lui non si manifesta giammai con maggiore unanimit?, che nell'istante in cui si riposa dopo i suoi primi eccessi.

Intanto pass? alcun tempo avanti che la flotta e l'armata del re, adunate in Brindisi per la spedizione della Grecia, potessero porsi in mare. Lo stesso Carlo and? a Brindisi, ove dovevano pure recarsi le truppe ausiliarie che gli mandavano le citt? guelfe della Toscana e della Lombardia. Fece in appresso marciare la sua armata fino all'estremit? della Calabria, ed egli stesso s'imbarc? per raggiungerla a Reggio. Soltanto il 6 di luglio del 1282 arriv? in faccia a Messina con cento trenta galee o grosse navi, e trasport? le sue truppe dall'una all'altra riva dello stretto. Egli aveva con lui cinque mila uomini d'armi ed un ragguardevole corpo d'infanteria. I Siciliani non avevano armata da opporre al re, ma non erano affatto sprovveduti di navi. Erano cadute in loro potere quelle che Carlo avea fatto allestire per l'impresa di Grecia a Palermo, a Siracusa ed in altri porti dell'isola, come pure i materiali che trovavansi ne' cantieri di Messina, che furono adoperati in difesa della citt?, dove le mura erano guaste, facendo palizzate e baluardi, resi forti solamente dal coraggio de' difensori.

Mentre gli abitanti di Messina respingevano valorosamente i giornalieri assalti di Carlo, Giovanni di Procida, accompagnato dai sindaci e procuratori di tutte le citt? siciliane, fece un secondo viaggio alla corte del re Pietro d'Arragona per affrettarne i soccorsi. Lo trov? ad Ancolle, porto dell'Affrica, ove, malgrado il cattivo esito della sua spedizione contro i Mori, si rimaneva, preferendo di lasciare i Siciliani esposti molti mesi a tutte le vendette di Carlo, pi? tosto che esporsi al risentimento di quel temuto monarca avanti di vedere qual piega prenderebbero gli affari della Sicilia. Ma comprendendo dal racconto di Giovanni che i Siciliani eransi omai tanto inoltrati nella ribellione, che per alcun modo non potevano pi? dare a dietro, imbarcossi colla sua armata alla volta della Sicilia, e giunse avanti a Trapani il 30 agosto del 1282.

Tutti i baroni dell'isola eransi adunati a Palermo per ricevervi il nuovo re; che si affrettarono di far incoronare dal vescovo di Ceffal?, e gli prestarono il giuramento di fedelt?. Non lasciavano per altro d'essere assai inquieti osservando le deboli forze di Pietro in confronto di quelle di Carlo; e prevedevano che, presa Messina dai Francesi, in breve tempo tutta l'isola sarebbe soggiogata; ed avevano avviso che quella citt? incominciava ad avere tanta scarsit? di viveri, che non potrebbe oramai tenere pi? di otto giorni. Fortunatamente il re arragonese aveva condotta seco la sua flotta composta soltanto di galee armate in guerra e disposte a combattere, e questa era comandata da Ruggero di Loria, gentiluomo calabrese, che aveva abbandonata la patria quando venne in potere de' Francesi, ed era il pi? esperto e pi? fortunato ammiraglio che allora si conoscesse. Carlo all'opposto, non s'aspettando d'aver nemici sul mare, non aveva seco menato che navi da trasporto e galere disarmate; almeno con tale pretesto gli storici guelfi cercano di scusare la debolezza della sua marina veramente strana ed incauta. Ruggero di Loria, riunite sessanta galee sottili della Catalogna e della Sicilia, and? ad occupare lo stretto per impedire che fosse vittovagliata l'armata francese. Nello stesso tempo il re Pietro fece lentamente avanzare le sue truppe alla volta di Messina, e mand? tre cavalieri catalani a Carlo colla seguente lettera di sfida:

<

<>

Carlo il pi? orgoglioso monarca di cristianit?, e fino a quest'epoca fors'anco il pi? potente, frem? di sdegno quando lesse una cos? superba lettera d'un piccolo principe ch'egli non credeva potergli stare a fronte; e gli mand? la seguente riposta:

<

<>.

Ma Carlo non pot? sostenere coi fatti l'orgoglio della sua lettera: il suo ammiraglio Enrico de' Mari venne ad avvertirlo che aveva avviso dell'imminente arrivo di Ruggero di Loria, e ch'egli non poteva sostenerne l'incontro, perch? le sue grosse navi mal potevano manovrare nello stretto, ed altronde erano affatto disarmate: gli osservava che erano nella burrascosa stagione dell'equinozio; che la Calabria non offriva alcun sicuro porto per ripararvisi; e che, se la flotta era incendiata dal nemico, la sua armata avrebbe dovuto morire di fame. Convien che le circostanze fossero urgenti, poich? un monarca cos? fiero, cos? irritato, un monarca cos? coraggioso fu forzato di cedere; pure la cosa non ? affatto chiara. In tre giorni l'armata francese ripass? lo stretto, ed il quarto, 28 di settembre, Ruggero di Loria comparve innanzi al porto di Messina, e s'impadron? di ventinove galere francesi che non fecero veruna resistenza. Si avanz? poi verso la Catona e Reggio di Calabria dove avevano dato fondo tutte le galere e le navi da trasporto del re, in numero di ottanta, e vi fece appiccare il fuoco sotto gli occhi di Carlo che non poteva difenderle: il quale vedendo l'incendio della sua flotta rodeva per rabbia lo scettro che teneva in mano, e gridava: <>.

