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Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 06 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde

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Ebook has 409 lines and 106855 words, and 9 pages

STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO

DI J. C. L. SIMONDO SISMONDI

DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI, DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.

ITALIA 1818.

STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE

Il quattordicesimo secolo forma una delle pi? gloriose epoche dell'Italia; perciocch? in verun tempo vi si coltivarono le lettere con maggior ardore, n? furonvi accolti ed onorati i dotti con maggiore entusiasmo: in verun altro tempo non si acquistarono tanti lumi n? si disseminarono cos? generalmente tra gli uomini; in niun altro secolo furono tramandati alla posterit? pi? nobili monumenti del genio creatore, o del pi? ostinato lavoro. Il rinnovamento delle greche e latine lettere, la creazione dell'idioma italiano e della moderna poesia, l'arte d'insegnare la politica nella storia e di dare agli uomini nel racconto degli avvenimenti una lezione allettatrice ad un tempo ed istruttiva; il perfezionamento della giurisprudenza, i rapidi progressi della pittura, della scultura, dell'architettura e della musica, sono cose di cui l'Europa va debitrice agli Italiani del quattordicesimo secolo. Ma quest'epoca, che per tante ragioni vuol essere attentamente studiata, non fu per l'umanit? egualmente felice. Molte di quelle virt? che innalzano il carattere degli uomini, che associandosi alle loro passioni, le nobilitano, erano affatto scomparse, ed avevano preso il loro luogo que' ributtanti vizj che deturpano la storia che noi scriviamo. Sicuri mezzi per giugnere alle principali cariche nelle corti de' principi erano la vile adulazione, la bassezza, l'intrigo, il vizio. I piccoli sovrani offrivano lo scandaloso esempio di tutti i delitti; la pi? ributtante dissolutezza regnava nell'interno de' loro palazzi; il veleno e l'assassinio erano ogni giorno adoperati a mantenere il loro governo, e numerose bande di sicarj vivevano al soldo de' sovrani, i quali ne ricompensavano i servigi con una illimitata protezione. Nelle case principesche, la passione di regnare, non raffrenata dal timor del delitto, eccitava frequenti rivoluzioni, preparate dalla pi? nera perfidia, consumate coi pi? atroci delitti, o prevenute con orribili crudelt?. Nei tribunali un potere arbitrario e spesso ingiusto trovava nella punizione dei delitti una sorgente di ricchezze per il sovrano, che, sospettoso per avarizia, valutava le prove estorte colla tortura e castigava gli accusati con orrendi supplicj. L'ambizione, che nelle faccende politiche preferiva per vincere il tradimento alle armi, distruggeva la fede de' trattati, la sicurezza delle alleanze, ogni legame d'amicizia tra i popoli. Truppe mercenarie, perfide, crudeli, sacrificavano in guerra il proprio sovrano al nemico che voleva offrir loro pi? vantaggiose condizioni; e risparmiando le armate nemiche, non danneggiavano che le pacifiche campagne e gl'innocenti cittadini.

Il disprezzo d'ogni legge e d'ogni morale per parte dei principi era un esempio tanto pi? pernicioso, in quanto che ogni citt? aveva una piccola corte, la quale era pei cittadini una scuola d'immoralit?, di corruzione, di delitto. I tiranni, perch? pi? vicini alla vita privata, corrompevano pi? facilmente i costumi de' loro sudditi; ed essendo moltissimi, guastavano dappertutto la pubblica morale, perch? i delitti politici si moltiplicavano in ragione del loro numero. Il sentimento delle immutabili leggi della morale e della religione era distrutto dalla storia d'ogni giorno, e dalle rivoluzioni di ogni stato.

Mentre l'Italia era travagliata da tanti disordini e da tanti mali, fu colpita tutto ad un tratto dai pi? terribili flagelli che il cielo abbia riservati per castigo della terra. Una crudele carestia e la pi? mortifera peste di cui le storie abbiano conservata la memoria; e potrebbe aggiugnervisi per terzo flagello l'invenzione dell'artiglieria, che rimonta precisamente a quest'epoca sventurata. L'invenzione delle armi da fuoco ebbe per l'umana specie pi? funeste conseguenze, che la peste e la carestia; ella sottopose al calcolo la forza dell'uomo; ridusse il soldato ad essere una semplice macchina; tolse al valore quanto era in esso di pi? nobile, quanto era dipendente dal carattere personale; accrebbe il potere dei despoti, ed indebol? quello delle nazioni; spogli? le citt? dalla loro sicurezza, e le mura della confidenza che ispiravano. Ma i durevoli effetti di cos? funesta invenzione non si manifestarono che dopo lungo tempo. Le bombarde, di cui parlano gli storici la prima volta, quando furono adoperate il 26 agosto del 1346 nella battaglia di Cr?cy, tra gl'Inglesi ed i Francesi, non parvero a principio che macchine proprie a lanciare alcune palle, di cui tutto il vantaggio riducevasi a spaventare i cavalli coll'esplosione e col fuoco che produceva. Il re d'Inghilterra che solo aveva bombardieri nell'armata, gli aveva infatti collocati tra gli arcieri, sui carri onde aveva circondato il suo campo. <> Il Villani mor? due anni dopo la battaglia di Cr?cy, onde non pu? essere sospetto di anacronismo, e le bombarde di cui parla sono a non dubitarne un'arma da fuoco della natura delle presenti; ma egli non suppose tale invenzione di cos? grande importanza, che fosse prezzo dell'opera il darne pi? circostanziata relazione; ed infatti i cambiamenti che l'artiglieria doveva produrre nell'arte della guerra, non si fecero sensibilmente conoscere, che un secolo e mezzo pi? tardi.

Lo stesso anno l'intemperie delle stagioni fu la principal cagione della carestia. L'eccessive piogge dell'autunno del 1345 non permisero le seminagioni in ottobre e novembre, e fecero marcire il frumento che cominciava a germogliare. Nella seguente primavera ricominciarono le piogge con eguale ostinazione, e ne' tre mesi di aprile, maggio e giugno, la terra fu sempre o inondata o talmente umida che le sementi sparse in primavera e quelle del granoturco non riuscirono meglio di quelle dell'autunno. N? questa sciagura si ristrinse ad una sola provincia, ma si estese a tutta l'Italia, alla Francia, e ad altri paesi; onde non erasi mai fatto un cos? scarso raccolto come nel 1346. Il vino, l'olio ed ogni altro prodotto della terra manc? egualmente. Ben tosto si dovettero distruggere quasi tutti i pollami, per non avere di che alimentarli. La carne da macello si rese subito assai cara; ma pi? che tutt'altro il frumento venne meno in una sorprendente maniera, non avendo le terre dato che il quarto, o soltanto il sesto dell'ordinario prodotto. Al raccolto una misura di grano pagavasi a Firenze trenta soldi, ed and? ogni giorno crescendo di prezzo in maniera che il primo giorno di maggio del 1347 vendevasi pi? del doppio; incarirono pure l'orzo e le fave, e carissima era perfino la crusca, lo che era sicura prova che i miserabili cercavano di alimentarsi con questo grossolano ed insalubre cibo.

