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Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 04 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde

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Ebook has 346 lines and 104773 words, and 7 pages

Carlo d'Angi? si sforz? di non mostrarsi abbattuto dall'avviso di questa disfatta, che ricev? quasi subito, trovandosi la sua flotta innanzi a Gaeta il giorno dopo la battaglia: ma si vendic? del poco affetto che gli aveano mostrato i Napoletani, facendone appiccare pi? di centocinquanta; colla quale crudele esecuzione pretendeva d'aver fatto grazia a Napoli, che a suo credere meritava d'essere distrutta. Fiss? per luogo di unione delle sue tre flotte di Provenza, di Salerno e di Puglia, Concione in Calabria; ed egli and? per terra a Brindisi per affrettare l'armamento dell'ultima.

Frattanto il papa, sulla domanda del re Carlo, aveva spediti due cardinali in Sicilia per conferire coi ribelli, e liberare se era possibile l'unico suo figliuolo, loro prigioniero. Carlo sotto il peso delle traversie, che da due anni lo perseguitavano incessantemente, aveva alquanto perduto di quel fermo ed intrepido carattere che aveva sempre mostrato, e di quella confidenza nella propria fortuna, cui pi? che a tutt'altro era debitore delle altre sue qualit?. Quantunque avesse sotto i suoi ordini una flotta di centodieci vascelli, si lasci? aggirare dai negoziati de' Siciliani, e pass? l'estate senza far nulla. La mancanza di vittovaglie e l'avvicinarsi dell'equinozio l'obbligarono a tornare a Brindisi. Nell'inverno and? in Puglia, ammassando danaro, vittovaglie ed uomini, per rinnovare in primavera la guerra con maggior vigore; ma un amaro presentimento della sua rapida decadenza e del trionfo di nemici che aveva prima disprezzati, lo rodevano internamente. Lo sforzo che egli faceva per comprimere il suo dolore ed il suo scoraggiamento, guastavano la sua salute; sicch? cadde finalmente infermo a Foggia. Le ultime sue parole furono dirette all'ostia sacra nell'atto di ricevere la comunione nel suo letto della morte. <> Mor? poco dopo il giorno 7 di gennajo del 1285 in et? di sessantacinque anni, dopo averne regnato diecinove in Napoli. Malgrado la testimonianza che rendeva a s? medesimo negli ultimi istanti di vita, non possiamo facilmente credere che un uomo tanto ambizioso e crudele non avesse altro scopo nelle ingiuste conquiste che costarono tanto sangue, che la gloria di Dio.

La sua morte precedette di poco quella de' principali monarchi, che come suoi amici, o rivali, avevano con lui travagliata l'Europa. Filippo V l'ardito, dopo una rovinosa campagna in Arragona, mor? a Perpignano il 6 ottobre dello stesso anno; Pietro d'Arragona cess? di vivere a Barcellona l'otto di novembre per le ferite avute nella stessa campagna; e Martino IV, fedele creatura e cieco strumento di Carlo, era morto il 25 marzo dello stesso anno a Perugia.

Il principe di Salerno, erede del regno, trovavasi prigioniero degli Arragonesi, che dalla Sicilia lo avevano trasportato in Catalogna; sicch? fu il suo figlio primogenito, allora in et? di soli dodici in tredici anni, che prese possesso del regno sotto la direzione di Roberto conte d'Artois, suo cugino, e d'un consiglio di baroni francesi. In tale occasione papa Onorio IV, successore di Martino, pubblic? una bolla intorno al governo del regno e per riformare gli abusi che vi si erano introdotti. D'altra parte don Giacomo, il secondo figliuolo di Pietro d'Arragona, fu incoronato re di Sicilia, mentre il fratello maggiore ereditava gli stati paterni nelle Spagne: e la lotta del mezzo giorno d'Italia che aveva cominciato a guisa d'una guerra di giganti, si prolung? molti anni fra deboli principi, i di cui fatti pi? non meritano l'attenzione dell'Europa.

La debolezza della casa d'Angi? agevol? alla repubblica fiorentina i mezzi d'impadronirsi dell'amministrazione della parte guelfa fin allora diretta dal re di Napoli, e di chiamare a s? i negoziati di tutta la fazione. Ma la repubblica fiorentina in tempo che acquistava tanta influenza sulle altre province d'Italia, non era meno delle repubbliche sue rivali travagliata da intestine discordie. Lo zelo che i Fiorentini mostrarono in favore della loro patria, cui, sacrificando vita ed averi, innalzarono ad un grado di potenza assai superiore alle loro ricchezze ed alla popolazione, era un risultamento del loro amore di libert?, di quella sediziosa democrazia che, solleticando l'amor proprio e le passioni d'ogni classe di persone, le rendeva tutte energiche e valorose.

Tutto il potere esecutivo e la rappresentanza dello stato fu data a sei priori. Per tenerli uniti ed accrescerne la vicendevole benevolenza, furono chiamati a vivere insieme, spesati dal pubblico ed alloggiati nel suo palazzo. Finch? rimanevano in carica non si permetteva loro d'uscire di palazzo, diventato ad un tempo carcere pei priori e fortezza per lo stato. Ma o sia affinch? questa vita interamente pubblica non tenesse troppo tempo lontani i mercanti dai loro affari, sia perch? non avessero tempo di maturare ambiziosi progetti e di aspirare alla tirannide, o perch? si facesse luogo ad un maggior numero d'aspiranti, la durata d'ogni signoria fu fissata a due mesi, dopo i quali, coloro che uscivano di carica, non potevano n? raffermarsi, n? rieleggersi se non passati due anni; di modo che il governo rinnovavasi tutt'intero sei volte all'anno nella repubblica fiorentina, ed in tutte le altre che tosto ne adottarono la costituzione.

