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Read Ebook: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo v. 06 (of 16) by Sismondi J C L Simonde De Jean Charles L Onard Simonde

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Ebook has 409 lines and 106855 words, and 9 pages

Doveva prevedersi che Bologna non sarebbesi lungo tempo mantenuta in cos? cattivo stato; quando nuove speranze furono improvvisamente risvegliate in un modo affatto impensato. Ettore di Durafort aveva due volte promesso alla sua armata doppie paghe e militari ricompense; ma lungi dal poter attenere le sue promesse, trovavasi debitore di alcuni mesi del soldo corrente, e non aveva danaro per pagarlo. Una rivoluzione che scoppi? nel campo, con minaccia di custodirlo come ostaggio, abbass? ben tosto la sua ambizione ed il suo orgoglio, obbligandolo a porre in libert? Giovanni dei Pepoli, per soddisfare colla di lui taglia all'avidit? delle proprie truppe. Questo contrattempo lo dispose a proporre condizioni di accomodamento; ed i Fiorentini, per farle accettare, s'affrettarono di spedire una solenne deputazione a Bologna. Essi chiedevano che questa citt? tornasse sotto la protezione della Chiesa; che fosse rimessa in libert? e governata dal popolo come lo era anticamente; che pagasse a san Pietro il consueto tributo, e che in segno di sommissione ricevesse entro le sue mura il conte di Romagna con un ristretto seguito, che i tiranni rinunciassero ad ogni governativa incumbenza, e che la riforma dell'amministrazione si eseguisse sotto la direzione de' commissarj fiorentini. Il conte ed i Pepoli, egualmente smontati dalle loro pretese, mostravano di aderire a tale accomodamento; ma quando si consigliarono coi signori di Lombardia loro alleati, Mastino della Scala, che sperava di occupare egli stesso Bologna, sconfort? il conte da questo trattato; ed il Visconti anch'esso, per motivi personali, vi fece rinunciare i Pepoli.

Dal 1339 in avanti, Luchino Visconti signoreggi? Milano e quasi tutta la Lombardia. Grandi talenti militari, una perfida politica, una impenetrabile dissimulazione, una feroce gelosia della propria autorit?, una diffidenza, cui sagrific? i suoi pi? stretti parenti, sembrano i principali tratti del suo carattere. Si lod? molto il suo amore per la giustizia, o piuttosto la vigilanza con cui mantenne la polizia ne' suoi stati, e la severit? con cui castig? i malfattori: ma sotto lo stesso nome non dovrebbe confondersi l'amore d'un uomo probo e giusto per le regole immutabili della giustizia, e l'inflessibilit? d'un despota geloso della propria autorit?, che conserva o vendica l'ordine da lui stabilito. Luchino amava la lode, onde cercava l'amicizia del Petrarca, che gli uomini potenti ottenevano senza difficolt? lusingando l'amor proprio del poeta. In fatti Petrarca diresse una pomposa lettera a Luchino per celebrare la sua virt? e la sua gloria; ma poco dopo aver ricevuta questa scrittura, mor? il 28 gennajo del 1349, avvelenato dalla consorte Isabella del Fiesco, prevenuta opportunamente che suo marito in un trasporto di gelosia la condannava alla morte.

Milano, Lodi, Piacenza, Borgo san Donnino, Parma, Crema, Brescia, Bergamo, Novara, Como, Vercelli, Alba, Alessandria, Tortona, Pontremoli ed Asti.

Il duca Guarnieri, personale nemico dei Visconti, pass? nel campo del conte di Romagna con i suoi soldati lo stesso giorno in cui le truppe milanesi entrarono in Bologna: in pari tempo le truppe ausiliarie di Mastino della Scala giunsero a rinforzare l'armata della chiesa, sicch? trovossi tutt'ad un tratto pi? numerosa e pi? formidabile assai che prima non era stata. Ma la corte d'Avignone faceva colla sua avarizia andare a vuoto tutti i progetti de' suoi generali. Dopo avere cominciata la guerra con vigore, e promessi considerabili sussidj ai suoi alleati, mancava senza rossore alle promesse; ricusava di somministrare il danaro quand'era pi? necessario, ed abbandonava le proprie creature, perch? tutte le entrate venivano prese da altri favoriti. Al conte di Romagna non si mand? il danaro per pagare le truppe. Invano questi rappresentava al papa suo cugino il grave affronto cui rimaneva esposto il nome della chiesa, ed i pericoli che soprastavano a tutto il suo patrimonio. Durafort non pot? ottenere da Avignone verun sussidio, e fu alla fine costretto a permettere che i suoi soldati trattassero col suo nemico. Barnab? Visconti, che comandava in Bologna, pag? col danaro destinato ai Pepoli il soldo delle truppe che lo assediavano, prese mille cinquecento cavalieri della chiesa al suo servizio, obblig? gli altri ad allontanarsi, ricuper? tutti i castelli occupati dall'armata del conte, e lasci? che questi tornasse coperto di vergogna ad Imola.

Galeazzo, Barnab? e Matteo erano figliuoli di Stefano, fratello dell'arcivescovo, ed il quinto de' figli del magno Matteo Visconti.

Per altro l'arcivescovo promise in seguito d'ubbidire alla citazione del papa, e di presentarsi personalmente in Avignone; volendo atterrire la corte pontificia con una singolare ostentazione. Uno de' suoi segretarj, recatosi in Avignone per preparare gli alloggi, prese in affitto tutte le case che trov? vuote in Avignone e nel circondario di pi? leghe; in pari tempo fece grandiosi approvvigionamenti di vittovaglie e di arredi per il padrone e pel suo seguito. Il papa, avvisato di tanti movimenti, fece domandare al segretario quanta gente pensasse di condurre l'arcivescovo. Questi rispose di avere ordine di disporre i quartieri ed i viveri per dodici mila cavalli e sei mila pedoni, senza contare i gentiluomini milanesi che dovevano seguire il loro arcivescovo; soggiugnendo che aveva in tali apparecchi di gi? spesi quaranta mila fiorini. Il papa atterrito da cos? fatta visita, fece pregare il Visconti a non esporsi a cos? disagiato viaggio; e gli sped? deputati per trattare d'accordo, avendogli in fine data l'investitura di Bologna, oggetto principalissimo della contesa, per cento mila fiorini.