Un pajo di capponi pagavasi dal fiorino d'oro a quattro lire, ossia dodici in quindici lire tornesi; i pollastri ed i piccioni dieci in dodici soldi fiorentini al pajo, la carne pi? comune sette in otto soldi, e la migliore dodici soldi. Questi prezzi corrispondono peso per peso, ma il danaro valeva allora il quadruplo di quel che vale al presente.

La misura o stajo di Firenze pesa 36 libbre peso di marco; il fiorino d'oro del valore di 12 lire tornesi, stimavasi allora 3 lire e 2 soldi. Un quintale di frumento ammont? dunque al prezzo di 36 lire peso per peso, cio? a sei luigi calcolando il cambiamento che le miniere d'America portarono nel valore delle specie.

Per altro il governo di Firenze fece tutto quanto poteva per procurarsi un bastante approvigionamento; fece comperare frumento in Calabria, in Sicilia, in Sardegna, in Tunisi ed in tutta la Barbaria; pag? anticipate somme, senza lasciarsi sgomentare dalla carezza delle derrate, e credette di essersi assicurati quaranta mila moggia di frumento, e quattro mila di orzo. Ma i mercanti pisani e genovesi coi quali esso era costretto di contrattare per fare sbarcare il grano a Pisa o a Genova, non poterono soddisfare alle loro promesse, perch?, trovandosi queste citt? egualmente afflitte da crudele carestia, i loro magistrati cominciarono a provvedere ai proprj bisogni prima di lasciar sortire il grano, onde Firenze non ebbe pi? della met? del quantitativo acquistato dal governo. I Fiorentini fecero pure alcune provvigioni nelle Maremme e nella Romagna, sebbene in queste province, come anche a Bologna, le derrate non fossero meno scarse n? meno rare di quel che lo fossero in Firenze.

Il moggio di Firenze equivale a 864 libbre, peso di marco.

La signoria mandava ogni giorno al mercato sessanta in ottanta moggia di frumento, che faceva vendere ai prezzi comuni, prima 40 soldi, poi 50 per stajo. Ma siccome tale quantit? non era sufficiente, perch? un immenso numero di cittadini, avvezzi negli altri anni a vendere il loro frumento al mercato, venivano invece a comperarne; la signoria fece fabbricare de' forni, ne' quali impiegavansi dagli ottantacinque ai cento moggia di frumento per far pani del peso di sei once, ne' quali la crusca era mista colla farina; e questi si distribuivano in ragione di due per persona pel prezzo di quattro denari fiorentini per pane. Ma quando alla porta de' venditori si videro formarsi attruppamenti di persone che facevano pi? fortemente sentire l'estensione della pubblica miseria, e spargevano lo spavento nel popolo, il governo risolse di mandare di casa in casa i due pani per testa, secondo il numero delle persone che componevano ogni famiglia. In aprile del 1347 apparve dai registri, che novantaquattro mila persone ricevevano in tal modo il loro pane dallo stato; e non pertanto i borghesi un poco agiati non erano compresi in questo ruolo, perch? si erano approvigionati, o compravano dai fornai a pi? alto prezzo un pane di migliore qualit?. Tutti i poveri e tutti i Regolari mendicanti che vivevano di elemosine, non erano pure compresi, sebbene grandissimo ne fosse il numero; imperciocch? erano stati obbligati ad uscire da tutte le terre e villaggi vicini; e la miseria o la fame gli aveva riuniti in Firenze. Tale non pertanto fu la generosit? e la carit? cristiana de' Fiorentini, che, durante questa carestia, verun povero, verun forastiere, verun contadino, fa escluso dalla citt?, e tutti furono soccorsi ed alimentati colle pubbliche o private elemosine. <>

Questa carestia era stata in Italia generale, n? tutte le citt? avevano con s? saggi regolamenti o cos? generosi, provveduto ai bisogni del popolo; quindi lasci? una tale debolezza nel temperamento della massa del popolo, ed una disposizione alle malattie epidemiche, che non tardarono a manifestarsi. Frattanto, affinch? il povero non fosse ad un tempo tormentato dalla carestia, dalla malattia e dai creditori, la signoria di Firenze sospese le procedure forensi per i minuti debiti, e nel giorno di Pasqua, facendone come un'offerta a Dio, liber? tutti i carcerati per debiti verso il comune, e tutti coloro che trovavansi nelle prigioni per leggieri delitti. Nello stesso tempo diede a tutti quelli ch'erano tediati per multe, la facolt? di redimersi pagando il quindici per cento della somma portata dalla sentenza; ma la miseria era tanto grande che pochissimi hanno potuto approfittare di questo favore.