La gelosia del popolo verso la nobilt? aveva fatta nascere anche in Arezzo una somigliante rivoluzione; ma perch? questa citt? era meno popolata, ed i nobili proporzionatamente pi? forti e protetti dal vescovo Guglielmo degli Ubertini, del 1287 fecero nascere una controrivoluzione, la quale, rimettendo nelle loro mani tutto il governo, li consigli? a dichiararsi pel partito ghibellino che in tale epoca era oppresso in tutta la Toscana. I gentiluomini ed i Ghibellini perseguitati rifugiaronsi in Arezzo; perch? i Fiorentini, i Sienesi e tutta la lega guelfa, vedendo innalzarsi in tanta vicinanza lo stendardo dell'aristocrazia e del partito ghibellino, dichiararono la guerra a quella citt?.

Del 1288, poco dopo quella d'Arezzo, scoppi? la rivoluzione di Pisa, della quale si ? detto di sopra in questo capitolo: il conte Ugolino fu gettato in prigione, e la repubblica dichiarossi pel partito ghibellino, cui il popolo aveva in ogni tempo segretamente aderito. E per tal modo due prelati, Ruggeri degli Ubaldini arcivescovo di Pisa, e Guglielmo degli Ubertini vescovo d'Arezzo, trassero di concerto nel medesimo tempo le due citt? alle spirituali loro cure affidate nella fazione opposta alla Chiesa. Per altro i Pisani, per essere pi? in istato di sostenere la guerra loro dichiarata dalla lega toscana, chiamarono il conte Guido di Montefeltro, e lo nominarono loro capitano. Aveva costui acquistata opinione di valoroso guerriero nella difesa di Forl? contro il conte d'Appia, ma in appresso era stato obbligato a pacificarsi colla Chiesa, ed a ritirarsi in Piemonte nella citt? d'Asti assegnatagli come luogo del suo esilio.

Nel 1289 la fortuna non mostrossi egualmente favorevole alle due citt? ghibelline nella guerra ch'ebbero a sostenere contro la lega toscana: gli Aretini, dopo essere rimasti vittoriosi dei Sienesi, furon rotti dai Fiorentini a Certomondo presso di Campaldino nel Casentino il giorno 11 giugno del 1289, perdendo due mila quattrocento quaranta uomini tra morti e prigionieri. Contavasi tra i primi il vescovo Guglielmo degli Ubertini, il fiore della nobilt? aretina, ed i principali ghibellini emigrati da Firenze. Ma coloro che salvaronsi dalla strage, essendo entrati in Arezzo, posero la citt? in tale stato di difesa, che l'armata combinata di Firenze e di Siena non pot? impadronirsene.

Intanto i Pisani condotti dal bravo conte di Montefeltro, malgrado l'infinita superiorit? de' nemici, tra i quali contavansi pure il giudice di Gallura, i partigiani del conte Ugolino e tutti i Guelfi fuorusciti di Pisa; e malgrado che i Genovesi ritenessero undici mila valorosi pisani nelle loro prigioni, trattarono la guerra quasi sempre con prospero successo, ricuperando per sorpresa o di viva forza quasi tutte le castella del loro territorio. Il conte ch'era stato ad un tempo nominato podest? e generale delle armate per tre anni col soldo di dieci mila fiorini all'anno e con obbligo di seco condurre cinquanta uomini d'armi e trenta scudieri, incominci? dal cambiare l'armatura dell'infanteria; indi form? un corpo di tre mila balestrieri, che diligentemente addestr? all'armi per lo spazio di due mesi; talch? quei pedoni, risguardati fin allora come truppe di niun conto, diventarono formidabili alla stessa cavalleria, e sotto alla sua condotta ebbero fama d'essere i migliori balestrai di Toscana. In appresso pose su tutti i cittadini un'imposta di guerra per assoldare in comune un corpo di cavalleria; e mantenendo viva corrispondenza con quasi tutte le castella del vicinato, colla rapidit? delle sue manovre, e coi suoi prosperi successi, impose in modo alla lega toscana de' Guelfi, che l'anno 1293 dovette accordare alla repubblica pisana onorevole pace. I Fiorentini ottennero franchigia da ogni gabella nel porto di Pisa; i Guelfi furono rimessi in possesso de' loro beni, e, tranne poche castella lasciate ai Lucchesi, la repubblica di Pisa ricuper? i suoi antichi confini.

Per altro la pace dai Fiorentini accordata ai Pisani non dovevasi alle sole armi del conte Guido di Montefeltro, ma ancora alle interne turbolenze della citt? di Firenze. Le antiche famiglie guelfe dopo lo stabilimento dei priori delle arti e della libert?, non eransi mai riunite per ricuperare quella influenza sul governo, di cui erano state spogliate; anzi ogni casa nobile era in guerra con altra egualmente nobile, e la citt? sempre turbata dai reciproci insulti e dai privati loro combattimenti. Queste dissensioni facevano perdere ai gentiluomini ogni influenza nel governo della loro patria, ed il popolo non aveva motivo di nutrire gelosia verso un ordine che aveva cos? poca politica; ma se la nobilt? non dava al governo coll'inconseguenza delle sue intraprese ragionevole motivo di gelosia, non lasciava di provocare la collera del governo e dei cittadini con passaggere violenze, e coll'abituale disprezzo dell'ordine e delle leggi. Ogni famiglia nobile avrebbe creduto d'avvilirsi assoggettandosi ai tribunali; e se alcun suo individuo veniva arrestato dal capitano del popolo o tratto in giudizio, tentava di liberarlo a mano armata, senza curarsi di sapere qual delitto avesse commesso. Non eranvi pi? trasgressioni personali, perch? un'intera famiglia s'associava sempre al delitto ed agli sforzi del colpevole per sottrarsi al castigo. Il governo sentivasi troppo debole per lottare contro questi potenti avversarj, onde tutte le violenze usate dalla nobilt? alla plebe rimanevano sempre impunite. Finalmente il popolo, irritato da tanti insulti privati della nobilt?, si dispose di volerla in tutto reprimere con tali severissime leggi, che, fino a quest'epoca, in veruna repubblica, non era stato assoggettato a cos? tirannico ed arbitrario trattamento il primo ordine dello stato.