Il vescovo di Ferrara, di conformit? alle ricevute commissioni, aveva cercato di eccitare nemici e formare una lega contro i Visconti; ma i signori di Lombardia, che tutto avevano a temere dall'ambizione dell'arcivescovo, non avevano forza da resistergli. Giacomo da Carrara il vecchio era stato assassinato da un bastardo della propria famiglia, onde la signoria di Padova era stata data a giovent? inesperta. Mastino della Scala mor? improvvisamente il 3 giugno del 1351 in et? di 42 anni, nell'anno vigesimo terzo del suo regno. Gli succedettero i suoi tre figliuoli Can grande II, Can signore, e Paolo Alboino, niuno de' quali aveva i talenti del padre; ed Alberto suo fratello non volle avere alcuna parte al governo. Le repubbliche di Firenze, Siena e Perugia avevano, ad insinuazione del legato, spediti dei deputati ad Arezzo, per concertarsi coi signori di Verona e di Ferrara intorno ai mezzi di mantenere l'equilibrio d'Italia; ma Siena e Perugia, trovandosi in tanta distanza da Milano, non si credevano esposte a verun pericolo, onde ricusavano di fare sagrificj per la causa comune; e la subita morte di Mastino fece abbandonare da tutti i deputati una dieta che non sapeva prendere alcun partito. Can grande, che aveva sposata una nipote dell'arcivescovo di Milano, approfittando di quest'occasione, strinse con lui nuova alleanza.

E per tal modo la repubblica di Firenze fu la sola che mostrasse abbastanza coraggio per volersi opporre ai progressi della casa Visconti. La diserzione di tutte le altre potenze lasciavanla esposta in prima linea agli attacchi di cos? pericoloso vicino. Tutti i tiranni di Romagna, tutti i gentiluomini ghibellini della Toscana si associavano al signore di Milano, la di cui armata spedita per fare l'assedio d'Imola, minacciava nello stesso tempo i confini della repubblica fiorentina, la quale non poteva fidarsi ai trattati di pace che aveva convenuti con quel tiranno.

Conveniva per lo meno provvedere che le citt? toscane, che si governavano a comune sotto la protezione della repubblica, non aprissero ai Milanesi i passi delle montagne. Prato e Pistoja, citt? situate nel piano medesimo di Firenze, stendevano la loro giurisdizione alle montagne che dividono la Toscana dal Bolognese, ed il governo di queste due citt?, che potevano diventare pericolose piazze d'armi in potere dei nemici, non ispiravano troppa sicurezza al partito guelfo. A Prato la famiglia de' Guazzalotti, resa potente dal favore dei Fiorentini, godeva di un quasi tirannico potere. Gli antichi capi di questa famiglia erano stati rimpiazzati, quando morirono, da giovent? invanita della propria importanza in quella piccola citt?; affettava modi principeschi, e disprezzo pei Fiorentini suoi antichi protettori. L'audacia sua giunse tant'oltre di condannare a morte due innocenti cittadini, sospetti di congiura, e di farne eseguire la sentenza malgrado le calde preghiere della signoria fiorentina. Questa fece allora avanzare le sue milizie fino alle porte di Prato, e prese in sua custodia la citt?; trattando in pari tempo colla regina Giovanna, la quale aveva ereditato dal duca di Calabria dei diritti sulla citt? di Prato, e facendo l'acquisto di tali diritti alla sovranit? di Prato per 17,500 fiorini, un? difinitivamente quel piccolo stato al territorio fiorentino.

I priori di Firenze avevano pure pensato di sorprendere Pistoja, e senza averne ricevuta l'autorit? dal popolo o dai consigli della repubblica, avevano fatta tentare la scalata la notte del 26 marzo 1351. Ma i Pistojesi, sdegnati per questo tradimento, avevano vigorosamente rispinti gli assalitori; e mostravansi disposti di abbandonare il partito guelfo e le antiche loro alleanze per vendicarsi di una ingiusta aggressione. Dall'altro canto i Fiorentini, sebbene altamente biasimassero la condotta de' loro priori, vedevansi costretti a cingere d'assedio una citt? che sapevano vicina a darsi in mano dei Visconti. Per altro le loro milizie astenevansi dal recare danno ad antichi alleati, che attaccavano loro malgrado, ed i priori chiedevano caldamente che si entrasse in negoziazioni, onde colla mediazione di alcuni gentiluomini guelfi ottennero di stabilire un trattato fra le due repubbliche. La libert? della pi? debole fu mantenuta nella sua integrit?; ma i Fiorentini ottennero di mettere guarnigione nella fortezza di Pistoja e nelle altre due fortezze di Serravalle e della Sambuca. Alcune delle porte della Toscana parvero in tal modo chiuse al tiranno della Lombardia; ma altrove, rivoluzioni eccitate da' suoi maneggi in vicinanza di questa provincia gli aprivano nuove strade. Ovunque un usurpatore occupava il governo, il Visconti acquistava un alleato, e la repubblica un nemico. Ad Orvieto Benedetto Monaldeschi, che voleva appropriarsi il supremo potere, si assicur? preventivamente l'assistenza dell'arcivescovo di Milano; adun? in propria casa i suoi satelliti, e loro distribu? le armi; fece loro conoscere il segno dietro il quale dovevano recarsi in piazza, indi portossi in consiglio per abboccarsi con due de' suoi parenti, i Monaldi ed i Monaldeschi, che conosceva troppo incorrotti, per isperare che acconsentissero alla sua usurpazione. Quando fu terminato il consiglio li chiam? da banda, e, conducendoli innanzi alla propria casa, li fece assassinare sotto i suoi occhi. Era questo il segno che aspettavano gli sgherri adunati presso di lui; si affollarono subito in piazza, presero d'assalto il palazzo del governo, saccheggiarono le case ed i magazzini de' mercanti, uccisero coloro che facevano resistenza, e proclamarono Benedetto di Bonconte Monaldeschi signore d'Orvieto. Dopo pochi giorni si rese pubblica l'alleanza di questo nuovo signore coll'arcivescovo Visconti.

Quasi nello stesso tempo Giovanni Cantuccio dei Gabrielli usurp? la signoria di Gubbio sua patria, mentre gran parte de' suoi concittadini trovavansi al governo, come podest?, di altre citt? d'Italia; perciocch? tutti i gentiluomini di Gubbio seguivano la carriera della giudicatura, e verun'altra citt? somministr? tanti rettori alle repubbliche italiane. Un'armata di emigrati giunse in breve ad attaccare il nuovo tiranno, formando di concerto coi Perugini l'assedio di Gubbio; ma Giovanni de' Gabrielli, sebbene originario guelfo, chiam? in suo ajuto i Ghibellini; le truppe dell'arcivescovo Visconti vennero a difenderlo, obbligando gli assedianti a dar luogo.