Nella state del 1347 la mortalit? fu in Firenze grandissima, specialmente tra i poveri, nelle donne e ne' fanciulli, calcolandosi che l'epidemia abbia tolti quattro mila individui. Ma nello stesso tempo un pi? terribile flagello preparavasi in Oriente. Nelle relazioni de' fenomeni che accompagnarono la peste non ? agevole cosa lo sceverare i racconti popolari, che la superstizione risvegliata dal timore faceva avidamente ammettere, dalle pi? vere calamit? cagionate senza verun dubbio dall'epidemia. Nel regno di Casan, secondo racconta Giovan Villani, la terra fu agitata da violenti scosse, affondarono molte citt? e villaggi, le voragini apertesi vomitavano fiamme, che, comunicandosi alle erbe aride, si stesero da ogni banda, in distanza di molti giorni di cammino. Coloro che si sottrassero a questo disastro, seco portarono una malattia contagiosa che sparsero sulle rive del Tanai ed a Trabisonda, malattia funesta che di cinque persone quattro ne uccideva. A Sebastia le piogge furono accompagnate dalla caduta di una enorme quantit? d'insetti neri, che avevano otto gambe e la coda, parte morti e parte vivi; questi avvelenavano col morso, la putrefazione degli altri infettava l'aria. La peste cominciata in questi due paesi si sparse in tutto il Levante, corse la Siria, la Caldea, la Mesopotamia, l'Egitto, le isole dell'Arcipelago, la Turchia, la Grecia, l'Armenia, la Russia. I mercanti italiani, dimoranti in vari porti del Levante, cercarono di salvarsi fuggendo colle loro merci; otto galere genovesi, tra le altre, partirono dalle coste del mar Nero, ma portavano il contagio con loro. Quando arrivarono in Sicilia, avevano gi? perduti tanti marinai, che quattro galere furono abbandonate. Gli ammalati che scesero a terra, comunicarono l'infezione agli abitanti della citt? nella quale avevano sbarcato, di dove rapidamente si sparse in tutta la Sicilia, la Corsica, la Sardegna, e sulle coste del Mediterraneo. I mercanti che continuavano a fuggire, sbarcarono gli uni a Pisa, gli altri a Genova, e perch? di que' tempi non prendevasi veruna cautela per impedire la comunicazione delle epidemie, seco portarono la morte ovunque sbarcarono. Nel 1348 la peste dominava in tutta l'Italia ad eccezione di Milano, e di alcuni paesi presso le Alpi, ove non fu quasi conosciuta. Lo stesso anno valic? le montagne, e si stese nella Provenza, nella Savoja, nel Delfinato, nella Borgogna, e, per la via d'Acquamorta, penetr? nella Catalogna. Nel susseguente anno occup? tutte le altre terre occidentali fino alle rive del mare Atlantico; la Barbaria, la Spagna, l'Inghilterra e la Francia. Il solo Brabante parve sottratto a tanta sventura, o leggermente toccato. Nel 1350 il contagio si avanz? al Nord, spargendosi tra i Frisoni, Tedeschi, Ungari, Danesi e Svezzesi. Fu allora e per effetto del contagio, che la repubblica d'Islanda fu distrutta. La mortalit? fu tanto grande in quest'isola agghiacciata, che gli sparsi abitanti cessarono di formare un corpo di nazione.

Ho preso quasi per intero questa descrizione della peste dalla famosa introduzione del Decamerone di Giovanni Boccaccio.

Bentosto tutti i luoghi infetti furono colpiti da estremo spavento, vedendosi con quale prodigiosa rapidit? dilatavasi il contagio. Comunicava immediatamente l'infezione non solo il conversare cogli ammalati, ed il contatto loro, ma ben anche il solo toccare le cose da loro toccate. Furono veduti animali cader morti per avere toccati gli abiti degli appestati, gittati nelle strade. Allora non si ebbe pi? rossore di mostrarsi vile ed egoista. N? solo i cittadini evitavansi gli uni gli altri, ma i vicini abbandonavano i loro vicini, ed i parenti, se pure talvolta si visitavano, tenevansi a tale distanza dall'ammalato che manifestava il loro terrore; ben tosto fu veduto il fratello abbandonare il fratello, lo zio il nipote, la sposa il marito, e perfino alcuni genitori i proprj figli. E per tal modo all'infinito numero degli ammalati non rimase altro sussidio che l'eroismo di un piccolo numero di amici, o l'avarizia de' servi, che per un grossissimo stipendio disprezzavano il pericolo. Questi ultimi erano per la maggior parte contadini affatto rozzi, e poco avvezzi a servire ammalati, onde tutti i loro servigi riducevansi d'ordinario ad eseguire alcuni ordini che loro davano gli appestati, ed a portare alle famiglie la notizia della loro morte. Da tale abbandono e dal terrore che colpiva gli spiriti, nacque un'usanza affatto contraria agli antichi costumi; che una donna giovane, bella e modesta, non rifiutava di farsi servire nella sua malattia da un uomo, comunque giovane, e di spogliarsi in sua presenza qualunque volta lo richiedeva la cura della malattia, come se si fosse trovata con una donna.

La sorte dei poveri e delle persone di mezzana condizione era ancora peggiore; ritenuti dalla povert? in case malsane, e vicinissimi gli uni agli altri, cadevano infermi a migliaja; e siccome n? venivano curati, n? serviti, morivano quasi tutti. Moltissimi sia di giorno sia di notte terminavano nelle strade l'infelice loro esistenza; altri, abbandonati nelle loro case, non si sapevano morti dai loro vicini che per la puzza ch'esalava dal loro cadavere. Il timore dell'infettamento dell'aria, assai pi? che la carit?, consigliava i vicini a visitare gli appartamenti, a far esportare i cadaveri dalle case, ed a collocarli avanti alle porte. Ogni mattina potevano vedersene molti cos? deposti nelle strade; facevansi in appresso addurre i feretri, o in loro mancanza una tavola, sopra la quale portavasi il cadavere alla fossa. Pi? d'un feretro contenne nello stesso tempo il marito e la moglie, il padre ed i figli, o due e tre fratelli. Quando due preti con una croce accompagnavano un feretro e dicevano l'ufficio de' morti, da ogni porta vedevansi uscire altri feretri che si associavano al convoglio, ed i preti che non eransi convenuti che per un solo morto, ne trovavano sette ed otto da seppellire.

Il terreno sacro pi? non bastava a tanti cadaveri, onde si cominci? a scavare ne' cimiterj grandissime fosse, nelle quali collocavansi a strati di mano in mano che vi si portavano, poi si ricoprivano con poca terra. Frattanto i vivi, persuasi che i divertimenti, i giuochi, i canti, l'allegria potevano soli camparli dalla peste, ad altro pi? non pensavano che a trovare godimenti, non solo nelle proprie, ma ancora nelle altrui case, qualunque volta credevano trovarvisi cosa di loro piacere. Tutto era in loro bal?a, imperciocch? ognuno, quasi pi? non dovesse vivere, aveva abbandonata ogni cura di s? stesso e delle sue sostanze. La maggior parte delle case erano diventate comuni; e coloro che vi entravano, ne usavano come di cosa loro propria. Distrutto era il rispetto per le leggi divine ed umane; i loro ministri e coloro che dovevano procurarne l'esecuzione, erano morti o infermi, e privi in maniera di guardie e di subalterni, che non potevano incutere verun timore; onde ognuno risguardavasi come libero di fare tutto quello che venivagli in grado di fare.