Era in Firenze un gentiluomo chiamato Giano della Bella, il quale, comech? discendesse da una delle pi? nobili famiglie toscane, o per non avere una fortuna proporzionata alla sua ambizione, o perch? i disordini di cui la nobilt? si rendeva colpevole gli avessero ispirato avversione, rinunci? ai privilegi de' suoi natali per associarsi al popolo contro la sua casta. Essendo Giano uno de' priori delle arti, approfitt? dell'opportunit? d'un'assemblea del popolo, o parlamento, per arringare sulla pubblica piazza i suoi concittadini. Domand? loro in nome della libert? di voler mettere fine all'insubordinata insolenza dei nobili ed agl'insulti cui erano i plebei continuamente esposti. Accus? i nobili di esercitare l'assassinio a mano armata, di strappare i querelanti davanti ai tribunali, di allontanarne a forza i testimoni, d'incutere timore agli stessi giudici e di sospendere o distruggere le leggi. Domand? altamente che la podest? pubblica si rendesse superiore alle forze private che osavano di starle a fronte; che si punissero l'intere famiglie, poich? queste non volevano abbandonare gl'individui alla correzione dei tribunali; che si rendesse la signoria pi? forte, chiamando il poter militare in soccorso dell'autorit? civile; e che si organizzassero in modo le guardie borghesi da non abbandonare giammai il palazzo de' priori delle arti e della libert?.

Per eseguire questa nuova giurisprudenza si divisero i borghesi in venti compagnie, ognuna di cinquant'uomini e indi a poco di duecento; e fu assegnata ad ogni compagnia la sua piazza d'armi e la sua bandiera. Furono poi tutte assoggettate ad un nuovo ufficiale, chiamato confaloniere o porta bandiera della giustizia. Il confaloniere era un ufficiale civile e non militare, il quale non ispiegava la bandiera in guerra contro i nemici dello stato, ma soltanto nelle spedizioni, per riunire sotto le insegne nazionali gli amici dell'ordine e della libert?. Quando appendeva alle finestre del palazzo pubblico, in cui abitava coi priori, il confalone della giustizia, i capi d'ogni compagnia dovevano adunare i loro uomini e raggiugnerlo. Allora usciva dal palazzo alla testa di questa milizia nazionale, attaccava i sediziosi e puniva i colpevoli.

Giano della Bella godeva troppa riputazione presso il popolo perch? potess'essere vantaggiosamente attaccato a forz'aperta, onde la proposizione fatta da Berto Trescobaldi di ucciderlo in una sommossa venne disapprovata come pericolosa. Si prefer? piuttosto di approfittare dei difetti del suo spirito e delle qualit? del suo carattere per alienargli i suoi partigiani. Giano era incapace di transigere tra il suo interesse e la severit? de' suoi principj. Alcuni uomini, ch'egli credeva suoi amici, gli rappresentarono gli abusi introdottisi nell'ordine de' giudici e de' notaj, il modo con cui spaventavano il podest? ed i rettori, minacciandoli di un'estrema severit? nel sindacato, di cui venivano incaricati quando i rettori uscivano d'ufficio, e le ingiuste grazie che con tal mezzo essi ottenevano da loro. Giano intraprese subito a reprimere colle leggi cos? perniciosi abusi, e con tale tentativo s'inimic? il potente e numeroso ordine de' giudici e de' notaj.

Quanto quest'ordine aveva di credito innanzi ai tribunali, altrettanto ne acquistava la corporazione de' macellai in tutte le sommosse: erano questi gente accostumata al sangue, che niente intimidiva e che nelle sedizioni era pronta sempre a pigliar le armi. Si stimol? Giano a rivedere gli statuti de' macellai ed a reprimere le frodi che commettevano; per tal modo egli si cre? de' nemici ardenti e pericolosi in mezzo a quella plebe medesima che gli era cos? ben affetta. Siccome si andava sollecitandolo con nuove denuncie a farsi nuovi nemici, lo storico Dino Compagni, che aveva scoperte le perfide mire di coloro che lo consigliavano, ne fece parte a Giano, pregandolo di rinunciare per alcun tempo ad una pericolosa severit?. <>.

Frattanto i nemici di Giano nella nuova elezione de' priori ottennero di far cadere la scelta sopra sei de' principali capi di quella aristocrazia plebea ch'era subentrata alla nobilt?. Tosto che costoro furono in carica, aprirono innanzi al capitano del popolo un'inquisizione intorno alla condotta di Giano della Bella, accusandolo d'avere in segreto eccitata un'insurrezione, che aveva avuto luogo pochi mesi prima.

Da prima la plebe parve irritarsi per somigliante accusa; si adun? intorno alla casa di Giano esibendogli di prendere le armi in sua difesa quand'anche avesse dovuto per ci? impadronirsi della citt?: il fratello di Giano si rec? pure collo stendardo del popolo fino ad Orsanmichele, lontano duecento passi dal palazzo della signoria. Ma Giano avvedendosi di essere tradito da coloro stessi che d'accordo con lui avevano innalzata la potenza del popolo, e che i suoi nemici erano potenti e riuniti in armi avanti al palazzo dei priori, non volle esporre la patria sua ad una guerra civile, n? presentarsi al tribunale de' giudici la cui equit? eragli per lo meno sospetta. Cedette adunque ed usc? di Firenze il 5 marzo del 1294, sperando che il popolo non tarderebbe a richiamarlo; ma invece fu condannato dal capitano del popolo e mor? in esilio. <>.

Dal giorno 2 aprile 1285 insino al giorno 3 aprile 1287.

Dal 22 febbrajo 1288 al 4 aprile 1292.

Queste parole ottennero sui cardinali di gi? scossi l'effetto d'una divina ispirazione. Coloro che non conoscevano Pietro di Morone, seppero dagli altri che questo vecchio religioso dell'ordine di san Benedetto viveva di lemosine, facendo vita eremitica sul monte di Motrone presso Sulmona nell'Abruzzo Citeriore; che col? nella miserabile sua cella macerava il suo corpo coi pi? rigorosi digiuni e le pi? austere penitenze; che la riputazione di sua santit? era appoggiata ai miracoli, cui in allora davasi intera fede. Alcuni accertavano ch'era venuto al mondo vestito con un abito da monaco; altri che Ges? Cristo era disceso da una croce per cantare con lui i salmi; altri infine che una celeste armoniosa campana lo risvegliava ogni notte all'ora della preghiera.