Gli Ubaldini, gli Ubertini, i Tarlati ed i Pazzi erano intervenuti ad una dieta tenuta dai Ghibellini in Milano nel mese di luglio; e si erano veduti in quest'adunanza gli ambasciatori dei Pisani, i Castracani di Lucca, i conti di Santafiora e di Spadalunga delle montagne di Siena, ed i deputati dei signori di Forl?, di Rimini e di Urbino. Ogni cosa faceva credere la burrasca vicina a piombare sulla repubblica fiorentina; ma perch? l'arcivescovo di Milano l'andava ogni giorno assicurando del suo vivo desiderio di conservare la pace e la buona intelligenza, i priori di Firenze non aprivano gli occhi sui pericoli ond'erano minacciati, n? pensavano a porsi in istato di difesa.

Erasi scoperta in Bologna una pretesa congiura contro l'arcivescovo di Milano, il quale aveva fatto punire colle verghe uno de' Pepoli, e condannare co' suoi figliuoli a perpetua prigionia, onde ritogliergli il danaro che gli aveva dato per acquistare la sua sovranit?. Mentre i Fiorentini occupavansi di questo fatto, si seppe improvvisamente che un emigrato Pistojese aveva sorpreso il castello della Sambucca che signoreggiava il passaggio degli Appennini, nel mentre che Giovanni d'Oleggio, generale del signore di Milano, trovavasi soltanto quattro miglia lontano da Pistoja con un corpo dell'armata che poc'anzi formava l'assedio d'Imola.

Fortunatamente Giovanni d'Oleggio si trattenne due giorni alle falde dell'Appennino per aspettare il rimanente delle truppe; onde cinquecento cavalli e seicento fanti di Firenze ebbero tempo di gettarsi in Pistoja il 28 luglio, prima che la citt? fosse cinta d'assedio, riparando in tal modo col loro zelo la negligenza de' magistrati. Ma la congiura formata contro Firenze nella dieta dei Ghibellini a Milano scoppi? in ogni parte. Le truppe adunate nelle diverse piazze della Lombardia marciavano tutte alla volta della Toscana; i signori di Venezia e della Romagna somministravano i convenuti sussidj di truppe all'armata milanese; gli Ubaldini armavano tutti i loro vassalli degli Appennini; ed alla testa de' medesimi bruciarono Firenzuola, le di cui mura non erano ancora state rifatte, ed occuparono Montecoloreto. Pietro Saccone dei Tarlati, il pi? formidabile partigiano che avesse prodotto l'Italia, guastava cogli Ubertini e coi Pazzi tutte le vicinanze di Bibiena. Temevasi in Firenze che anche i Pisani non si unissero a tanti nemici, imperciocch? sapevasi che, come gli altri Ghibellini, avevano ancor essi mandati i loro deputati alla dieta di Milano; ma il timore di cooperare all'ingrandimento di un tiranno prevalse nel consiglio di Pisa al furore dello spirito di partito, e la repubblica ricus? di prendere le armi contro un popolo, bens? rivale, ma che solo sosteneva in Italia la causa della libert?.

I Fiorentini spedirono deputati a Giovanni d'Oleggio per chiedere i motivi d'una aggressione non preceduta da veruna dichiarazione di guerra, mentre sapevano di non aver dato all'arcivescovo di Milano, suo padrone, verun motivo di lagnanza, e non avevano con lui alcuna controversia. Oleggio gli accolse in presenza del suo consiglio di guerra, e loro rispose in questi termini:

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I governi, macchiati dalla ingiustizia e dal tradimento, hanno spesso fatto abuso dei nomi della virt? e dell'onore, e posto in bocca alla pi? sfrenata ambizione i discorsi della moderazione e della giustizia: ben possono essi, fin dove stendesi la loro autorit?, non lasciar sentire che la propria voce; ma non possono ingannare la posterit?, come non illudono coloro cui addirizzano i loro proclami. Le scritture cui affidano le loro menzogne, non saranno conservate come documenti storici che possano far conoscere i fatti o le intenzioni di coloro che le pubblicarono, ma come infallibili testimonianze della bassezza e falsit? loro. Gli ambasciatori fiorentini, cui il Visconti d'Oleggio neg? passaporti per recarsi a Milano, alla corte dell'arcivescovo, tornarono a Firenze ad informare la signoria della risposta ipocrita ed altera loro data, la quale comunicata al popolo, e registrata nelle cronache, eccit? lo sdegno universale, e somministr? nuove forze alla repubblica.

I Fiorentini mandarono in Prato ed in Pistoja tutte le truppe assoldate che avevano, confidando la difesa delle altre fortezze agli abitanti loro, e le milizie fiorentine si riservarono la custodia delle mura della capitale. La signoria, sorpresa nel cuor della pace, non aveva al suo soldo verun capitano di guerra, od armata in istato di tenere la campagna, mentre il Visconti d'Oleggio aveva sotto i suoi ordini, nel piano di Pisa, cinque mila corazzieri a cavallo, due mila cavallegeri, e sei mila fanti. Con queste formidabili forze il generale milanese port? il suo quartiere generale negli aperti villaggi di Campi, Brozzi e Peretola, e spinse i saccheggi fino alle porte di Firenze.

Ma i contadini all'avvicinarsi dell'armata nemica eransi fatti solleciti di riporre in luoghi di sicurezza tutto quanto possedevano di pi? prezioso, e si erano riparati essi medesimi nelle castella murate coi loro bestiami e gli approvigionamenti da bocca: onde i Milanesi non tardarono a sentire la mancanza delle vittovaglie, ed a soffrire gl'incomodi del caldo, ch'era di que' giorni estremo. Per procurarsi approvigionamento, e soltanto per parlare ad un contadino o per entrare in una casa, erano costretti d'intraprendere un assedio, giacch? la campagna non aveva abitatori, trovandosi tutti gli agricoltori chiusi in terre e castella murate. Onde non potendo l'Oleggio pi? lungamente tenersi nel piano di Firenze, prese la via della valle di Marina, ed entr? in quella di Mugello, ove dopo alcuni giorni di riposo intraprese l'assedio di Scarperia.