Pareva a Carlo che la sua flotta e la sua armata ch'egli era accostumato a far agire con somma facilit?, si rifiutassero tutti ad un tratto di seguire gl'impulsi della mano che li dirigeva. Trovavasi vinto senza ancora sapere quale forza impiegasse contro di lui il suo nemico, e senza aver potuto combattere; onde era impaziente di far prova del proprio valore, d'incaricarsi egli medesimo della sua vendetta, invece di confidarla al braccio de' suoi soldati, o di farla dipendere dall'incostanza degli elementi. Dopo avere abbandonata la Sicilia scrisse al re Pietro, invitandolo a decidere con un privato combattimento sottomesso al giudizio di Dio, i loro diritti e la loro lite. Propose che cento cavalieri combattessero contro cento cavalieri a Bordeaux, sotto la guarenzia del re d'Inghilterra, cui apparteneva questa citt?: i due re dovevano trovarsi alla testa dei loro campioni e promettere che la sorte della Sicilia dipenderebbe dall'esito della pugna. Pietro d'Arragona che aveva bisogno di acquistar tempo per assodare la sua autorit? in Sicilia, e terminare i preparativi di difesa, accett? con piacere la proposta di Carlo, tanto pi? che avendo egli minor numero di sudditi, poche truppe e meno tesori, era ben fortunato di poter combattere con pari forze con un cos? potente nemico. I due re promisero di trovarsi a Bordeaux il 15 maggio del 1283, dichiarando in caso che mancassero all'appuntamento, non solo di rinunciare ad ogni diritto sul regno di Sicilia, ma inoltre ad essere spogliati dei loro stati ereditari, e vituperati da ogni assemblea di nobili e cavalieri, come traditori ed uomini senza onore.

Gli apparecchi per questa pugna giudiziaria allontanarono alcun tempo i re rivali dai regni della Sicilia e della Puglia, locch? diede un'apparenza di pace a queste province, mentre molte altre contrade d'Italia erano, a quest'epoca, travagliate dalla guerra. In quest'anno scoppi? la lite tra le due potenti repubbliche di Genova e di Pisa, lite che doveva essere cagione ad ambedue d'immensa perdita di ricchezze e di soldati.

L'anno 1276 la repubblica di Pisa era stata costretta dai Fiorentini a richiamare tutti gli esiliati, ma in tale circostanza la sua sommissione alla volont? de' suoi nemici le era riuscita vantaggiosa. I nobili richiamati nel suo seno avevan vissuto in pace, e tale era in questo secolo la semplicit? de' costumi privati e l'economia de' pi? ricchi cittadini, che ad una citt? bastava il riposo di pochi anni per vedere duplicate le proprie entrate, e trovarsi per cos? dire imbarazzata dalle sue ricchezze. Era ignoto ai Pisani il lusso della mensa, degli addobbi e della numerosa servit?, bench? il loro fertile territorio producesse ogni anno ubertose ricolte e fossero ad un tempo proprietari e sovrani di quasi tutta la Sardegna, della Corsica e dell'isola dell'Elba. Avevano inoltre stabilite colonie a san Giovanni d'Acri ed a Costantinopoli, e le loro fattorie in queste due citt? facevano un estesissimo commercio coi Saraceni e coi Greci. N? ci voleva meno di cos? grosse entrate, come erano le loro, per supplire alle immense spese delle guerre marittime, e per far fronte alle ruine che accompagnavano sempre la disfatta di ogni fazione, quand'erano confiscati i beni dei vinti, e le loro case abbandonate al saccheggio. Nulladimeno perch? in tempo di guerra non si erano consumate le entrate a venire, la pace accumulava nuove fortune, e riparava in pochi anni le perdite delle passate guerre. Pisa a quest'epoca contava tra i suoi cittadini vari signori che pei loro titoli, le ricchezze ed il numero de' vassalli avrebbero potuto pareggiarsi ai sovrani d'Italia. Il giudice di Gallura, il giudice d'Arborea, il conte Ugolino, il conte Fazio, il conte Nieri, ed il conte Anselmo, avevano cadauno una piccola corte ed una piccola armata. I Pisani andavano orgogliosi della magnificenza di tanti signori, che si gloriavano d'essere loro concittadini. Essi soffrivano di mala voglia la rivalit? de' Genovesi che, avendo anch'essi stabilimenti nel Levante, s'arricchivano egualmente collo stesso commercio e loro disputavano la sovranit? delle isole del Mediterraneo. Sebbene l'un popolo e l'altro fossero in quest'epoca governati dalla fazione ghibellina, mal sapevano contenere il concepito vicendevole odio. Sembra che le prime ostilit? fossero provocate dai Pisani.