Il cardinal Latino fu il primo a dare il suo voto al venerabile eremita, ed il suo esempio fu all'istante seguito dagli altri, onde Pietro Morone fu eletto papa a pieni voti. Gli si mandarono un arcivescovo e due vescovi per partecipargli la segu?ta elezione. Il povero eremita, vedendo arrivare que' prelati di un rango tanto superiore al suo, si gitt? alle loro ginocchia; ed i prelati anch'essi si prostrarono chiedendo la benedizione al nuovo papa. Quando gli si pot? far intendere il sorprendente cambiamento del suo stato, tent? di sottrarsi colla fuga a tanti onori; ma la gente che accorreva da ogni banda per vedere un mendico trasformato in sovrano, gli chiuse la via e lo sforz? a tornare alla sua celletta.

Il nuovo papa pot? contare due re tra la folla che venne a vederlo, Carlo II re di Napoli, che gi? da sei anni era stato posto in libert? dagli Arragonesi mediante un trattato di pace che poi non osserv?, perch? il papa lo dispens? dagli emessi giuramenti, e suo figliuolo, Carlo Martello, che aveva il titolo di re d'Ungheria per avere sposata l'erede di quel regno. I due re vollero superare le dimostrazioni di rispetto date a Pietro Morone dai loro sudditi, tenendo ambedue la briglia del suo asino quando il papa, che si fece chiamare Celestino V, fece il suo solenne ingresso nella citt? dell'Aquila. Ma essi con s? fatti esteriori segni di rispetto acquistarono la pi? grande influenza sullo spirito del nuovo pontefice. Incominciarono dal persuaderlo a non prestarsi al desiderio de' cardinali che lo stimolavano a raggiugnerli a Perugia, a Roma, o in altra citt? dello stato ecclesiastico. Celestino V, malgrado le loro preghiere, fiss? la sua residenza all'Aquila, poscia in Napoli. Poco dopo, Carlo ottenne da lui la nomina di dodici nuovi cardinali, niuno de' quali nato nello stato della Chiesa, essendo tre delle due Sicilie e sette francesi: e questa promozione pu? risguardarsi come la prima causa del traslocamento della santa sede in Avignone.

Non tard? Celestino a dare le pi? luminose prove della sua assoluta incapacit? nel governo della Chiesa; convincendo coloro che potessero ancora dubitarne, che le virt? negative d? un eremita, l'astinenza, la penitenza, la non curanza del mondo e de' suoi interessi non sono qualit? che si convengano al sovrano di uno stato, o anche al supremo direttore delle coscienze di tutta la Cristianit?. I ministri che lo avvicinavano, l'ingannavano ogni giorno rispetto alle grazie che gli facevano distribuire. Talvolta accordava lo stesso beneficio a quattro o cinque persone, non ricordandosi mai d'averlo gi? ad altri conceduto: talvolta concedeva indulgenze tanto plenarie e cos? facilmente acquistate, che scandalizzavano la Cristianit?; e non di rado si ostinava a non voler occuparsi degli affari. Chiudevasi allora in una cameretta che aveva fatta fabbricare nel suo palazzo, e durante una delle quattro quaresime ch'egli aveva poste sul suo calendario, non voleva vedere chicchesia, occupandosi esclusivamente degl'interessi della sua anima.

Temeva il nuovo papa che qualcuno approfittasse della debolezza del suo predecessore, per rendergli dubbiosa la legittimit? della sua rinuncia, riducendolo a dichiararsi nuovamente papa. Effettivamente parte della Chiesa negava la validit? della rinuncia di Celestino, altri l'attribuivano ad una vergognosa debolezza, e Dante colloc? l'ombra di colui che fece il gran rifiuto tra la gente dimenticata che visse senza infamia e senza gloria:

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La prima traslazione della santa casa dalla Palestina a Tersacto appoggiavasi ad un avvenimento pur troppo vero, la presa di san Giovanni d'Acri fatta da Malec Seraph, e l'espulsione assoluta dei Latini da tutti i possedimenti che avevano in Terra santa. Acri o Tolemaide fu presa il 19 maggio del 1291; vi perirono trenta mila cristiani, e questa citt? ch'era l'emporio generale di tutto l'Oriente, fu chiusa per sempre ai Latini.

Tosto che Bonifacio si sent? assicurato sul trono pontificio, esort? i principi cristiani a vendicare gli oltraggi cui era stata esposta la religione. Scrisse a Edoardo I re d'Inghilterra, e ad Adolfo di Nassou re de' Romani per esortarli a mettere fine alle guerre nelle quali eransi avviluppati, ed a portare le loro armi in Terra santa per riconquistare le citt? che gl'infedeli avevano prese con tanta vergogna dei Latini. Ma se nella cristianit? non eravi stata bastante energia da difendere un piccolo numero di fortezze, alle quali sembrava attaccato l'onore delle nazioni che professavano la religione di Cristo; non era presumibile che tutta l'Europa si movesse per nuovamente tentarne la conquista, quando le difficolt? erano tanto cresciute, e il regno di Gerusalemme distrutto per sempre, sicch? non v'erano pi? n? principi n? popoli oppressi che venissero ad affrettare i soccorsi d'Europa per salvarli da un imminente pericolo. Perci? dopo un breve fermento prodotto dal sentimento dell'obbrobrio, dall'orrore della strage di Acri e dalla piet? verso gli sventurati fuggitivi, i cristiani abbandonarono il pensiero di riconquistare Terra santa, e i mari dell'Asia furono chiusi all'Europa.