Le campagne non erano pi? risparmiate delle citt?, ed i castelli ed i villaggi erano piccole immagini della capitale. Gli sventurati agricoltori, che abitavano le case sparse ne' campi, i quali non potevano sperare ne' consigli di medici, n? assistenza di servi, morivano sulle pubbliche strade, ne' campi, o nelle loro case non come uomini, ma come bestie. E per tal modo diventati non curanti di tutte le cose di questo mondo, come se giunto fosse il giorno della loro morte, pi? non pensavano di domandare alla terra i suoi frutti, o il prezzo delle loro fatiche, ed invece sforzavansi di consumare quelli che avevano di gi? raccolti. I bestiami, cacciati dalle case, erravano pei campi abbandonati, tra le messi che non eransi raccolte, e per lo pi? rientravano senza guida in sulla sera nelle loro stalle, sebbene pi? non rimanessero padroni o pastori per custodirli.

Veruna peste in altro tempo aveva colpite tante vittime. A Firenze e nel suo territorio, di cinque persone ne morirono tre. Pensa il Boccaccio che la sola citt? perdesse pi? di cento mila individui. A Pisa, di dieci persone ne morirono sette; ma sebbene in questa citt?, come altrove, si fosse conosciuto per prova che chiunque toccava un morto o le sue vesti, e anche soltanto il danaro, era preso dal contagio, e sebbene pi? non si trovasse alcuno che per qualunque somma volesse rendere ai morti gli estremi ufficj, pure niun cadavere rest? nelle case senza sepoltura. I cittadini chiamavansi gli uni gli altri in nome della carit? cristiana, e si dicevano: <> Racconta lo storico Angelo di Tura, che a Siena, ne' quattro mesi di maggio, giugno, luglio ed agosto, la peste rap? ottantamila persone: e che egli medesimo seppell? colle proprie mani i suoi cinque figli nella stessa fossa. La citt? di Trapani in Sicilia rimase affatto deserta, essendo morti fino all'ultimo tutti gli abitanti. Genova ne perdette 40,000; Napoli 60,000; e la Sicilia, compresa non v'ha dubbio la Puglia, 530,000. In generale si calcol? che in tutta l'Europa, la quale dall'una all'altra estremit? and? soggetta a cos? terribile flagello, furono distrutti tre quinti della popolazione.

N? la perdita dell'Europa deve solamente valutarsi pel numero dei morti, ma inoltre per la qualit? degli illustri personaggi che perirono, mentre, come osserva uno storico di Rimini, la peste risparmi? tutti coloro la di cui morte era desiderabile. Quello che pi? merita d'essere da noi compianto, ? Giovanni Villani, lo storico pi? fedele, pi? veridico, pi? elegante e pi? animato, che avesse fin allora prodotto l'Italia. Noi abbiamo fatto non interrotto uso della sua storia pel corso di un mezzo secolo colla confidenza dovuta ad un autore contemporaneo e giudizioso, e che personalmente ebbe parte negli affari. Il Villani, come lo racconta egli medesimo, era stato a Roma nel giubileo del 1300; e col? fu che, paragonando la decadenza di quell'antica capitale del mondo colla crescente grandezza della sua patria, form? il progetto di scrivere la storia di Firenze. Il Villani, socio di una casa di mercadanti, aveva pure viaggiato in Francia e ne' Paesi Bassi, senza dubbio per affari di commercio. Fu pi? volte membro della suprema magistratura, esercit? diversi pubblici impieghi, come di direttore della zecca, delle fortificazioni e dell'ufficio dell'abbondanza delle biade. Nel 1323 aveva servito nell'armata contro Castruccio; nel 1341 fu uno degli ostaggi dati a Mastino della Scala pel compimento del trattato fatto con lui. In tal modo egli si mostr? degno di aver parte a tutti gli affari pubblici e privati. In sul finire del viver suo fu ruinato dal fallimento dei Bonaccorsi, dei quali era socio; e fu scritto da taluno che fu imprigionato per debiti. Gli ultimi libri della sua storia pare che si risentano di queste private disavventure, ed indicano che l'autore era diventato diffidente e lento. Quando mor? di peste nel 1348, doveva essere giunto a matura vecchiaja.

Altre cronache italiane terminano nella stessa epoca; lo che d? luogo a credere che i loro autori cadessero vittime della stessa epidemia. Giovanni d'Andrea, il pi? illustre giurisperito d'Italia, e la Laura del Petrarca, furono tolti al mondo da questo flagello, il primo in Bologna, l'altra in Avignone.

Andrea Dei autore della Cronaca Sanese, e l'anonimo di Pistoja.

In tempo della carestia e della peste, i popoli d'Italia, oppressi da tali calamit?, si rimasero per la maggior parte in una forzata inazione. L'ambizione e le altre passioni politiche pi? agire non potevano sopra uomini minacciati ogni giorno dalla morte, e che pi? non calcolavano l'avvenire. Non pertanto alcune strepitose rivoluzioni illustrarono quest'epoca: precisamente in sul finire della carestia, e quando incominciava la peste, Pisa si divise in due nuove fazioni dei Bergolini e dei Raspanti, fazioni che presero il luogo di quelle de' Conti e de' Visconti, i di cui nomi cominciavano a cadere in dimenticanza, e di quelle tra i nobili ed il popolo ch'erano scoppiate dopo le prime.

Mentre l'incostanza del conte della Gherardesca pareva minacciare a Pisa una vicina rivoluzione, questo giovane mor?; e furono incolpati i Raspanti d'averlo fatto avvelenare. Questo sospetto accrebbe in modo l'irritamento delle parti, che in vano i magistrati facevano severamente castigare coloro che con pungenti motti o popolari canzoni tenevano viva l'animosit? delle due parti; invano costringevano i capi ad unire le loro famiglie coi matrimonj, a promettere il mantenimento della pace, ed a giurarlo perfino innanzi all'altare; ch? una vicendevole diffidenza teneva armate nelle proprie case le due fazioni, e pronte a venire alle mani; ogni notte un incendio acceso per eccitare una sedizione manifestavasi in qualche quartiere della citt?; l'irritamento andava crescendo in modo che pi? non pot? essere compresso; ed il giorno 24 di dicembre, dopo una zuffa intorno alla casa di Dino della Rocca, nella quale i Bergolini rimasero vittoriosi, furono i Raspanti cacciati dalla citt?, ed Andrea Gambacorta fatto capo della repubblica.