I ladronecci del giudice, ossia signore di Ginerca in Corsica furono cagione della rottura. I Genovesi, come protettori della citt? di Bonifazio, vollero reprimerli, e nel mese di maggio del 1282 spedirono in Corsica quattro galere con duecento cavalli e cinquecento soldati. Il giudice battuto da questa piccola armata venne a Pisa ad implorare i soccorsi della repubblica, di cui si riconobbe vassallo. I Pisani lo presero in fatti sotto il loro patrocinio, ed intimarono ai Genovesi di non recargli ulteriore molestia, facendo in pari tempo passare in Corsica alcune truppe per ajutarlo a difendersi.

A questo s'aggiunsero altri atti d'ostilit?, che fieramente inasprirono il vicendevole odio dei due popoli. Una galera genovese che tornava dalla guerra di Sicilia fu, senza averli provocati, presa dai Pisani; i Genovesi che abitavano in san Giovanni d'Acri furono attaccati dai borghesi di quella citt? ad istigazione dei Pisani, cacciati dal loro quartiere, saccheggiati i magazzini ed incendiate le case.

Dopo avere per mezzo de' loro ambasciatori domandata invano soddisfazione di cos? gravi ingiurie, i Genovesi risolsero di ottenerla colle armi. Per altro i due popoli s'andarono lungo tempo provocando, ed in seguito evitandosi, senza venire seriamente alle mani. Ci? facevano, senza dubbio, gli uni e gli altri per addestrare le loro ciurme alle manovre militari, ed aver tempo di adunare i loro marinai sparsi su tutti i mari a servigio del commercio, prima di esporre l'onore delle loro armi, e forse la sorte delle repubbliche in una battaglia generale.

Alla fine d'agosto, Nicola Spinola si present? avanti alle foci dell'Arno con ventisei galere, e si ritir? quando i Pisani uscirono con trenta per dargli la caccia. Otto giorni dopo, l'ammiraglio pisano, Guinicello Sismondi, spieg? anch'egli le vele per cercare i Genovesi a casa loro. S'avanz? fino a Porto Venere senza incontrare la flotta genovese, e, dopo aver saccheggiato quel porto e la vicina campagna, fu assalito il 9 settembre, mentre si ritirava, da una burrasca che fece incagliare la met? delle sue navi tra Viareggio ed il Serchio.

L'orgoglio di questi due popoli e il desiderio di superarsi l'un l'altro colla forza aperta e non colle astuzie ch'essi sprezzavano, mantenne fra loro fin verso alla met? di questa guerra una singolare costumanza. Ogni repubblica mandava presso l'altra un notajo con quattro esploratori, dando loro apertamente commissione di rendere conto alla loro patria dei progetti e degli apparecchi dei loro nemici. I Pisani, ufficialmente avvisati dai loro esploratori del numero delle galere che facevansi a Genova, disposero di farne anch'essi altrettante; e nello stesso tempo nominarono loro ammiraglio Rosso Buzzacherini della famiglia Sismondi come il suo predecessore.

Non pertanto l'anno 1283 si pass? come il precedente in una specie di torneo marittimo nel quale non si fece cosa di molta importanza da una parte e dall'altra, limitandosi a far pompa delle straordinarie loro forze. I Pisani furono veduti una volta avanzarsi con sessantaquattro galere fin presso al porto di Genova, mentre sortivano settanta vascelli genovesi per incontrarli, i quali dopo essere rimasti alcun tempo in faccia gli uni agli altri, temendo ambedue d'esporsi contro forze eguali, si ritirarono senza venire alle mani. A stento si pu? concepire come due sole citt? potessero armare due flotte press'a poco eguali a quelle con cui adesso si batterebbero le due pi? potenti nazioni d'Europa.

L'anno 1284 i Pisani ed i Genovesi trovaronsi abbastanza esercitati e padroni di tutte le loro forze onde desiderare egualmente di metter fine alla guerra con pi? sanguinose e decisive battaglie. I Pisani nominarono loro ammiraglio Guido Jacia, e gli commisero di scortare con ventiquattro vascelli il conte Fazio che mandavano in Sardegna con truppe e danaro per assoldarne delle altre. Il vascello che aveva a bordo il conte Fazio essendosi separato dagli altri, fu incontrato nel mar sardo da una flotta genovese di ventidue galere capitanata da Enrico de Mari. Il vascello fu preso quasi senza battersi, e bruciato dai Genovesi quando videro la flotta pisana far forza di vele per raggiugnerli. La battaglia s'appicc? in seguito tra le due flotte il primo di maggio, e si sostenne tra forze quasi uguali lungo tempo con notabile perdita da ambo le parti. Finalmente essendo stato calato a fondo un vascello pisano, ed altri tre danneggiati in modo, che dopo essere usciti dalla pugna perirono in aperto mare, la vittoria si dichiar? pei Genovesi, che presero e condussero a Genova otto galere e mille cinquecento prigionieri; non essendo rientrati nel porto di Pisa che dodici galere con molta difficolt?.