Il pontefice che pi? d'ogn'altro avrebbe potuto risvegliare lo zelo per questa guerra sacra, aveva altri interessi che pi? gli stavano a cuore, ai quali sagrific? di buon grado quelle lontane conquiste. Erasi impegnato verso Carlo II, re di Napoli, di servirlo efficacemente nell'impresa di Sicilia. Egli era d'una famiglia originaria ghibellina; ma per mantenere la sua promessa, si gett? nel partito guelfo con tanta violenza, che niun pontefice, senza eccettuarne lo stesso Martino IV, non aveva cos? impudentemente dimenticate le prerogative di comun padre dei fedeli, per prendere quelle d'un capo di faziosi.

La condotta de' precedenti pontefici, siccome quella ancora della casa di Francia verso i re d'Arragona, era stata fallace e perfida. Quando del 1288 Edoardo d'Inghilterra erasi offerto mediatore per ristabilire la pace, e procurare al re Carlo la libert?, erasi sotto la sua guarenzia conchiuso il trattato alle seguenti condizioni. Il regno di Sicilia doveva essere ceduto a Giacomo d'Arragona, e rimanere a Carlo quello di Napoli, il quale obbligavasi a far rinunciare Carlo di Valois suo cugino a tutti i diritti che potevano essergli derivati sul regno d'Arragona dall'investitura di Martino IV: e per prezzo di questa rinuncia e diritti immaginarj, Carlo di Valois doveva ricevere dall'Arragonese venti mila libbre pesanti d'argento. Carlo II, che non era ancora incoronato e portava soltanto il titolo di principe di Salerno, doveva essere posto in libert?; ed in sua vece lasciava ostaggi tre figliuoli con sessanta de' principali gentiluomini della Provenza; e se nel termine di tre anni non soddisfaceva alle stabilite convenzioni, prometteva di ritornare egli stesso nella prigione, da cui veniva liberato.

Ma Carlo giunto a Rieti, ove trovavasi la corte pontificia, fu da Nicol? IV, allora regnante, incoronato re delle due Sicilie, e sciolto dalle obbligazioni assunte in virt? delle convenzioni fatte con Alfonso, e dai giuramenti. Carlo di Valois, lungi dal ritenersi compreso nel trattato di pace, s'apparecchi? ad attaccare l'Arragonese; conchiuse un'alleanza con don Sancio re di Castiglia, che per lui dimentic? l'amicizia d'Alfonso d'Arragona, e si prepar? a punire l'Arragonese della sua confidenza e della sua generosit?.

La guerra portata negli stati d'Alfonso dai re di Castiglia e di Francia lo costrinse bentosto a soggiacere a pi? dure condizioni. Promise di richiamare le truppe ausiliarie mandate in Sicilia a suo fratello, di rifiutargli in avvenire ogni ajuto, e di esortarlo insieme alla madre a rinunciare al dominio di quell'isola. Si obblig? innoltre a pagare pel regno d'Arragona il tributo che uno de' suoi antenati aveva promesso a san Pietro; ed a questo prezzo doveva essere assolto dalla chiesa, e Carlo di Valois rinunciare alle sue pretese.

La notizia di questo trattato risvegli? le pi? amare lagnanze dei Siciliani che vedevansi abbandonati ai Francesi, i loro pi? crudeli nemici, da quella stessa famiglia e da quella nazione ch'essi avevano scelta per proteggerli. Ma l'esecuzione del trattato rimase sospesa per la subita morte d'Alfonso re d'Arragona. Suo fratello Giacomo, in allora re di Sicilia, and? a Saragozza per prendere possesso della fraterna eredit?, e, partendo dalla Sicilia, lasci? l'amministrazione dell'isola a Federico suo terzo fratello.

Quando del 1296 giunse in Sicilia la notizia del trattato sottoscritto da Giacomo d'Arragona, i grandi del regno mandarono alla sua corte in Catalogna tre deputati per verificare le ingiuriose voci che speravano dover essere da lui smentite. Ma Giacomo non si rifiut? di comunicare ai deputati lo stesso trattato da lui conchiuso; onde questi stracciandosi le vesti e riempiendo la corte di gemiti, supplicarono il re a non abbandonare i suoi fedeli sudditi ed a non darli nelle mani de' loro crudeli nemici. E perch? niente potevano da lui ottenere, stesero una scrittura della sua rinuncia all'isola di Sicilia, e la portarono ai loro concittadini. Allora tutti i baroni, alla di cui testa trovavansi Giovanni di Procida e Ruggiero di Loria, dichiararono sciolti affatto i loro legami con Giacomo d'Arragona, ed elessero loro re l'infante Federico, ch'incoronarono a Palermo. Poco tempo dopo, Bonifacio di Calamandano, gran maestro dell'ordine di san Giovanni, port? loro de' fogli in bianco segnati dal papa e da Carlo, offrendosi di aderire a tutte le condizioni pi? vantaggiose ed alle riserve de' privilegi ch'essi vi avessero apposte; ma i baroni risposero che i Siciliani avevano costume di consolidare la loro libert? colle spade, non con inutili pergamene. La maggior parte de' Catalani, che trovavansi allora in Sicilia, rifiutarono d'ubbidire agli ordini di Giacomo, dichiarando per mezzo di Blasco d'Alagonia, che siccome gli Arragonesi erano i pi? liberi di tutti i popoli che ubbidivano a re, erano autorizzati dalle loro leggi e dalle stesse costituzioni del regno a ritirare ogni obbligazione d'omaggio ad un monarca di cui dovevano disapprovare la condotta.

E per tal modo ricominci? la guerra nelle due Sicilie con pi? furore che mai; e la Calabria ne fu il principale teatro. Ruggiero di Loria e l'infante Federico furonvi pi? volte vittoriosi de' Francesi; e la sorte della guerra non si mostr? favorevole agli ultimi che alloraquando il re Giacomo d'Arragona, per soddisfare agli obblighi del suo vergognoso trattato, venne egli stesso a portare la guerra negli stati di suo fratello, e quando il re Federico, ascrivendo a delitto a Ruggiero l'avere risparmiato uno de' suoi parenti, disgust? questo illustre ammiraglio, e lo forz? a passare nelle truppe de' suoi nemici.