Ma questa involuzione della repubblica era cosa di non molta considerazione a fronte delle novit? cagionate nell'Italia meridionale dalla morte di Andrea re di Napoli. Il re Luigi d'Ungheria aveva giurato di vendicare la morte di suo fratello, e comp? il suo disegno appunto in tempo delle calamit? della carestia e della peste. La vigorosa resistenza che gli avevano opposta i Veneziani innanzi a Zara l'anno 1346, avevangli impedito di unire quella citt? al suo regno, e di stabilire per mezzo del suo porto, a traverso dell'Adriatico, una comunicazione tra l'Ungheria e le province della Puglia. Zara, che Luigi aveva invano cercato di liberare dall'assedio, dovette infine dopo diciotto mesi di ostinata resistenza, rendersi ai Veneziani in dicembre del 1346. I Jadriotti si presentarono colla corda al collo al Senato veneto, per chiedere perdono della loro ribellione; ed il re Luigi che aveva promesso di proteggerli, differ? la sua vendetta contro Venezia dopo quella che voleva prendere della regina Giovanna.

N? l'elezione di Carlo IV, e la guerra che provoc? in Germania, n? la morte di Luigi di Baviera, non ridussero il re d'Ungheria a rinunciare alla stabilita impresa. Egli si fece precedere da suo fratello naturale il vescovo di Cinque Chiese per disporre i popoli a suo favore. La citt? d'Aquila apr? le porte al prelato ungaro, e quasi tutti gli Abruzzi ed il conte di Fondi si dichiararono per lui. Il re che aveva fatto noto a tutti i suoi sudditi il desiderio di vendicarsi, si mise pi? tardi in cammino, partendo da Buda il 3 di novembre del 1347 con poche forze, ma con molti tesori, credendo miglior consiglio l'assoldare truppe in Italia, che condurvele da cos? lontana parte.

L'armata ungara prese la via di terra e fece il giro del golfo Adriatico per Udine, Padova, Verona, Bologna, e per le citt? della Romagna. Il re presentavasi in ogni luogo siccome l'amico dei piccoli signori di cui doveva attraversare lo stato, e non manifestava altra mira ambiziosa, tranne quella di vendicare il fratello, e di castigare un atroce delitto; onde lungi d'essere trattenuto nel cammino, ingrossava l'armata con una folla di volontarj che si assoldavano sotto le sue bandiere.

Luigi continu? dopo questo il suo cammino, e giunse ne' primi giorni di dicembre ai confini del regno. Il 20 agosto la regina Giovanna aveva sposato Luigi di Taranto suo cugino; e con tale unione con uno degli uccisori di suo marito, pi? non lasciava verun dubbio d'aver presa parte al delitto di cui l'accusava il re d'Ungheria: i popoli medesimi invocavano un vindice di s? grave attentato. Aquila, Sulmona e Sanguinetto aprirono le loro porte agli Ungari; i principi del sangue gelosi dell'innalzamento d'un loro eguale, abbandonavano Giovanna; il duca di Durazzo disponevasi a farle guerra; e Luigi di Taranto, ch'erasi posto a Capoa per contrastare agli Ungari il passaggio del Volturno, vedeva ogni giorno diminuirsi la sua armata.

Ma Luigi di Taranto non ebbe pure l'opportunit? di sperimentare il coraggio delle sue truppe, la di cui fedelt? gli era sospetta. Il re d'Ungheria non tent? il passaggio del Volturno, ma presa la via del contado d'Alife, giunse l'undici gennajo a Benevento con un'armata composta di sei mila uomini di cavalleria pesante. L'agitazione e lo spavento regnavano in Napoli; il gran maniscalco, Nicola degli Acciajuoli, repubblicano fiorentino che in mezzo ad una corte corrotta erasi conservato fedele ai principj d'una severa morale, e che adesso sforzavasi di salvare una regina di cui aveva cercato invano di prevenirne gli errori e le sregolatezze, non trovava alcuno tra i cortigiani o nella nobilt? che volesse assecondarlo. La citt? neppure pensava a rispingere gli Ungari, e Giovanna si risolse all'ultimo d'abbandonare il suo regno, senza aver data una battaglia per difenderlo. Imbarcossi il 15 gennajo a Napoli coi suoi pi? cari confidenti, portando sulla propria galera il poco danaro che ancora le restava dei tesori ammassati dal re Roberto, e fece vela alla volta della Provenza, ove i suoi baroni dovevano farle sentire la loro arroganza ed il loro malcontento. Luigi di Taranto e Nicola degli Acciajuoli imbarcaronsi poco dopo per seguirla, e tutte le citt? del regno si affrettarono di mandare deputati a Luigi d'Ungheria per sottomettersi a lui.

I principi del sangue che non avevano seguita Giovanna nella sua fuga, non sapevano ancora risolversi a porsi in mano del re d'Ungheria. Carlo, duca di Durazzo, fu il primo a superare ogni riguardo, sdegnando i consigli de' pi? timidi amici. Si present? al re suo cugino, e gli rese omaggio come a suo nuovo sovrano, e ne ricevette le pi? lusinghiere accoglienze. Dietro i replicati suoi inviti, i suoi fratelli e cugini si recarono alla corte del re che accord? loro il suo favore.

L'armata ungara era giunta ad Anversa; e Luigi, prima di lasciare quella citt?, volle vedere il luogo in cui per? suo fratello. Il giorno 14 di gennajo si avvicin? con tutti i principi del sangue alla finestra ov'era stato strozzato lo sventurato Andrea. ? probabile che tutte le circostanze di questo delitto, cos? fortemente richiamate ai suoi occhi ed alla sua memoria, destassero in lui un'improvviso furore che fu creduto la conseguenza d'un piano di perfidia formato da qualche tempo; egli si volse impetuosamente a Carlo di Durazzo, chiamandolo malvagio traditore; gli rimprover? d'avere co' suoi intrighi preparata la morte di Andrea, colla speranza di ereditarne la corona. <> In sull'istante un Ungaro percosse il duca di Durazzo nel petto, altri lo presero pei capelli, lo gettarono gi? dal balcone medesimo dal quale era stato gittato Andrea, e lo fecero perire nello stesso luogo. Gli altri principi del sangue vennero imprigionati, e mandati in Schiavonia. Un figlio di Andrea e di Giovanna, che gi? aveva il titolo di duca di Calabria, da sua madre lasciato nel castello dell'Ovo, fu pure mandato da Luigi ne' suoi stati ereditarj. Dopo questo fanciullo, il duca di Durazzo era il pi? prossimo erede dei due troni d'Ungheria e di Napoli; e siccome aveva sposata Maria, sorella di Giovanna, riuniva i diritti della famiglia di Roberto ai proprj. Alcune sue lettere, sorprese dagli Ungari, provavano effettivamente ch'egli aveva alla corte del papa operato contro Andrea, forse lusingandosi di soppiantarlo; ma egli non aveva presa parte alla congiura di Luigi di Taranto, anzi era stato uno de' primi ad impugnare le armi contro di lui; era stato chiamato presso Luigi colle pi? aperte assicurazioni d'amicizia e di benevolenza; era stato invitato alla sua mensa, e fu non pertanto la vittima di una perfidia che sola bastava a disonorare il cavalleresco carattere dell'ungaro monarca.