Ma lungi dallo scoraggiarsi per tale disfatta, i Pisani raddoppiarono i loro apparecchi per farne vendetta. Nominarono loro podest? Alberto Morosini di Venezia, che godeva nella sua patria riputazione di eccellente capitano di mare; gli aggiunsero come capitani della loro flotta il conte Ugolino della Gherardesca ed Andreotto Saracini. Il tesoro erasi quasi esaurito ne' precedenti armamenti; ma tutti i gentiluomini pisani s'incoraggiarono a fare colle private loro fortune un generoso sforzo per ricuperare l'onore della patria. I Lanfranchi, ch'erano in allora la pi? numerosa famiglia di Pisa, armarono undici galere, i Gualandi, i Lei ed i Gaetani ne armarono sei, tre i Sismondi, quattro gli Orlandi, gli Upezzinghi cinque, i Visconti tre, i Moschi due, ed altre famiglie si unirono per armarne una. Questo generoso patriottismo cre? una flotta di cento tre galere, che spieg? le vele nel mese di luglio, e venne a schierarsi in faccia al porto di Genova. L? i Pisani provocarono i Genovesi ad uscire per combatterli, e lanciarono contro il porto molte freccie d'argento. Era questa una braveria in uso tra que' due popoli, che, per quanto sembra, solevano in tal modo fare pomposa mostra della loro ricchezza e prodigalit?. I Genovesi sfidati risposero che i loro vascelli non erano ancora apparecchiati, ma che raddoppiarebbero d'attivit? per rendere ben tosto ai Pisani la loro visita.

Di fatti non erano da molti giorni rientrati nell'Arno i Pisani, che i Genovesi avendo armate cento sette galere, si presentarono ne' mari di Pisa, e mandarono a sfidare i loro nemici. I Pisani rimontarono su le loro galere con una sollecitudine, con un tale giubilo, che ben sembrarono felice presagio di vittoria. La maggior parte delle navi trovavansi ancorate tra i due ponti della citt?. Venne l'arcivescovo sul ponte vecchio con tutto il clero, e spiegando al vento lo stendardo del comune, bened? la flotta. Si moltiplicarono le grida di gioja, si lev? l'ancora, ed i vascelli scesero fino alla foce dell'Arno.

All'indomani 6 agosto 1284 le flotte si scontrarono presso all'isola della Meloria, e la battaglia incominci? poco dopo il mezzogiorno. I Genovesi che avevano ricevuto un nuovo rinforzo, nascosero Benedetto Zaccaria, che l'aveva condotto, con trenta galere dietro la piccola isola della Meloria; per la quale manovra sembrando le due flotte d'uguale forza, i Pisani non si rifiutarono di porre in arbitrio d'una battaglia la salvezza della loro repubblica, ed il dominio del mare inferiore.

Le due flotte s'avanzarono divise in pi? corpi. Tra i Pisani il podest? Morosini comandava la prima squadra, Andreotto Saracino la seconda, ed il conte Ugolino la terza: le tre squadre della flotta genovese erano comandate dall'ammiraglio Oberto Doria, Corrado Spinola e Benedetto Zaccaria. Terribile fu l'urto delle due prime che vennero alle mani nello stesso istante, e la battaglia si continu? lungo tempo, senza che si scorgesse una parte pi? avvantaggiata dell'altra; ma la vista di quel fatto, dice uno storico genovese, ispirava ad un tempo orrore e compassione. Infinito era il numero di coloro che perivano in cento diverse maniere; gli uni cadevano mutilati sul ponte, altri erano precipitati semivivi nell'onde; allora nuotavano intorno alle navi, ed imploravano l'ajuto e la piet? de' loro compatriotti e de' loro nemici; prendevano tutto quanto veniva loro alle mani, s'aggrappavano ai remi, e, perci? che in tal guisa sospendevano la manovra, per continuare la battaglia venivano respinti cogli stessi remi, e ricacciati nell'acque. Intorno ai vascelli il mare era vermiglio pel sangue che usciva dai bocca-porti; ogni onda era coperta di cadaveri, di scudi, di lance, di freccie, di caschetti. Frattanto i capitani gridavano per incoraggiare i loro soldati, non cessando di ripeter loro che questa volta trattavasi della salvezza della patria; che spesso avevano combattuto coi medesimi nemici cogli eterni nemici della loro citt?; ma che prima d'ora i due popoli non eransi ancora trovati tutt'intieri in faccia l'uno dell'altro, che non avevano giammai, per ottenere la vittoria in una sola battaglia, sagrificate tutte le risorse delle battaglie future: ed i soldati, rispondendo con furibonde grida a tali conforti, raddoppiavano i loro sforzi.