Il borgo di Scarperia era male fortificato, non avendo mura che da un solo lato, e dagli altri una fossa con palafitta, e dietro la fossa le muraglie delle prime case. La guarnigione consisteva in duecento corazzieri e trecento fanti; mentre Oleggio alla sua formidabile armata aveva di fresco uniti tutti i Ghibellini degli Appennini, onde vedevansi le sue truppe coprire tutta la campagna. Non pertanto i comandanti di Scarperia risposero all'intimazione d'arrendersi, che avevano mezzi per difendere tre anni la fortezza loro affidata, e rispinsero vigorosamente un primo assalto dato il giorno 20 d'agosto.

Frattanto il castello di Scarperia veniva ostinatamente attaccato; le macchine degli assedianti non cessavano n? giorno n? notte di lanciare enormi massi di pietre; la guarnigione, resa debole da continue zuffe, cominciava a prevedere che non avrebbe potuto resistere lungo tempo contro forze tanto superiori; e la cavalleria ausiliaria, che i Fiorentini aspettavano da Perugia, non aveva potuto giugnere, essendo stata svaligiata da Pietro Saccone dei Tarlati, che l'aveva sorpresa con un'imboscata. La signoria, non avendo alla testa delle sue truppe un generale sperimentato, non osava tentare la liberazione di Scarperia col dare una battaglia, e cerc? piuttosto di rinforzarne la guarnigione. Due coraggiosi cittadini, un Giovanni Visdomini ed un Medici, che professavano ambidue il mestiere delle armi, intrapresero di condurre, il primo trenta corazzieri, l'altro ottanta pedoni scelti, a traverso al campo nemico fino entro le mura di Scarperia. Tutti i soldati da loro scelti erano tedeschi; l'armata dei Visconti trovavasi in gran parte composta di mercenarj della stessa nazione, onde la confusione del linguaggio agevolava la marcia degli avventurieri, che volevano penetrare nel castello; altronde erano favoriti dall'oscurit? della notte; ed al loro ardire giovando assai la perfetta conoscenza dei luoghi, e la sorpresa dei nemici, giunsero in Scarperia, ove questo pugno di gente valorosa fu ricevuto con trasporti di gioja.

Quando Visconti d'Oleggio vide che la perdita cagionata agli assediati dalle baliste e dalle grandini delle freccie lanciate contro di loro, non gli stringeva ad arrendersi, risolse di prendere la piazza d'assalto. Aveva fatte preparare tutte le macchine da guerra allora usate nell'attacco delle citt?; cio? torri mobili di legno, montoni armati d'uncini, scale; oltre di che aveva fatto riempire le fosse. La prima domenica d'ottobre diede un generale assalto; ma gli assediati, fermi al loro posto, rovesciavano coloro che salivano le scale, o si avvicinavano sui ponti delle torri mobili; versando sugli altri pece bollente, pietre e dardi. Essi mai non lasciavano un solo istante senza gente il pi? angusto tratto di muro, facendo cadere gli uni sopra gli altri gli assalitori che successivamente si alzavano fino ai merli della muraglia, e che ricadevano nelle fosse coperti di ferite. Oleggio aveva calcolato di vincere i difensori di Scarperia colla stanchezza, e conduceva successivamente all'assalto diversi corpi d'armata, opponendo ogni mezz'ora truppe fresche a soldati affaticati dalla pugna. Ma gli assediati, incoraggiati dal buon successo, mostravano di non sentire la fatica; e per lo contrario gli assalitori si scoraggiavano vedendo le perdite di coloro che gli avevano preceduti. Durava gi? da sei ore l'attacco, quando Oleggio fece ritirare le sue truppe, abbandonando presso le mura sessantaquattro scale che furono prese dagli assediati.

In appresso il generale milanese cerc? di penetrare in Scarperia per una mina; ma la galleria, che aveva fatta scavare, fu scoperta, e cacciata con perdita la sua gente. Dopo quattro giorni di riposo, diede un secondo assalto generale, che non fu n? meno lungo n? meno ostinato del primo; ma le sue truppe vennero respinte ancora pi? vergognosamente. Tutte le macchine avanzate fin sotto le mura, e le stesse torri mobili, che non potevano essere rifatte che con lungo lavoro, furono bruciate in una sortita. La stessa notte successiva al combattimento, gli abitanti di Scarperia vennero attaccati per sorpresa: Oleggio aveva promesso ai suoi contestabili tedeschi, per la presa di questo piccolo castello, doppio soldo, mese intero ed un regalo di dieci mila fiorini. A mezza notte, mentre gli assediati stavano medicando le loro ferite, o riparando col sonno le perdute forze, nel campo milanese fu dato il segno di armarsi. I raggi della luna cadevano obbliquamente sul castello, ed illuminavano il campo e lo spazio che lo separava dalle mura, mentre gli edificj di Scarperia gettavano sull'opposto lato un'ombra estesa ed oscura. In questo cupo spazio, Oleggio aveva posti trecento sergenti d'armi muniti di scale, mentre tutto il rimanente dell'armata avanzavasi al suono delle trombe, e mettendo alte grida, dal lato rischiarato dalla luna. Non dubitava il generale milanese, che nella prima sorpresa di un notturno attacco, tutti gli abitanti di Scarperia non si recassero verso la parte minacciata. Ma una migliore disciplina era stata stabilita nel castello. Dall'istante dell'allarme ognuno erasi portato in silenzio al suo posto; gli assediati occupavano tutta l'estensione delle mura, e tenevano nascosti i lumi e le armi; permisero agli assalitori d'innoltrarsi fino al piede delle mura; non impedirono ai trecento sergenti di passare colle loro scale le due fosse, e di cominciare a salire sul muro. Tutt'ad un tratto gli assediati si fecero vedere, e, fortemente gridando, oppressero gli assalitori con pietre preparate a tal uopo, e, rovesciando le loro scale, gli spinsero tutti nella fossa. Dal lato illuminato dalla luna, la pugna dur? pi? lungamente; ma quando spunt? il giorno Oleggio fece suonare a raccolta, e rinunci? al progetto di sottomettere un piccolo castello, innanzi al quale tutta la potenza de' Visconti aveva perduta la sua gloria.

Realmente i soldati cominciavano a mancare di vittovaglia, ed i cavalli di foraggi; la stagione si faceva ogni giorno peggiore, onde il campo milanese era pieno d'ammalati e di feriti. Oleggio dopo essersi trattenuto ottantadue giorni nel territorio fiorentino, consumandone sessantuno nell'inutile assedio di un debole castello, lev? il campo il 16 ottobre, tornando nello stato bolognese per istrade signoreggiate da gentiluomini ghibellini suoi alleati.