Venti miglia lontano di Firenze sulla strada di Lucca alle falde degli Appennini che dividono la Toscana dal Modenese, ? posta una citt? che, malgrado la fertilit? del suo territorio e la ridente sua situazione, non si rese illustre n? per popolazione, n? per ricchezze, n? per commercio, n? per potenza, ma soltanto per la violenza delle sue rivoluzioni, per l'intenso odio de' partiti che la divisero, per la fatale influenza di questi partiti sul rimanente della Toscana e quasi dell'Italia, ove sparsero il lievito della discordia; ove per una privata offesa, per una lite di famiglia, suscitarono una guerra universale. Il popolo di Pistoja ? forse il pi? violento, il pi? impetuoso, il pi? sedizioso di cui la storia ci conservi la memoria. Pare che questo popolo fosse assetato talmente di guerre civili, che la sua sete di sangue non si spense nemmeno quand'ebbe ridotta la sua patria ad un oscuro rango tra le citt? d'Italia: n? si acquiet? nemmeno sotto il despotismo, il quale soffocando tutte le passioni, distruggendo tutti gl'interessi, suole addormentare i popoli nel riposo della morte; ma continu? a combattere anche dopo che la libert?, il governo, la gloria, pi? non potevano per lui esistere; siccome quel gigante dell'Ariosto, che nel calore della battaglia erasi dimenticato di essere morto. Esempio memorando dell'insensato furore che i soli nomi possono ancora ispirare agli uomini, quando pi? non sussiste alcuna delle cagioni che avevano eccitata la loro discordia.

La guerra civile continu? quasi senza interruzione in Pistoja fino all'anno 1539, bench? dopo il 1401 Pistoja non fosse che una citt? suddita dei Fiorentini, e del 1531 sommessa con tutta la Toscana ai duchi della seconda casa de' Medici.

Due famiglie di un'antica nobilt?, le quali possedevano vasti feudi nella pianura e nella montagna di Pistoja, eransi poste alla testa delle due fazioni, i Cancellieri de' Guelfi, ed i Panciatichi de' Ghibellini; le quali famiglie, durante tutto il tredicesimo secolo, eransi battute con tanto furore, che quasi erasi dimenticata l'origine della loro discordia, non indicandosi pi? il partito che col loro nome. I capi di queste famiglie erano incomparabilmente pi? potenti e pi? rispettati che i capi della repubblica; tutte le guerre sembravano prodotte dalle loro passioni, e loro opera tutti i delitti: non ? per? da maravigliarsi che il governo di Pistoja nutrisse contro tutto l'ordine della nobilt? i pi? caldi sentimenti di odio e di gelosia. Questi sentimenti si manifestarono prima a Pistoja che a Firenze. Del 1285 il popolo dichiar? i magnati non ammissibili alle magistrature della citt?, li sottopose a particolare regolamento, ed ordin? che qualunque volta una privata famiglia turberebbe l'ordine pubblico, verrebbe registrata nel ruolo dei nobili, per essere per sempre punita della sua disubbidienza alle leggi.

Chiamasi montagna di Pistoja una piccola provincia posta in mezzo agli Appennini di cui san Marcello ? il principal luogo. ? la parte pi? pittoresca degli Appennini.

Nello stesso tempo presso a poco in cui i Fiorentini avevano cacciato fuori dalla loro citt? il conte Guido Novello coi Ghibellini, anche i Cancellieri avevano scacciati da Pistoja i Panciatichi; che continuavano a perseguitare nelle loro terre. La famiglia guelfa dei Cancellieri, sebbene da un decreto esclusa dal governo della citt?, raccoglieva tutti i frutti della vittoria: nella prosperit? era cresciuta in modo di gente e di ricchezze, e contavansi pi? di cento uomini d'armi tutti Cancellieri, oltre coloro che erano uniti di parentela a questa famiglia, una delle pi? potenti che contasse la nobilt? italiana. La lite che divise in due nemiche fazioni questa famiglia, ed in seguito tutte le famiglie guelfe della Toscana, pu? farci conoscere colle sue particolarit? i costumi e la ferocia de' nobili pistojesi.

Molti gentiluomini della famiglia Cancellieri scontraronsi in una taverna ove giuocarono insieme; poich? furono riscaldati dal vino, un di loro, detto Carlino, figlio di Gualfredi, insult? e fer? un altro Cancellieri egualmente cavaliere, chiamato Amadoro, o Doro, figliuolo di Guglielmo. Questi due giovani, sebbene parenti, appartenevano a due diversi rami della stessa famiglia, distinti dai soprannomi di Bianchi e di Neri, loro venuti anticamente dall'avere avuto il loro antenato comune due donne, da una delle quali che aveva nome Bianca, Bianchi chiamaronsi i suoi figliuoli, e coll'opposto nome di Neri quelli dell'altra. Doro era del ramo nero. Apparecchiando la sua vendetta contro la famiglia che lo aveva insultato, adott? un principio odioso, che sembra essere stato costantemente seguito in Pistoja; cio?, che a fine di rendere la vendetta compiuta, richiedevasi che non cadesse sopra l'offensore; imperciocch? se colpiva quel solo non era che un castigo che, proporzionato essendo all'offesa ed aspettato, non poteva essere cagione di un dolore abbastanza profondo a coloro de' quali volevasi trarre vendetta. La prima offesa era caduta sopra un innocente; onde perch? la scambievolezza fosse compiuta, era necessario che la seconda cadesse sopra un uomo ugualmente innocente. Doro, sortendo dalla taverna, ov'era stata insultato, si pose in un'imboscata, e la sera dello stesso giorno, vedendo passare un fratello di colui che lo aveva ferito, il quale era un giudice, detto Vanni, lo chiam?, e Vanni avvicinandosi senza veruna diffidenza, nulla sapendo nemmeno della rissa accaduta la mattina, Doro si gett? sopra di lui con intenzione di ucciderlo, e colla spada gli tronc? una mano e lo fer? nel volto.