Le galere battevansi all'arrembaggio, e quella montata dal Morosini era alle mani col vascello ammiraglio d'Oberto Doria. In quest'istante i trenta vascelli di Benedetto Zaccaria uscirono dall'opposta riva della Meloria e s'unirono alle altre navi genovesi. La galera di Zaccaria si pose dall'altro lato del vascello ammiraglio pisano, il quale, attaccato da due bande, fu finalmente preso dopo una lunghissima resistenza, mentre un altro vascello che portava lo stendardo del comune di Pisa, attaccato da due galere, cadeva pure in potere dei nemici. Questa doppia perdita sparse il terrore nella flotta pisana, ed il conte Ugolino, come assicurano gli scrittori pisani, colse quell'istante per dare il segno della fuga, non per vilt?, ma per indebolire la sua patria, onde pi? facilmente ridurla in servit?.

La disfatta, dopo cos? accanita battaglia, fu compiuta; i Genovesi presero ventotto galere, e sette ne colarono a fondo, valutandosi la perdita dei Pisani a cinque mila morti, ed undici mila prigionieri. Siccome questi ultimi furono condotti a Genova e vi rimasero lungo tempo in prigione, dicevasi comunemente in Toscana che oramai per veder Pisa bisognava andare a Genova.

La prima notizia che giunse a Pisa della battaglia, vi sparse la desolazione e lo spavento; le donne, dimenticando nell'estremo dolore la consueta loro modestia e la loro cura di nascondersi agli occhi del pubblico, ingombravano le strade che conducono al mare. Confuse cogli uomini stringevansi intorno a coloro che tornavano dalla battaglia, non lasciandoli andare avanti se prima non avevano soddisfatto alle loro domande. Ma di mano in mano che gli arrivati avevano parlato, si vedevano staccarsi dalla folla matrone desolate che, informate della morte de' loro sposi, figli o fratelli, si appartavano, percuotendosi il petto e stracciandosi i capelli. Tutte partecipavano di questa universale afflizione; perciocch? non eravi in Pisa una sola famiglia che non avesse parte a tanto infortunio, e non avesse a versar lagrime almeno sopra uno de' suoi membri, avendone molte perduti due, tre ed anche pi?. Fu d'uopo che i magistrati essi medesimi s'interponessero per far rientrare, quasi a forza, nelle proprie case tanti infelici che il dolore rendeva forsennati; e quando, dopo alcuni giorni, le donne uscirono nuovamente di casa, per pregare ne' templi, non ne fu vista una sola che non fosse vestita di corrotto. Pel corso di sei mesi non altro udivansi in Pisa che gemiti, gridi e funebri rimembranze.

Intanto i Genovesi, rientrati in porto, festeggiavano ne' templi la loro vittoria, e consultavano intorno alla sorte di tanti prigionieri. Alcuni senatori proponevano di cambiarli contro il forte di Castro in Sardegna, il quale risguardavasi come il baluardo de' possedimenti de' Pisani in quell'isola; ed altri preferivano una taglia in danaro. Ma la gelosia nazionale sugger? il pi? dannoso consiglio di tenerli in prigione perpetuamente, affinch? le loro mogli, non potendo rimaritarsi, venisse Pisa a mancare di nuova popolazione. Questo consiglio fu adottato, ed essendosi prolungata la guerra tredici anni, quando finalmente la pace rendette la libert? a quel misero avanzo di prigionieri, trovaronsi per le riportate ferite, per malattie, per l'et? ridotti a cos? ristretto numero che, di undici mila, ne tornarono a Pisa appena mille.

Se la condotta de' Genovesi fu poco generosa, quella de' Guelfi toscani lo fu ancora meno. Pisa era la sola citt? ghibellina della provincia; onde essi determinarono di approfittare della presente sventura per distruggerla colla sua fazione. Fecero perci? proporre ai Genovesi di collegarsi con loro, promettendo di assediare Pisa per terra, mentre i Genovesi la chiuderebbero dalla banda dei mare, obbligandosi di non accordarle la pace a veruna condizione, ma di atterrarne le mura e disperderne i cittadini nelle vicine terre. Fiorenza, Lucca, Siena, Pistoja, Prato, Volterra, San Gemignano e Colle sottoscrissero quest'alleanza coi Genovesi, ed il 10 di novembre tutti i Fiorentini domiciliati in quella citt? l'abbandonarono, giusta l'ordine ricevuto dalla loro patria, mentre seicento cavalieri al soldo di Firenze entravano, per la strada di Volterra, nel territorio pisano, guastandolo e facendo ribellare molte terre.

Erano i Pisani informati delle strette relazioni che il conte Ugolino della Gherardesca aveva conservate coi Fiorentini; conoscevano inoltre i talenti e l'accortezza di questo ambizioso cittadino, e l'arte con cui aveva saputo rendersi influente presso le due fazioni, ghibellino di nascita e guelfo per le contratte parentele. Nella difficile situazione in cui si trovavano, risolsero i Pisani di mettere il conte alla testa della repubblica, come i Romani in meno critiche circostanze avrebbero nominato un dittatore. Si assicura che i Pisani prigionieri in Genova, i quali dalle loro prigioni non lasciavano di conservare molta influenza sulle deliberazioni della loro patria, proposero essi medesimi tale elezione. Il conte Ugolino fu nominato per dieci anni capitano generale di Pisa; e la prima cura affidatagli fu quella di sciogliere la lega formata contro la patria.