Quest'ultimo prese ben tosto pacificamente possesso di Napoli e del regno; e perch? non incontrava chi gli si opponesse, conged? le truppe mercenarie che aveva assoldate, onde liberare dalla loro oppressione le province conquistate. Tra quei soldati trovavasi lo stesso duca Guarnieri, il quale poc'anni prima aveva formata la grande compagnia e guastati i territorj della Toscana e della Romagna. Guarnieri prese cura di adunare i soldati licenziati dal re, e formatone una nuova compagnia, entr? dalla banda di Terracina negli stati del papa. Questo corpo di masnadieri pi? regolarmente organizzato che non era stato il primo, doveva pi? lungamente travagliare tutte le contrade d'Italia.

Mentre la peste continuava ad infierire, la regina di Napoli, che i suoi malcontenti baroni avevano tenuta alcun tempo prigioniera in Provenza, ebbe avviso che i Napolitani, omai stanchi del giogo degli Ungari, sospiravano il di lei ritorno, e promettevano di riporla sul trono; ma le sue finanze essendo affatto esauste, ed essa totalmente priva di credito, risguard? come una singolare fortuna l'offerta fattale dal papa di acquistare per trenta mila fiorini la sovranit? d'Avignone. Clemente VI, che non aveva voluto riconoscere Luigi di Taranto come re di Napoli, gli accord? in questa circostanza il titolo di re di Gerusalemme. I due sposi partirono poco dopo con dieci galee genovesi, prese al loro soldo, ed in sul finire d'agosto del 1348 giunsero a santa Maria del Carmine, presso Napoli, ov'eransi affrettati di adunarsi per renderle omaggio i baroni napolitani. Il duca Guarnieri colla grande compagnia aveva preso soldo sotto le bandiere della regina, onde Giovanna rientr? trionfante nella sua capitale, ma non per? nel suo palazzo, ch'era fortificato ed occupato dagli Ungari.

Luigi di Taranto d'accordo col duca Guarnieri incominci? con molta attivit? a ricuperare il regno di sua moglie. S'impadron? in poco tempo delle tre fortezze che signoreggiavano Napoli, ed in appresso entr? nella Puglia per opporsi a Corrado Guilford, che col danaro mandatogli dall'Ungheria aveva fatto leva di numerosa armata. Ma combattendo contro questi mercenarj con truppe egualmente straniere, Luigi fu costretto di abbandonare le province a loro discrezione, onde acquistarsi l'amore de' soldati; perciocch? il generale pi? crudele era sicuro d'essere meglio ubbidito. Guilford, che non guardava misura cogli sventurati Pugliesi, si guadagnava facilmente le truppe del suo nemico. Egli aveva abbandonata Foggia al saccheggio; e i Tedeschi, non contenti di avere spogliati questi miseri abitanti d'ogni loro avere, li sottomettevano eziandio alle pi? crudeli torture, onde obbligarli a palesar nuove ricchezze. Il duca Guarnieri che desiderava di partecipare a tale saccheggio, si lasci? sorprendere da Guilford a Corneto colla sua armata; e dopo essere stato fatto prigioniere, si arrol? sotto le bandiere del re d'Ungheria. Luigi di Taranto dopo tale avvenimento pi? non potendo resistere; tutte le province del regno furono in bal?a di soldati stranieri, senza fede, senza onore, senza misericordia.

L'armata de' mercenarj, dopo avere per molti mesi guastate le province ed esaurite tutte le loro ricchezze, diedero orecchio ad un legato del papa, che si present? ai suoi capitani a nome della regina e della citt? di Napoli, che loro proponeva un'enorme contribuzione per prezzo di alcuni mesi di tregua. I mercenarj riunironsi allora in Aversa, per dividere tra di loro le prede riposte in questa citt?. Essi avevano obbligati con lunghi tormenti i prigionieri a dar loro in mano tutto quanto possedevano, e tutto quanto potevano ottenere dalla compassione dei loro parenti ed amici. Avevano levate enormi contribuzioni su tutte le citt? salvate dal saccheggio; ed oltre tutto ci? che avevano consumato durante la guerra, oltre i cavalli, le armi e le gioje che si erano appropriati, dividevano la somma di cinquecento mila fiorini. Dopo ci? il duca Guarnieri col conte Lando e Gianni d'Ornich presero la strada dell'Italia settentrionale. Ma Corrado Guilford rimase nella Puglia ai servigi del re d'Ungheria, con un altro avventuriere, il Frate di Monreale, cavaliere di Gerusalemme, che il suo valore e la sua crudelt? resero ben tosto egualmente celebre che Corrado.