Dopo la ritirata dell'esercito milanese i Fiorentini si presero cura di premunirsi in avvenire contro somiglianti invasioni. Fortificarono tutti i passaggi degli Appennini; assoldarono molte truppe regolari; accrebbero le imposte in modo d'avere annualmente una rendita di 360,000 fiorini; e per ultimo in dicembre segnarono un trattato d'alleanza difensiva colle tre comuni di Perugia, Siena ed Arezzo. Le quattro repubbliche si obbligarono a tenere continuamente in sul piede di guerra un'armata di tre mila cavalieri per la difesa della libert?. Ma la sola Firenze ne aveva di gi? sotto le armi un numero ancora maggiore.

La potenza de' Ghibellini di Lombardia aveva fino a tale epoca trovato il suo contrappeso in quella della casa guelfa che regnava in Napoli; ma dopo che Giovanna era succeduta al saggio Roberto, tutte le forze de' sovrani e del popolo, consumate in una terribile guerra civile, parevano quasi affatto spente, ed i Fiorentini, stretti dall'arcivescovo di Milano, volgevansi invano verso l'erede di quella casa d'Angi?, che lungi dal potere difenderli, aveva essa stessa bisogno della loro protezione.

Il re d'Ungheria aveva di nuovo nel 1350 attraversato l'Adriatico per condurre nel regno di Napoli dieci mila uomini di cavalleria, che lo avevano seguito montati sopra battelli scoperti. Egli non aveva galere per proteggere la sua flottiglia, di modo che, se Giovanna non avesse lasciata perire la sua marina, essa avrebbe potuto agevolmente fermare gli Ungari sulle opposte rive, o affondare le barche sulle quali si avventuravano. Le truppe che, per una imperdonabile negligenza, Giovanna aveva lasciate sbarcare nel regno, lo attraversarono con facilit?; occuparono presso che tutte le citt? delle due province chiamate principati, ed in appresso assediarono Aversa, la sola piazza che tentasse difendersi. Ma gli Ungari servendo il re in forza della loro dipendenza feudale, non ricevevano da lui pagamento, e dopo un breve termine avevano il diritto di tornare alle loro case. Aversa non fu presa che nell'epoca in cui terminava l'obbligo loro, onde chiesero di ripassare in Ungheria. Lo stesso re stanco delle sue guerre d'Italia, perdeva ogni speranza di conquistare paesi, ove non pensava di stabilire la sua dimora, e desiderava egualmente di riprendere la strada del suo regno. Dal canto suo la regina Giovanna trovavasi debolissima, onde chiedeva caldamente la pace, ed in seguito ad alcune conferenze, fu conchiusa in ottobre del 1350 una tregua che doveva durare fino al 1? aprile del susseguente anno. Si convenne che fino a tale epoca le due parti conserverebbero i loro possedimenti, che i due re e la regina uscirebbero dal regno, e che il papa, nel suo concistoro, rimarrebbe solo giudice dell'attentato commesso contro il re Andrea. Se la corte d'Avignone pronunciava essere la regina colpevole, questa doveva perdere il regno, che sarebbe devoluto al re d'Ungheria: se la corte d'Avignone la dichiarava innocente, il re doveva rinunciare a tutte le sue conquiste, contro il pagamento di trecento mila fiorini a titolo di spese della guerra. A queste condizioni Luigi d'Ungheria torn? ne' suoi stati, dopo avere nominati suoi luogotenenti il cavaliere di Monreale nella Terra di Lavoro, e Corrado di Guilford in Puglia.

Dietro tale tregua il re d'Ungheria e la regina Giovanna spedirono ambasciatori alla corte d'Avignone per rifare il processo intorno alla morte del re Andrea. Ma gli Ungari, che oramai credevano di avere bastantemente vendicato quest'assassinio, non appoggiavano con grande impegno la loro accusa; ed il papa ed i cardinali erano tutti favorevoli alla casa di Provenza: pure il delitto di Giovanna era tanto manifesto, che non sapevano a qual partito appigliarsi per discolparla senza disonorare s? medesimi. Dopo avere assai protratto il giudizio, s'appigliarono per ultimo ad un partito, che ben mostra quanto la stessa regina confidasse poco nella giustizia della sua causa. I commissarj di Giovanna dichiararono che, quando potesse ancora provarsi che questa principessa avesse mancato ai doveri coniugali, non doveva imputarsi il di lei errore n? alla sua intenzione, n? a cattiva volont?, ma riconoscere ch'ella aveva ceduto alla forza d'un sortilegio, e che la debolezza d'una donna non aveva potuto resistere alla possanza degli spiriti infernali. I commissarj confermarono la strana loro giustificazione colle deposizioni di molti testimonj giurati; e i giudici, cui le dirigevano, essendo ancor essi desiderosi di trovare un pretesto per pronunciare un giudizio favorevole alla regina, la dichiararono innocente del delitto commesso contro Andrea, ed annullarono l'accusa che da tanto tempo pesava sul suo capo.

Questo giudizio per altro non ridon? immediatamente la pace al regno di Napoli, perch? la corte d'Avignone trovava di suo utile il prolungamento dell'anarchia. Clemente VI non aveva voluto dare a Luigi di Taranto, sposo di Giovanna, altro titolo che quello di re di Gerusalemme, e non aveva voluto ratificare il trattato tra lui ed il re d'Ungheria. Vero ? che gli Ungari si erano ritirati dal regno, ma Luigi di Taranto doveva far guerra ai suoi propri baroni, e non trovava in verun luogo chi volesse ubbidirgli. Egli non aveva danaro per mantenere un'armata, e nemmeno per supplire ai proprj pi? immediati bisogni. Erasi avanzato fino a Sulmona con intenzione di sottomettere i ribelli della Puglia; e col? vedevasi abbandonato da' suoi soldati, e deriso dalla nobilt?, mentre le principali citt? del regno rifiutavano d'aprirgli le porte. In tale quasi disperata situazione, ebbe notizia in dicembre del 1351, che il papa lo aveva riconosciuto in pieno concistoro per re di Napoli e di Sicilia. La coscienza del pontefice erasi risvegliata repentinamente, quando una grave malattia l'aveva condotto al limitare del sepolcro, e da quell'istante manifestava la pi? viva impazienza di rendere la pace all'Italia.