Il conte tent? in appresso di trattare coi Genovesi, offrendo loro Castro in Sardegna come taglia de' prigionieri fatti nella battaglia della Meloria; ma i prigionieri, avuto avviso di questo trattato, ottennero dai Genovesi il permesso di mandare dei commissarj a Pisa per esprimere il loro voto. Introdotti questi nel consiglio, dichiararono di non poter acconsentire a cos? vergognosa capitolazione; che preferivano di morire in prigione piuttosto che permettere alla loro patria di privarsi d'un forte fabbricato dagli antenati loro, e difeso con tanto sangue e tanti travagli; che se i consigli potevano prendere una tanto colpevole risoluzione, non sarebbero essi prigionieri prima liberati, che si farebbero conoscere i pi? implacabili nemici di que' pusillanimi magistrati, castigandoli dell'avere sagrificato il proprio onore a vani e fuggitivi godimenti. In conseguenza di cos? magnanima risoluzione si abbandon? il trattato aperto coi Genovesi.

Allora il Conte Ugolino prese a trattar di pace colla repubblica di Lucca, la quale proponeva per condizione che i Pisani le cedessero i castelli d'Asciane, Avane, Librafatta e Viareggio. Non era probabile che i Pisani volessero cedere ai Lucchesi tante fortezze, le quali erano come la chiave del loro territorio, in tempo che non avevano voluto liberare undici mila de' loro cittadini, abbandonando ai Genovesi Castro in Sardegna: ma il conte Ugolino temeva in segreto il ritorno de' prigionieri ch'egli conosceva incapaci di prestarsi mai alla tirannide ch'egli meditava di stabilire; mentre per l'opposto desiderava di procurare non alla patria, ma alla sua famiglia l'appoggio e l'amicizia de' Lucchesi. Convenne perci? con questi che lascerebbe sorprendere dalle loro truppe le castella ch'essi chiedevano; e nello stesso tempo altri ne accord? ai Fiorentini, talch? pi? non restarono a Pisa che Motrone, Vico Pisano e Piombino.

Per tal modo credeva il conte Ugolino di avere assicurato in Pisa il suo potere; ma questa repubblica gi? cos? ricca e bellicosa, che ora vedevasi spogliata di tutto il suo territorio, che pi? non ardiva mettere un vascello in mare per paura che le fosse tolto dai Genovesi, e che per colmo delle sue sventure vedeva fondarsi entro le sue mura una nuova tirannide, non era in modo tollerante da soffrirne lungo tempo il giogo. Il conte rendevasi egualmente esoso ai Guelfi ed ai Ghibellini. Nino di Gallura, suo nipote, era il capo naturale della parte guelfa, quale erede della famiglia Visconti; ma poich? Ugolino erasi dichiarato protettore de' Guelfi, gli stessi Visconti sembravano avvicinarsi ai Ghibellini; e Nino, bench? fosse figliuolo d'una sorella del conte, non aveva perci? scordata l'antica rivalit? delle famiglie de' loro padri. Ugolino ebbe sentore delle pratiche de' suoi nemici; esili? molte famiglie ghibelline, e fece atterrare i palazzi di dieci delle principali famiglie di Pisa, che accus? di criminose intelligenze collo stesso partito.

In aprile del 1287, la repubblica ricevette quattro nuovi deputati dei prigionieri di Genova, che venivano a trattare della pace e della taglia. Il trattato che essi proponevano, non ponendo verun'altra condizione alla loro libert? che il pagamento d'una somma di danaro, era stato sottoscritto dagli stessi prigionieri: pure passarono tredici mesi senza che a Pisa si fosse potuto ottenerne la ratifica, tanti erano gli ostacoli che il conte vi andava frapponendo. Intanto Ugolino erasi nuovamente impadronito del palazzo pubblico, cacciatone il podest?, e fattosi dichiarare capitano e signore di Pisa. Aveva prescelto per la inaugurazione il giorno della sua nascita, e, mentre tornando da un banchetto, rientrava in casa sua gonfio d'orgoglio ed inebbriato della propria fortuna, disse ad alcuno di coloro che gli erano vicini: <> Ne tard? questa a colpirlo.