Il padre di Doro, Guglielmo, lungi dall'approvare una tanto odiosa vendetta eseguita contro un suo parente, risolse di comporre con una luminosa soddisfazione la lite che poteva dividere la sua famiglia. Consegn? lo stesso Doro tra le mani del padre adirato, facendogli dire, che a lui rimetteva il castigo di un uomo che, malgrado il suo delitto, non lasciava di essere ancora parente dell'offeso; ma questo padre, chiamato Gualfredo, insensibile alla generosit? del suo procedere, volle infliggere a Doro una punizione eguale all'offesa, gli tagli? una mano sopra una mangiatoia di cavalli, lo fer? nel viso com'era stato ferito suo figlio, ed in tale stato lo rimand? al cancelliero nero, incaricandolo di dire a suo padre, che col ferro e non colle parole si guarivano somiglianti ferite.

Da una banda e dall'altra era stata commessa un'atroce azione, ed i cancellieri d'ambo i rami per il proprio riposo, come per l'onore della loro patria, avrebbero oramai dovuto abbandonare i colpevoli alla vendetta delle leggi, e rifiutare di armarsi a favore di uomini che avevano infamato il loro nome con azioni tanto inumane; ma cos? non era allora avvezza a giudicare la nobilt? italiana. I cancellieri bianchi ed i cancellieri neri mostraronsi egualmente disposti a vendicare l'offesa da ognun d'essi ricevuta; e perch? colle loro parentele e relazioni abbracciavano tutte le famiglie nobili di Pistoja, le strascinarono tutte nella loro lite. N? vi prese parte la sola nobilt? cittadina, che tutti pigliarono le armi i loro vassalli e clienti nel territorio pistoiese, e tutta la Montagna fu in guerra pei Bianchi e pei Neri.

Le battaglie ordinate, ch'ebbero luogo in citt?, erano il minor male che risultasse da questa discordia, perch? l'uno e l'altro partito, per portar colpi pi? inaspettati e pi? dolorosi, ebbero ricorso a misfatti non pi? uditi. Se nell'una o nell'altra famiglia trovavasi un uomo amato e rispettato per le sue virt?, o pure uno il di cui carattere pacifico tenesse lontano dalle contese civili, era appunto quello che l'opposto partito destinava sua vittima, non credendo di poter gustare tutto il piacere della vendetta se non insultava col delitto la salvaguardia delle leggi, ed ogni rispetto divino ed umano. Per tal modo Pero dei Pecorini, che era giudice, fu ammazzato dai Neri senza provocazione, sul suo tribunale, in presenza dello stesso podest?; indi gli stessi Neri uccisero il cavaliere Bertino, perch? aveva fama d'essere il pi? nobile e pi? cortese cavaliere di Pistoja. Cos? Benedetto de' Sinibaldi, il pi? rispettato de' Cancellieri neri, cadde sotto la spada de' Bianchi in una bottega aperta sulla piazza: uno de' cavalieri del podest? venne ucciso dalla stessa fazione, onde il podest? vedendo ch'era impossibile di ristabilire l'ordine in Pistoja, e d'amministrare la giustizia a quel popolo furibondo, pose in terra in presenza del consiglio la bacchetta della podestaria, e part? abdicando la sua carica.

Pistoja pareva minacciata dell'intera sua sovversione per gli eccessi dell'anarchia e della guerra civile; e la repubblica fiorentina che trovavasi alla testa della parte guelfa in Toscana, cominciava a temere che l'interesse della sua parte non venisse compromessa con sedizioni cos? violenti, e che i Ghibellini da molto tempo esiliati non approfittassero delle divisioni e dell'indebolimento dei loro avversarj per ricuperare l'antico potere. Nel 1300 gli uomini pi? saggi di Fiorenza e di Pistoja si adunarono per trovare rimedio a tanti mali. Finalmente con una pubblica deliberazione gli anziani di Pistoja determinarono di confidare per tre anni la signoria della loro citt? ai Fiorentini, perch? riformassero la repubblica, e vi stabilissero la pace. La signoria, ossia bal?a, come di questi tempi cominci? a chiamarsi, non distruggeva le franchigie d'una repubblica, n? derogava punto alla sua libert?; era un potere legislativo e stragiudiziale attribuito per un determinato oggetto, e per un certo tempo ad un governo che credevasi meritevole di tanta confidenza da sceglierlo come arbitro.

Ma il riposo di Firenze non era assicurato in maniera che potesse impunemente ricevere nel proprio seno tanto lievito di discordia; ed i priori, che mandarono a Firenze uomini avidi di sangue ed accostumati a sprezzare tutte le leggi, commisero un grave fallo di cui ebber presto cagione di doversi amaramente pentire. In effetto dopo l'esilio di Giano della Bella, il vicendevole odio dei nobili e dei cittadini erasi fatto pi? vivo, comech? non fosse ancora scoppiato. La citt?, gli ? vero, pareva nel pi? prospero stato: ella contava entro le sue mura una milizia di trenta mila uomini abili a portare le armi, e nel rimanente dello stato fiorentino eranvi ridotti in reggimento settanta mila uomini. Per dare maggior lustro alla magistratura, i priori avevano gittate le fondamenta del magnifico palazzo pubblico, che doveva essere la residenza e la fortezza della signoria: avevano in appresso fatte innalzare nuove mura intorno alla citt?, il di cui cerchio era pi? esteso che non era quello delle due pi? antiche mura: ma questa apparente prosperit? covava i semi di grandi sventure.