In un secondo concistoro tenuto nel susseguente mese, cui assistettero il vescovo di Cinque chiese e Corrado di Guilford quali plenipotenziarj del re d'Ungheria, Clemente VI ratific? la tregua che esisteva tra i due monarchi, e la commut? in perpetua pace. Riconobbe Luigi di Taranto e Giovanna di Provenza come re e regina di Napoli; e nella sua qualit? di abituale signore accord? che il regno venisse a certe epoche assoggettato al pagamento di trecento mila fiorini, promessi al re Ungaro per ispese di guerra. Gli ambasciatori d'Ungheria si fecero allora a parlare, e contro l'universale aspettazione dichiararono che il re, loro padrone, non avendo fatta la guerra in Italia per ammassare danaro, ma per vendicare il sangue di suo fratello, assolveva il re, la regina ed il regno dei trecento mila fiorini a lui promessi, e senza veruna condizione rimetteva la regina Giovanna nell'intero godimento dell'eredit? de' suoi maggiori.

CAPITOLO XL.

I Siciliani ed i Napoletani tenevano ancora, cinquant'anni prima, un distinto posto tra le potenze marittime; e la loro marina erasi formata ne' tempi in cui Amalfi, Napoli e Gaeta erano repubbliche, in cui Messina e Palermo godevano di una quasi piena libert? sotto la sola protezione della corona. Ma malgrado i talenti e l'attivit? di Federico, re di Sicilia, malgrado le ricchezze e la perseveranza di Roberto re di Napoli, la marina militare di questi due paesi era affatto spenta, perch? la marina mercantile non aveva potuto sostenersi senza l'energia della libert?. La regina Giovanna, sovrana della Provenza e del regno di Napoli, non aveva vascelli di guerra ne' porti dell'uno o dell'altro stato; i quali non avevano comunicazione tra di loro che per mare, onde la loro sovrana trovavasi per tale comunicazione in arbitrio degli stranieri. Giovanna medesima fu pi? volte costretta di esporsi al mare, ed ogni volta dovette per questo viaggio noleggiare galere genovesi. Minacciata dagli Ungari, che si affidavano all'Adriatico per invadere i suoi stati, non riusc? a formare una marina, alla quale poteva essere legata la sua sicurezza, e non pot? impedire il passaggio della cavalleria ungara sui battelli scoperti. Dimenticando la rivalit? de' suoi antenati colla casa di Sicilia, domand? quindici galere in dono a don Luigi d'Arragona, o piuttosto alla Reggenza di Palermo, che governava la Sicilia a nome del re minore; ed a tale prezzo rinunci? a tutti i pretesi diritti che la casa d'Angi? faceva valere da settant'anni sui paesi al di l? del Faro. Ma le galere siciliane a lei promesse non poterono mai dar le vele.

I Greci, ai quali l'infinito numero delle loro isole e l'assoluto bisogno di chiudere ai Turchi il passaggio dei mari, imponevano imperiosamente il mantenimento d'una marina, l'avevano lasciata andare in ruina. Quella de' Pisani pi? non aveva potuto rifarsi dalla rotta avuta alla Meloria nella fatale battaglia contro i Genovesi. E per ultimo i Francesi nelle lunghe guerre di Filippo di Valois con l'Inghilterra assoldarono le galere dei Genovesi, e gl'Inglesi non sapevano ancora circondare la loro isola con quelle nobili fortezze che assicurano adesso la sua prosperit? e la sua gloria. Vero ? che nel Nord le citt? della vasta rada avevano di gi? una fiorente marina: ma assai di rado vedevasi ne' porti del Mezzogiorno.

Il solo Mediterraneo era sempre solcato da navi da guerra, o mercantili; non ancora per gli Europei esisteva l'America, e sconosciuta era la strada alle Indie intorno al continente dell'Africa. L'Oceano era deserto, ed i regni d'Occidente comunicavano piuttosto per terra che per mare con pi? fertili ed industriosi paesi. I due pi? vasti e pi? ricchi rami di commercio del mondo, quelli che in ogni tempo fecero prosperare tutti gli altri, il commercio del Nord-est e quello delle Indie, facevansi sul Mediterraneo, uno ne' porti del mar Nero, ed alla foce dei fiumi della Russia, l'altro coll'intervento degli Armeni o degli Arabi ne' porti della Grecia, della Siria o dell'Egitto.

Gli stessi progressi dell'incivilimento rendevano ogni d? pi? necessarj ai popoli i prodotti di una ricca terra, ma tuttavia selvaggia. Quando la coltivazione s'accresce, le foreste vanno scemando, e scompajono gli animali selvaggi che le abitavano. In allora conviene chiedere ad altri paesi, rimasti quasi deserti, i prodotti di quelle stesse foreste, che sono la principale materia delle arti, e che la civilt? medesima ci rende necessarj. La Russia, gi? da pi? secoli, ? il magazzino de' legni da costruzione di tutta l'Europa, della canape di cui si fanno le vele e le gomene, della pece, della cera, del sego, delle pellicce. Alcune di queste mercanzie tanto necessarie alla navigazione ed alle arti, possono al presente venirci somministrate dall'America settentrionale; tiriamo il rimanente dai porti del mar Baltico; e pi? anticamente tiravansi da quelli d'Arcangelo. Nel quattordicesimo secolo tutto questo commercio facevasi per il mar Nero; le mercanzie del Nord scendevano i fiumi che gettansi in questo mare, specialmente il Don o Tanai; tutto quanto andiamo oggi a cercare nel Baltico, nel mar Bianco, ed alle foce del san Lorenzo, trovavasi raccolto nella piccola Tartaria; e le repubbliche di Venezia e di Genova, premurose di dare consistenza ai loro banchi del mar Nero, fecero diversi trattati di commercio coi successori d'Octai Kan e di Zengis, che circa nella met? del 13.? secolo avevano conquistata o corsa la Russia, la Polonia, l'Ungheria e la Moldavia.

Le citt? di Caffa e della Tana furono preferite a tutte le altre per essere l'emporio delle ricche esportazioni della Russia, e dei prodotti dell'industria italiana, destinati al consumo de' Tartari e de' popoli del Nord. Caffa nella Crimea era una colonia dei Genovesi interamente soggetta alla loro sovranit?. In principio del quattordicesimo secolo avevano da un capo tartaro comperato il diritto di fabbricare alcune botteghe e poche case sulla spiaggia; ben tosto i profitti del commercio vi chiamarono una numerosa popolazione; il muro innalzato per difendersi da ladri, divent? una regolare fortezza; i Genovesi, che vi si domiciliavano, alzavano al di sopra de' loro magazzini sontuosi palazzi; e la colonia che cercavasi di rendere simile alla superba Genova sua metropoli, prese in breve il pi? florido aspetto.