Vedendo il conte che il popolo era disposto ad approvare il trattato sottoscritto a Genova e che Nino di Gallura ed i Guelfi medesimi ne affrettavano l'esecuzione, commise ad alcuni corsari Sardi d'armare in corso contro i Genovesi in disprezzo della convenuta sospensione d'armi, ricominciando in tal modo le ostilit?. Volle in pari tempo ravvicinarsi ai Ghibellini di Pisa, e propose un'alleanza all'arcivescovo degli Ubaldini ch'erasi fatto loro capo, onde di concerto cacciare fuori di citt? Nino ed i Guelfi. Per altro, siccome non voleva affatto perdere presso i Fiorentini suoi antichi alleati la riputazione d'essere guelfo ancor egli, quand'ebbe tutto disposto perch? i suoi satelliti secondassero l'arcivescovo ed i Ghibellini, ritirossi al castello di Settimo per non essere presente alla imminente rivoluzione. Ruggeri degli Ubaldini fece rientrare in citt? i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi ed alcune altre famiglie ghibelline, gli un? alle truppe del conte, e per tal modo si trov? tanto superiore di forze al giudice di Gallura, che questi senza combattere si ritir? col suo partito a Calcinara.

Il popolo volle allora associare nel governo della repubblica l'arcivescovo Ruggeri al conte Ugolino; e forse era questa una delle segrete condizioni del trattato tra le due parti: ma Ugolino dichiar? orgogliosamente che non soffrirebbe compagno, e che non conosceva eguale. Insistevano invano i Ghibellini perch? alcuno del loro partito fosse messo a parte del governo; Ugolino voleva essere solo; onde l'arcivescovo n? meno ambizioso, n? meno dissimulato del conte, si ritir? dal palazzo della comunit? ove il popolo l'aveva fatto entrare, senza mostrare verun risentimento o dar sospetto ad Ugolino d'aver cessato d'essere suo amico.

La prosperit?, lungi dall'addolcire i tiranni, li rende d'ordinario suscettibili di pi? violenta irritazione quando incontrano la pi? leggera opposizione alla loro volont?; e non pertanto potrebbero ben gli uomini rimanere docilissimi sotto il despotismo, che non perci? cambieranno mai le leggi della natura, ed un tiranno in mezzo ai pi? costanti successi trover? ancora motivi d'impazienza. La guerra marittima, i diplomi civili, e, pu? darsi ancora, l'irregolarit? delle stagioni, avevano accresciuto il prezzo de' grani e non erano facili a trovarsi: lagnavasene il popolo, ed accusava il conte dei cari prezzi delle derrate. Tale era intanto la violenza degl'impeti di collera d'Ugolino, che niuno osava fargli note le lagnanze del popolo, ed avvisarlo del pericolo cui potevano esporlo. Uno de' suoi nipoti incaricossi di cos? difficile incumbenza, e gli propose di sospendere il prezzo delle gabelle per minorare il prezzo de' viveri. Egualmente intollerante di rimproveri e di consigli, Ugolino, cavato il pugnale che teneva in seno, lo fer? in un braccio, ed avrebbe in quell'impeto di sdegno ucciso il nipote, se non gli fosse stato tolto dalle mani. Uno de' nipoti dell'arcivescovo, intimo amico del ferito giovane, nell'atto che gli fece scudo del suo corpo proruppe in rimproveri contro il conte, il quale, diventato furibondo, lanci? un'accetta, che gli venne tra le mani, sul capo del nipote dell'arcivescovo e lo stese morto ai piedi.

Ruggeri degli Ubaldini compresse il suo dolore e la sua collera finch? non si fu assicurato dell'ajuto di tutti i Ghibellini. Il primo di luglio essendosi adunato il consiglio nella chiesa di san Bastiano per deliberare intorno alla pace coi Genovesi, si separ? senza aver nulla conchiuso, perch? il conte non lasciava di frapporre ostacoli all'esecuzione del trattato, a fronte delle istanze che andavano facendo caldissime i Ghibellini. Nell'uscire di chiesa l'arcivescovo fu avvisato che Nino, detto il Brigata, radunava battelli per andare in traccia dei Guelfi ed introdurli nuovamente in citt?; perch? l'arcivescovo non frapponendo pi? dimora, fece gridare all'armi dai Ghibellini suoi partigiani, e suonare a stormo la campana del popolo. I Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi si fecero intorno all'arcivescovo Ruggeri con parte degli Orlandi, dei Ripafratta e delle altre famiglie ghibelline. Il conte Ugolino con due suoi figliuoli e due nipoti, gli Upezzinghi, i Gaetani ed i suoi satelliti difendevano la piazza e le vicinanze di san Bastiano e di san Sepolcro. Dopo lungo combattimento essendo caduto morto un suo bastardo, e sembrandogli i Ghibellini pi? forti, si chiuse nel palazzo del popolo, che continu? a difendere dal mezzogiorno fino a sera. Gli assedianti alla fine si determinarono di appiccargli il fuoco, e penetrandovi in mezzo alle fiamme, fecero prigioni il conte Ugolino, i suoi minori figli Gaddo ed Uguccione, Nino, detto il Brigata, figliuolo di Guelfo, suo figliuolo allora assente, ed Anselmuccio figliuolo anche esso d'un altro suo figliuolo detto Lotto, ch'era morto.