Il pi? riputato uomo tra i nobili che avevano fatto esiliare Giano della Bella, era Corso Donati, gentiluomo di antica famiglia, al quale sommi talenti avevano acquistata grandissima influenza in tutti i consigli, ed il di cui valore non aveva poco contribuito ad assicurare ai Fiorentini la vittoria di Campaldino. La famiglia popolana dei Cerchi ch'erasi col commercio fatta ricchissima, acquist? il palazzo dei conti Guidi vicinissimo a quello dei Donati; e perch? i nuovi ricchi sogliono fare pi? pomposa mostra della loro opulenza, siccome la sola cosa che onori la loro famiglia, cos? i Cerchi ammorzarono l'antico splendore dei Donati colla dovizia degli abiti, la magnificenza degli arredi, il numero de' cavalli e de' domestici. Una causa per una eredit? accrebbe la rivalit? delle due famiglie, e ne svilupp? il vicendevole odio: onde i Cerchi sforzaronsi allora di assodarsi nel rango cui s'erano innalzati impiegando le loro ricchezze ed il loro credito a servire ed a proteggere gli uomini cui potevano essere utili. Cos? adoperando acquistaronsi molti partigiani tra la nobilt? povera, gelosa dei Donati, come pure fra i cittadini specialmente ghibellini. Innalzatisi a tale stato di potere lungo tempo dopo la vittoria dei Guelfi, non avevano i Cerchi conservato verun risentimento di famiglia contro una fazione, nella quale non avevano mai avuti personali nemici.

Mentre esistevano in Fiorenza questi semi di discordia, vi giunsero, a seconda degli ordini ricevuti dalla signoria, i Pistojesi esiliati dalla loro patria: i Bianchi furono accolti ed alloggiati nelle case dei Cerchi, i Neri trovarono ospitalit? presso i Frescobaldi amici dei Donati: e perch? le due fazioni, che incominciavano a dividere Firenze, non avevano alcun nome, ed ambedue volevano essere guelfe e popolane, adottarono la denominazione di Bianche e di Nere, che senza recare pregiudizio alle loro intenzioni sembrava bastantemente dividerle. Corso Donati fu riconosciuto capo dei Neri, e Vieri dei Cerchi capo dei Bianchi di Fiorenza.

Sebbene non si fosse ancora sparso sangue, erano in Fiorenza gli spiriti in modo esacerbati, sopra tutto dall'amara ironia di Corso Donati il quale non cessava di versare a mani piene il ridicolo sul suo rivale Vieri de' Cerchi, che il pi? leggiere accidente poteva essere cagione d'una zuffa. Un giorno che parte della citt? trovavasi adunata nella piazza de' Frescobaldi, per rendere gli estremi onori ad una donna di fresco morta, i dottori ed i cavalieri, com'era l'uso di Firenze in que' tempi in tali cerimonie, stavano seduti sulle panche intorno alla piazza, e la giovent? per terra sopra stuoje di giunchi: l'accidente aveva posti i Donati ed i Cerchi di faccia gli uni agli altri. Un giovane seduto in terra si alz? per rassettarsi il mantello, e coloro che gli stavano seduti in faccia, supponendo che questo fosse il segnale convenuto per attaccarli, si levarono subito anch'essi e sguainarono le spade; onde si levarono egualmente i loro avversarj, e s'appicc? la zuffa. I parenti della morta ottennero a stento, cacciandosi nella mischia, di separare i due partiti.

Guido Cavalcanti, dopo Dante il pi? illustre poeta del suo secolo, ed il pi? rinomato filosofo, quello che per la sublimit? della sua mente Dante indic? come s? medesimo capace di scorrere i tre regni dei morti, era uno de' pi? caldi nemici di Corso Donati. Il Cavalcanti, genero com'egli era di Farinata degli Uberti, inclinava segretamente al partito ghibellino favorito dai Bianchi; inoltre egli aveva ragione di credere che Donati avesse cercato di farlo assassinare in un pellegrinaggio ch'egli di fresco aveva fatto a san Giacomo di Gallizia. Altrettanto cortese quanto valoroso, ma altero ed amico della solitudine, non fece veruno apparecchio per vendicarsi. Solamente attraversando una volta le strade di Firenze a cavallo con molti giovani della famiglia Cerchi, incontr? Corso Donati pure a cavallo in compagnia de' suoi figliuoli ed amici; onde corse sopra di lui per ferirlo con una freccia, senza per? averlo potuto cogliere; ma abbandonato dai suoi amici, ed esposto alle pietre che gli venivano scagliate addosso dalle finestre, dovette allora fuggire.

La parte Bianca pareva a Firenze formata degli uomini pi? ragguardevoli pel loro carattere, i loro talenti ed il loro sapere; Dante Alighieri, Guido Cavalcanti e Dino Compagni, lo storico, gli appartenevano egualmente; ma per mala sorte Vieri de' Cerchi, il capo di questo partito, non era degno degli uomini ch'egli doveva condurre. I Neri avevano maggior credito alla corte di Roma e presso papa Bonifacio, sia perch? pi? affezionati alla parte guelfa, che Bonifacio favoreggiava caldamente, o perch? il banchiere del papa ed altre persone, che lo circondavano, appartenevano a questa fazione. In conseguenza furono essi che stimolarono Bonifacio ad interporsi per tornare la pace tra i Fiorentini; ma il violento suo carattere non si confaceva all'ufficio di pacere.

Bonifacio fece venire a Roma Vieri dei Cerchi, e lo richiese di fare la pace con Corso Donati, promettendogli a tale patto la sua protezione; ma gli rispose Vieri che, non essendo egli in guerra con persona, non aveva a fare veruna pratica per riconciliarsi con chicchessia, e ripart? senza aver nulla promesso. Allora il papa mand? in Toscana il cardinale d'Acquasparta come mediatore dei due partiti; il quale, giunto essendo a Firenze in giugno del 1300, preg? la signoria di accordargli la bal?a della citt? per istabilirvi la pace; disse in pari tempo essere sua intenzione di fare scelta di coloro che dovevano essere priori nel susseguente anno, in modo che vi fosse un egual numero di Bianchi e di Neri, e di distribuire i loro nomi nelle borse per tirare a sorte ogni due mesi, onde evitare i tumulti cui dava luogo ogni elezione in un tempo che il popolo si abbandonava con tanto furore allo spirito di parte. Ma all'epoca in cui venne il cardinale a Firenze, avendo i Bianchi la principal parte nel governo, temettero che la corte di Roma approfittasse de' poteri che domandava per abbassarli, e rifiutarono al cardinale la bal?a; perch? questi uscendo subito di citt?, la sottopose all'interdetto.

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