Nel Nord dell'Italia le repubbliche toscane ed i tiranni di Lombardia si rimasero alcun tempo in uno sforzato riposo dopo la cessazione della peste, che non durava pi? di cinque mesi in ogni paese. Occupati nel riparare i sofferti danni e nel rinvigorire il governo, non andavano in traccia di nuove esterne contese, trovandosi tuttavia incapaci di sostenere le antiche. La totale estinzione di un prodigioso numero di famiglie aveva dato luogo ad infinite procedure per conseguire la giacente eredit?; la mortalit? ancora pi? grande tra i poveri che tra i ricchi, aveva privato di braccia l'agricoltura, i mestieri e le fabbriche. I salarj erano stati portati ad altissimo prezzo, e gli operaj si abbandonavano ai piaceri della mensa ed alla mollezza, onde facevano assai meno lavoro che non avrebbero potuto fare. A Firenze la signoria, volendo ridurre il popolo alla sobriet?, accrebbe le gabelle delle vittovaglie; ma gli operai viveano in tale agiatezza, che appena si lagnarono delle pi? onerose imposte. Frattanto coloro che dal passato flagello della peste erano stati tocchi da sentimenti religiosi, preparavansi ad approfittare dell'indulgenza plenaria accordata da papa Clemente VI per l'anno 1350, come per un giubileo centenario. Nell'incominciare di quest'anno i fedeli pieni di fervore e di umilt? si posero in cammino da ogni parte dell'Europa, pazientemente sopportando l'inclemenza d'una stagione che fu assai rigorosa, i ghiacci, le nevi e le dirotte piogge che avevano affatto guaste quasi tutte le strade. Siccome i pellegrini riempivano tutti gli alberghi e tutte le case poste lungo le strade, alcuni, ed in particolare gli Ungari ed i Tedeschi, si accampavano in grosse bande presso le strade; ed accendendo grandissimi fuochi si strignevano gli uni contro gli altri per resistere al freddo. Questi religiosi viaggiatori davano l'esempio della carit? cristiana. Mai non si videro corrucciarsi tra di loro, n? querelarsi degl'incomodi che sostenevano. Negli alberghi l'oste non bastava a disporre i conti di tutti i viaggiatori; pure questi mai non partivano senza lasciare sulla tavola il danaro dovuto pei cibi che avevano ricevuti. I piccoli principi, le citt?, ed i privati cittadini si presero cura della sicurezza di viaggiatori tanto straordinarj, e mantennero l'ordine sulle pi? frequentate strade, di modo che il viaggio di Roma si fece da parecchi milioni di cristiani, senza che accadessero gravissimi disordini.

La chiesa romana, pubblicando un giubileo alla met? del quattordicesimo secolo, appoggiava questo ravvicinamento di una festa centenaria all'ingiustizia che praticavasi verso le generazioni, cui non era accordato questo mezzo di ottenere un'indulgenza plenaria; ella voleva che una tanto singolare grazia fosse una volta in vita offerta ad ogni uomo. Ma pi? interessati segreti motivi avevano dato luogo a questa decisione. L'affluenza de' pellegrini a Roma vi recava immense ricchezze; ognun di loro faceva un'offerta ad ogni chiesa, ed il papa divideva tali offerte, come divideva altres? per via delle imposte gli utili che i Romani ritraevano dall'alloggio di tanti forastieri. Nello stesso anno la corte d'Avignone volle far servire alle ambiziose sue viste il tesoro raccolto colla pubblicazione del giubileo.

Lo stato della chiesa che per anco non era stato assoggettato all'immediata ubbidienza dei papi, sebbene gl'imperatori ne avessero loro abbandonata la sovranit?, era di que' tempi diviso tra molti piccoli tiranni che comandavano ad una o due citt?. Ma queste citt? erano delle pi? piccole d'Italia; il coraggio de' loro abitanti erasi spento nella servit?, ed i signori non potevano, per la loro difesa, far capitale n? sul numero, n? sulle ricchezze, n? sull'energia de' cittadini. Credette Clemente VI di approfittare della circostanza in cui la peste aveva ridotti que' popoli all'ultimo grado di debolezza, per far riconoscere la sua sovranit? a tutti que' piccoli principi: commise perci? ad Ettore di Durafort, suo parente, ch'egli aveva creato conte della Romagna, di ricondurre colla forza o coll'astuzia tutte le citt? del suo feudo sotto l'autorit? della chiesa; affidava perci? al suo arbitrio una ragguardevole somma di danaro e quattrocento cavalieri provenzali, che, uniti alle truppe sussidiarie de' signori di Lombardia, formavano un'armata di mille ottocento cavalli.

Le segrete istruzioni date ad Ettore di Durafort volevano che spogliasse tutti i tiranni della Romagna; ma l'apparente motivo dell'armamento era quello d'attaccare e punire Giovanni dei Manfredi, signore di Faenza, che per una privata offesa erasi staccato dal partito de' Guelfi e della chiesa. Durafort fece chieder truppe ausiliarie alla famiglia guelfa degli Alidosi che governava Imola, ed ai signori di Bologna, Giovanni e Giacomo de' Pepoli, figli di Taddeo, morto due anni prima. Dall'altro canto Francesco degli Ordelaffi, signore di Forl?, Malatesta dei Malatesti, signore di Rimini, e Bernardino da Polenta, signore di Ravenna e di Cervia, prevedendo la burrasca che li minacciava, si unirono al signore di Faenza, e presero al loro soldo il duca Guarnieri, cui di tutta la sua grande compagnia pi? non rimanevano che cinquecento cavalli, essendosi gli altri dispersi per consumare negli stravizj le ricchezze acquistate nella campagna di Napoli.

Il conte di Romagna attacc?, il 13 maggio del 1350, il ponte di san Procolo, che gli apriva lo stato di Faenza, e lo prese a viva forza; ma in seguito consum? quasi due mesi nell'assedio del castello di Salernolo, mentre avrebbe potuto forse in pi? breve tempo occupare la stessa citt? di Faenza. I suoi alleati inquieti sullo scopo delle conquiste che meditava, cercavano di ritardarle con inutili negoziazioni; ma il conte era pi? proprio ai tradimenti che alla guerra. In mezzo ai Romagnuoli, la di cui perfidia era in Italia passata in proverbio, un cortigiano del papa avignognese aveva l'avvantaggio dell'arte della dissimulazione. Il conte mostrava di avere nei Pepoli intera confidenza, mentre trattava coi cittadini di Bologna di far assassinare questi due signori; e quando furono scoperte le sue trame, seppe cos? ben dissipare i sospetti dei due fratelli, che giunse ad indurre l'uno di loro a venire nel suo campo per farsi mediatore d'un trattato col signore di Faenza.

Giovanni dei Pepoli teneva nell'armata della chiesa duecento cavalli, che aveva somministrati al conte; ed aveva avuta cura di mantenere colla maggior parte degli ufficiali della stessa armata relazioni di amicizia e di ospitalit?: or quando giunse il 6 di luglio al campo, accompagnato dai principali cittadini di Bologna, e da una guardia di trecento cavalli, poteva credersi nel proprio campo, circondato dai suoi partigiani e da' suoi soldati; ma il conte che lo accoglieva colle dimostrazioni del pi? tenero affetto e della pi? illimitata confidenza, aveva ordinato al suo maresciallo di far armare i capitani che gli erano pi? ben affetti, e di promettere a tutta l'armata doppia paga, e mese compiuto, a condizione che non si opponesse alla sorpresa che meditava di fare.