Sono questi i cinque personaggi, di cui Dante rese tanto celebre la deplorabile morte. Dopo averli chiusi nella torre de' Gualandi alle Sette Vie sulla Piazza degli Anziani, l'arcivescovo passati alcuni mesi fe' gettare in Arno le chiavi della prigione, e non permise che fosse loro recato alcun cibo. L'orrore del suo supplizio fece dimenticare i delitti gravissimi di Ugolino, ed il suo nome rimase quasi unico esempio nella storia di un tiranno che ispira piet?, e che viene punito dal suo popolo pi? severamente che non meritassero le sue colpe. Dante racconta d'aver veduto Ugolino nell'inferno fra i traditori della patria entro ad un eterno ghiaccio, dal quale gli usciva soltanto il capo, ed avanti a lui stava il capo dell'arcivescovo Ruggeri di cui rodeva il cranio con avidit? pari alla fame sofferta. Ugolino, interrogato da Dante, fa il patetico racconto delle terribili angosce patite negli ultimi suoi giorni dall'istante in cui aveva udito chiudersi l'orribile torre fino al nuovo giorno in cui per? di fame.

Si omettono i versi di Dante riportati dall'autore, siccome troppo noti a tutti gl'Italiani.

I frequenti cambiamenti di partito del conte Ugolino hanno resa alquanto confusa la sua storia; onde non deve recare meraviglia che sia tanto oscura, a fronte della celebrit? del suo nome e dell'estrema sua sciagura. Questa storia per altro fu l'argomento d'ampie e numerose dissertazioni. Quelle del caval. Flaminio del Borgo, che formarono un volume in 4?, non hanno altro scopo che quello di purgare i Pisani dal rimprovero di crudelt? loro fatto da Dante e ripetuto da tutti coloro che leggono il suo divino poema. Prese per epigrafe questo verso

Tutte le indulgenze della Chiesa, e tutti i suoi favori furono promessi a coloro che ajuterebbero la casa di Francia nella conquista di questo nuovo regno; e si giunse perfino a predicare una crociata in favore di Carlo di Valois. Ma perch? i principi francesi avevano pi? a cuore la Sicilia che l'Arragona, il re Carlo nel presente anno non si occup? che degli apparecchi necessarj per far l'impresa di quell'isola; e nel mese di maggio del 1284 part? dai porti di Provenza alla volta di Napoli con cinquantacinque galere armate e tre grosse navi cariche di truppe.

Ruggeri di Loria, grande ammiraglio di Sicilia, avendo avviso della vicina venuta di Carlo, si rec? in faccia a Napoli con quarantacinque galere, dopo avere corse le coste del principato per provocare alla battaglia Carlo detto lo Zoppo, principe di Salerno, e figliuolo del re, che governava il regno in assenza del padre. Questo principe non sostenne gli oltraggi de' Siciliani e de' Catalani che accusavano i Francesi di codardia; fece mettere alla vela venticinque galere che teneva nel porto, e andatovi a bordo con tutti i suoi cavalieri francesi e provenzali, si fece incontro all'ammiraglio siciliano, malgrado il comando espresso del padre che gli vietava di combattere. In fatti egli era troppo debole da cimentarsi con quell'ammiraglio, il pi? esperto e fortunato del suo secolo; i suoi soldati erano similmente in numero e in zelo minori di quelli del Loria, e meno avvezzi al mare: perci? dopo il primo attacco, fuggirono le galere di Sorrento e del principato, facendo forza di remi. Furono dalla flotta siciliana prese otto navi francesi sulle quali trovavasi lo stesso principe con tutti i suoi pi? ricchi baroni.

Accadde che, mentre Ruggeri di Loria manovrava in parata, dopo cos? glorioso fatto, innanzi al porto di Napoli, credendo gli abitanti di Sorrento che quella battaglia deciderebbe della sorte della casa Angioina, spedirono deputati all'ammiraglio per complimentarlo ed offrirgli frutta e denaro. I deputati, saliti sulla nave dell'ammiraglio, e veduto il principe Carlo riccamente vestito in mezzo a' suoi baroni, credettero che fosse Ruggeri di Loria, onde prostrati innanzi a lui gli offrirono i fichi e le duecento monete d'oro che avevano portato, e gli dissero: <> Carlo, quantunque afflitto da tanta sciagura, non pot? trattenersi di ridere dell'equivoco: <>

Carlo d'Angi? si sforz? di non mostrarsi abbattuto dall'avviso di questa disfatta, che ricev? quasi subito, trovandosi la sua flotta innanzi a Gaeta il giorno dopo la battaglia: ma si vendic? del poco affetto che gli aveano mostrato i Napoletani, facendone appiccare pi? di centocinquanta; colla quale crudele esecuzione pretendeva d'aver fatto grazia a Napoli, che a suo credere meritava d'essere distrutta. Fiss? per luogo di unione delle sue tre flotte di Provenza, di Salerno e di Puglia, Concione in Calabria; ed egli and? per terra a Brindisi per affrettare l'armamento dell'ultima.

Add to tbrJar First Page Next Page

 

Back to top