Tana, posta alle foci del Tanai e vicina ad Azour, era soggetta ai sovrani tartari, ma i Genovesi ed i Veneziani avevano stabilimenti considerabilissimi in questa citt?; i Fiorentini ed altri popoli d'Italia vi avevano pure aperti i loro banchi; onde vi si trovavano accumulate immense ricchezze; e quando le avanie de' Tartari, i tremuoti o gl'incendj ruinavano i mercanti della Tana, la perdita loro era risentita da tutto l'Occidente.

Mentre una delle rive del mar Nero offriva agl'Italiani il commercio che noi facciamo adesso coll'America, l'altra apriva loro la pi? frequentata strada delle Indie orientali. Tutte le citt? della costa opposta alla Tartaria erano animate da un attivissimo e vantaggioso commercio. Sopra tutto Sinope e Trabisonda erano abitate da numerose colonie di mercanti italiani e visitate ogni giorno dai loro vascelli. Sinope era un importante punto di comunicazione coi Turchi dell'Asia minore; Trabisonda, sede d'un piccolo impero greco nato dai rottami di quello di Costantinopoli, e governato da un Comneno, apriva una pi? importante comunicazione coll'Armenia, ed agevolava il commercio di questo ricco regno.

La chiesa d'Armenia era stata unita alla chiesa cattolica l'anno 1145, 1190, 1247.

Questa comunicazione a traverso l'Armenia aveva fatto di Trabisonda uno de' mercati del commercio delle Indie. I prodotti di que' felici climi, e sopra tutto le spezierie, furono in ogni tempo l'oggetto del pi? lucroso commercio del mondo. Tutti i paesi domandano e consumano ci? che una sola contrada produce, ed ancora scarsamente. Le spese e le difficolt? del trasporto da una all'altra estremit? del globo, hanno successivamente dati a diversi popoli i mezzi di stabilire un monopolio sulle spezierie: allora soltanto si ? potuto dire con verit? ci? che fu cos? spesso ripetuto a torto degli altri commerci di oggetti di consumo: tutte le nazioni sono tributarie di quella che ? in possesso di somministrare le spezierie e gli aromi delle Indie.

Nel 14? secolo, questo ricco commercio facevasi a traverso dell'Asia per pi? strade in un tempo medesimo. Ma tutte queste strade erano pericolose, le frequenti rivoluzioni de' paesi che i mercanti dovevano attraversare, interrompevano i loro viaggi e ne fermavano le speculazioni. Fra le carovane che portavano dalle Indie colle spezierie i prodotti delle manifatture dell'Indostan e della China, alcune attraversavano la Battriana o grande Bucaria; i convogli delle mercanzie scendevano in appresso l'Oxus, navigavano a traverso del mar Caspio, rimontavano il Cyrus, e finalmente per il Faso discendevano nel mar Nero. Altre mercanzie abbondavano nel golfo Persico, e per mezzo dell'Eufrate penetravano nell'Assiria, di dove venivano dirette ai diversi porti di Terra santa o dell'Asia minore. Finalmente alcune per il mar Rosso passavano ad Alessandria d'Egitto. E per tal modo dalla foce del Tanai fino a quelle del Nilo, le diverse citt? marittime possedute dai Tartari e dai Turchi, dai Greci e dagli Arabi, furono a vicenda arricchite dal commercio dell'India. I Veneziani ed i Genovesi, che avevano dato a queste citt? il nome di Scalo, stabilirono in tutte fattorie per raccorre gli aromi; ed essi soli ne provvedevano poi tutta l'Europa.

Costantinopoli trovavasi nel centro del commercio del mar Nero, dell'Asia minore e dell'Egitto. Gli abitanti di questa citt?, snervati da lunga schiavit?, non avevano la necessaria energia per eseguire essi medesimi le intraprese commerciali, cui erano chiamati dalla loro situazione. Ma Costantinopoli era sempre il gran mercato dell'Oriente, ed in mancanza de' Greci, gl'Italiani venivano a fare i loro proprj affari. I Veneziani possedevano in Costantinopoli un quartiere circondato di mura, e chiuso da porte, come quegli abitati a' nostri giorni dagli Ebrei in quasi tutte le citt? d'Italia. Avevano inoltre nel porto un ancoraggio separato e circondato di palafitte. La colonia era governata, come una piccola repubblica, da un balio che faceva le veci del doge, da' giudici, da' consiglieri e da' savj. I piccoli stabilimenti de' Veneziani nella Romania erano subordinati a quello di Costantinopoli, ed i pi? grandi avevano separati governi.

La piet? ed il disprezzo che i Greci mostravano per la fatica e la miseria di una vita consacrata al commercio viene espressa dagli storici loro quando parlano dei latini: ?????? ??? ???? ????????, ??? ??????? ???? ?? ???????, ???????? ?? ??????? ??? ???????? ??? ??????????????????.

La colonia bizantina de' Genovesi era assai pi? importante. Michele Paleologo, volendo mostrarsi grato ai soccorsi da loro ricevuti per racquistare la capitale, aveva loro ceduta la sovranit? del sobborgo di Pera o Galata, posto in faccia a Costantinopoli, e dall'altro lato del porto. Tutti i Genovesi vi avevano trasportati i loro banchi, e, sotto il regno del vecchio Andronico, avevano circondata la nascente loro citt? prima di una doppia, poi di una triplice linea di mura. Pera, che stendevasi tra le colline ed il golfo, sopra una lunghezza quattro volte maggiore della larghezza, aveva quattro mila quattrocento passi di circuito. Le case alzate a guisa di terrazzi le une sopra le altre, godevano di tutta la vista del mare e di Costantinopoli. Ogn'anno vedevasi crescere il loro numero e la magnificenza loro; e se l'impero greco non fosse caduto sotto le calamit? che lo percossero incessantemente, in meno d'un secolo la citt? genovese avrebbe uguagliato in isplendore ed in popolazione la capitale dell'Oriente.