Erano le ricompense promesse ai soldati dopo le pi? grandi vittorie. Il soldo contavasi per mese e non per giorni, ed il mese cominciato era pagato come compiuto.

Pepoli era stato servito di rinfreschi nella tenda del generale; i gentiluomini bolognesi ed i cavalieri venuti dalla citt? erano stati invitati dagli ufficiali e dai soldati dell'armata a sedersi a mense ch'erano state imbandite per loro in diversi luoghi del campo; e frattanto il signore di Bologna era rimasto pressocch? solo col conte di Romagna, aspettando con impazienza l'arrivo degli ufficiali generali chiamati ad un consiglio di guerra. Finalmente il maresciallo dell'armata si present? al padiglione del conte; e nello stesso istante i soldati che gli stavano intorno, assalirono Giovanni dei Pepoli, lo presero e rovesciarono in terra. Poich? l'ebbero incatenato lo trasportarono ad Imola, e lo chiusero nella fortezza, senza che questo sventurato signore potesse chiamare le proprie guardie in suo soccorso. Un suo paggio avendo alzata la voce per compiangerlo, venne subito ucciso ai di lui piedi.

Mastino della Scala che aveva convenuto con Durafort una segreta alleanza, fece muovere le sue truppe verso Bologna tosto che seppe arrestato Giovanni de' Pepoli. Dal canto suo il conte di Romagna lasci? la guerra che faceva ai suoi nemici, per condurre l'armata contro i suoi alleati, e prodigando le ricompense militari per tradimenti e per conquiste senza gloria, promise un'altra volta ai suoi soldati doppia paga e mese intero, per la presa del castello di san Pietro, che i Bolognesi non prendevansi cura di difendere.

Giacomo de' Pepoli ch'era rimasto in Bologna, fu colpito come da un colpo di fulmine alla novella dell'arresto del fratello, della diserzione di cinquecento cavalieri rimasti nell'armata del conte, e della guerra che gli facevano quegli alleati ch'egli aveva soccorsi. Scrisse in ogni luogo lagnandosi di cos? solenne tradimento, e chiedendo assistenza. Malatesta di Rimini ed Ugolino Gonzaga di Mantova recaronsi in fatti a Bologna, e gli offrirono la loro alleanza. Ma al Pepoli stava assai pi? a cuore d'attaccare alla sua causa i Fiorentini ed il signore di Milano, le due prime potenze dell'Italia.

La repubblica fiorentina non aveva verun motivo di lodarsi dei Pepoli, che avevano mancato a tutti gl'impegni contratti colla repubblica dei Bolognesi. Perci? la signoria rispose agli ambasciatori di Giacomo dei Pepoli, che il suo onore ed i suoi principi non le consentivano di prendere le armi contro la chiesa in favore d'un usurpatore, e che tutto quanto poteva fare per lui e per suo fratello, era d'interporre i suoi buoni ufficj per riconciliarlo col conte di Romagna: ma in pari tempo aggiugneva che se si fosse trattato di difendere gli antichi suoi alleati, i cittadini della repubblica di Bologna, non avrebbe risparmiati n? il sangue n? i tesori fiorentini per tutelare la loro libert?. Questa dichiarazione fatta agli ambasciatori in pubblica udienza, fu ben tosto portata a Bologna; ed il propizio istante era finalmente giunto di scuotere un odiato giogo. <>

La famiglia Bentivoglio si prese estrema cura di calmare l'effervescenza eccitata nel popolo dal rapporto degli ambasciatori; i suoi capi rappresentarono vivamente i pericoli d'una ribellione, il sovvertimento delle fortune, le violenze de' soldati, il timore di straniera invasione. Ma la sommissione de' Bolognesi non risparmi? loro veruna delle calamit? rappresentate come conseguenze d'uno sforzo generoso per rompere il giogo de' loro tiranni. Giacomo de' Pepoli aveva preso al suo soldo il duca Guarnieri con cinquecento cavalli, ed il duca di Milano gliene aveva mandati altri cinquecento. Guarnieri chiese che fosse lasciata alla sua truppa tutta intera una strada della citt?, ed alloggi? i soldati in quelle case facendoli padroni di tutto, come se la citt? fosse stata presa d'assalto, e lasciata a sua discrezione. D'altra parte l'armata del conte della Romagna guastava le campagne fino alle porte; di modo che i Bolognesi erano ugualmente spogliati dai loro proprj soldati, e dai loro nemici.

Doveva prevedersi che Bologna non sarebbesi lungo tempo mantenuta in cos? cattivo stato; quando nuove speranze furono improvvisamente risvegliate in un modo affatto impensato. Ettore di Durafort aveva due volte promesso alla sua armata doppie paghe e militari ricompense; ma lungi dal poter attenere le sue promesse, trovavasi debitore di alcuni mesi del soldo corrente, e non aveva danaro per pagarlo. Una rivoluzione che scoppi? nel campo, con minaccia di custodirlo come ostaggio, abbass? ben tosto la sua ambizione ed il suo orgoglio, obbligandolo a porre in libert? Giovanni dei Pepoli, per soddisfare colla di lui taglia all'avidit? delle proprie truppe. Questo contrattempo lo dispose a proporre condizioni di accomodamento; ed i Fiorentini, per farle accettare, s'affrettarono di spedire una solenne deputazione a Bologna. Essi chiedevano che questa citt? tornasse sotto la protezione della Chiesa; che fosse rimessa in libert? e governata dal popolo come lo era anticamente; che pagasse a san Pietro il consueto tributo, e che in segno di sommissione ricevesse entro le sue mura il conte di Romagna con un ristretto seguito, che i tiranni rinunciassero ad ogni governativa incumbenza, e che la riforma dell'amministrazione si eseguisse sotto la direzione de' commissarj fiorentini. Il conte ed i Pepoli, egualmente smontati dalle loro pretese, mostravano di aderire a tale accomodamento; ma quando si consigliarono coi signori di Lombardia loro alleati, Mastino della Scala, che sperava di occupare egli stesso Bologna, sconfort? il conte da questo trattato; ed il Visconti anch'esso, per motivi personali, vi fece rinunciare i Pepoli.

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