? gi? molto tempo che pi? occupati non ci siamo delle rivoluzioni di Costantinopoli. Siccome l'impero greco si andava debilitando, diminuiva altres? la sua influenza sulla politica d'Europa; i Paleologi erano ben lontani dal potere come i Comneni turbare l'Italia coi loro intrighi, formando su questa contrada progetti di conquista; essi invece non chiedevano che di essere dimenticati, e lo erano effettivamente. I principi di Taranto, eredi dei pretesi diritti degl'imperatori latini di Costantinopoli, erano ancor essi troppo deboli per far valere i titoli onde continuavano ad onorarsi. Ridotti al rango di nobili faziosi nella languente monarchia di Napoli, non pensavano pure ad armare l'Europa per riconquistare l'impero greco. Pi? non attaccavano, e non erano attaccati. Da ambo le parti si vivea nel riposo dell'impotenza. I negozianti soltanto ed i letterati mantenevano le relazioni della Grecia coll'Italia.

Civili guerre desolarono l'impero greco nella prima met? del quattordicesimo secolo. Andromico il vecchio, e suo nipote dello stesso nome, rinnovarono tre volte le ostilit? l'uno contro l'altro dal 1321 al 1328. Il vecchio pusillanime, incostante, superstizioso, lasci? infine il trono al giovane Andromico, non meno di lui incapace di governare. Sotto il regno dell'ultimo, nuovi disordini afflissero pel corso di dodici anni l'Impero d'Oriente. Andromico mor? nel 1341, e lasci? suo figliuolo, ancora fanciullo, sotto la tutela dell'ambizioso Cantacuz?no, in allora curopalata. Sua vedova, l'imperatrice Anna di Savoja, pretendeva d'aver parte nel governo, ed attacc? Cantacuz?no per ispogliarlo dell'amministrazione, il quale si fece sforzare dai suoi partigiani ad assumere la porpora, sotto pretesto di poter meglio difendere il pupillo. In questo tempo i Turchi guidati da Akmano e dal suo successore Orcano avevano terminato di conquistare tutte le province greche dell'Asia; erano poscia entrati in Europa come ausiliarj di Cantacuz?no; e le conquiste loro in queste province, fino a tale epoca non invase, minacciavano omai l'ultima ruina al debole impero de' Greci.

Nelle guerre civili tra Cantacuz?no e l'imperatrice Anna di Savoja, i Genovesi avevano abbracciato le parti dell'ultima, e l'avevano varie volte soccorsa. In mezzo all'universale miseria, essi soli avevano conservate molte ricchezze. Il vicendevole spossamento costrinse alla fine i principi rivali a fare la pace. Convennero di regnare assieme; i due imperatori e le tre imperatrici furono coronati lo stesso giorno, ma erano ridotti in cos? povero stato, che in questa cerimonia furono costretti di presentarsi al popolo quali re da teatro, ornati di diademi di rame dorato, coperti di gioje di vetro, e serviti a mensa con vasellami di stagno. Nello stesso tempo i Genovesi avevano ingrandito il loro commercio; avevano prestato danaro agl'imperatori, che loro lasciavano in pagamento la riscossione de' reali diritti; e nell'istante della pace pi? sovrani che i Paleologhi, essi prendevano sulle imposte duecento mila bizanti d'oro all'anno, mentre non ne rimanevano trenta mila all'imperatore.

Mentre ci? accadeva in Costantinopoli, alcuni gentiluomini genovesi avevano, per la seconda volta, conquistata l'isola di Chio, e si erano stabiliti in questa colonia, ov'essi regnavano, mentre nella loro patria erano perseguitati dal partito democratico. Altri Genovesi avevano occupata la citt? di Focea, e tutte le province si lagnavano dell'arroganza o delle vessazioni di questi ospiti, diventati troppo ricchi e troppo potenti.

La pace del 1347 rese a Cantacuz?no la libert? di prendere in considerazione i disordini cagionati dalle guerre civili, e di pensare alla loro riforma. Ma quest'imperatore era debole e di carattere lento; era circondato da nemici e da malcontenti, impegnato in guerre di religione, la di cui violenza poteva riuscirgli fatale, e minacciato in pari tempo dalle incursioni dei Turchi e de' Serviani. Egli non avrebbe di propria volont? osato di aggiugnere ancora i Genovesi a tanti nemici, ed avrebbe continuato a dissimulare il risentimento che gli cagionavano le loro usurpazioni; ma questi ambiziosi ed arroganti mercanti lo forzarono essi i primi a prendere le armi. Essi vedevano con qualche inquietudine che Cantacuz?no cercasse di ristabilire la sua marina, per chiudere ai Turchi il passaggio del Bosforo, ed impedire che saccheggiassero la Tracia. D'altra parte i Genovesi avevano coll'imperatore un motivo di controversia; essi volevano chiudere entro le fortificazioni di Pera la parte superiore della collina, sul pendio della quale era fabbricata questa citt?; ed offrivano di comperare questo luogo, da cui un nemico poteva signoreggiarli: l'imperatore, contento di averli in qualche modo sotto la sua dipendenza, ricusava di vendere un terreno che i suoi ospiti cercavano di afforzare contro di lui. Mentre Cantacuz?no trovavasi infermo a D?motica, i Genovesi, intolleranti della lunghezza del negoziato, impadronironsi a forza del preteso terreno, lo circondarono d'una palafitta, e cominciarono subito a fabbricare una muraglia, fiancheggiata di torri.

A questo primo insulto, ch'ebbe luogo nel 1348, tennero dietro immediatamente le ostilit?: i Genovesi catturarono alcuni battelli pescarecci, e forzarono i Bizantini a chiudere le loro porte. Per altro il senato ed i mercanti di Pera offrivano la pace, a condizioni per?, che loro fosse rilasciato il terreno che avevano occupato: i marinai e l'assemblea del popolo chiedevano inoltre che Cantacuz?no disarmasse la sua flotta. Questa ingiuriosa domanda fece rompere le negoziazioni, ed il senato de' Greci, che in assenza dell'imperatore aveva il governo di Costantinopoli, dichiar? la guerra ai Genovesi.

Lusingavansi i Genovesi di ridurre i Greci in meno di quindici giorni a chieder pace. Siccome le loro galere erano sole padrone del mare, impedivano ad ogni nave d'approdare a Costantinopoli, o venisse dal Ponto Eusino, o dalla Propontide, e fino ne' primi giorni delle ostilit? fecero temere alla citt? una prossima carestia. Ma a fronte delle privazioni, cui andavano soggetti, i Bizantini si prepararono senza lagnarsene ad una lunga difesa. Il loro orgoglio era fieramente irritato dalla considerazione che alcuni stranieri accantonati in un loro sobborgo pretendessero d'imporre legge alla citt?; e l'antico odio pei costumi e la religione dei Latini faceva loro spiegare un'insolita energia.

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