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Read Ebook: Mezzo secolo di patriotismo: Saggi storici by Bonfadini Romualdo

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Ebook has 694 lines and 78909 words, and 14 pages

Questo complesso di cose difficili e necessarie fu sciolto in un modo che allora non si poteva pensar migliore, mediante i Comizj di Lione. Questa citt?, a mezza via fra Milano e Parigi, dove non giungevano n? le influenze corruttrici del governo cisalpino, n? i propositi dominatori delle consorterie parigine, parve e fu veramente adatto luogo per quel convegno fra gli elementi italiani e gli elementi francesi, da cui doveva nascere il nuovo Stato repubblicano dell'alta Italia. Vi giunsero, nel cuore dell'inverno, frammezzo a intemperie che avevano reso pericolosi tutti i passaggi delle Alpi, parecchie centinaja di rappresentanti, nominati dal governo, dalle citt?, dalle provincie, dalle universit?, dalle camere di commercio, dai tribunali, dagli ecclesiastici, dalla guardia nazionale; vi stettero un mese e mezzo, suddividendosi in comitati, lavorando, discutendo, consigliando, studiando miglioramenti di cose ed elenchi di nomi.

Quel congresso present? in embrione tutti i fenomeni buoni e i fenomeni cattivi che costituiscono il regime parlamentare; ma i fenomeni buoni vi prevalsero perch? erano alte le correnti del patriottismo. Vi apparvero ambizioni puerili che furono dissipate dalla seriet?; vi si tentarono intrighi che si ruppero contro l'onest?. Il Prina, il Guicciardi, il Mariani, lo Strigelli, il Marescalchi vi guadagnarono o vi accrebbero la loro riputazione come oratori e come uomini di Stato. Lo zelo e la rapidit? nel fare erano gli elementi costitutivi di quel patriotismo serio che la personalit? del generale Bonaparte aveva saputo trarre dai ruderi delle parole e modellare a sapiente energia.

Certo, parrebbe incredibile ai nostri giorni, cos? saturi di abuso e di scetticismo in fatto di riunioni e di commissioni e di rappresentanze, che di 452 cittadini eletti a formar parte della Consulta di Lione, 450 si siano recati al loro posto e vi siano rimasti fino all'ultimo giorno. E sar? sempre un'umiliazione pei nostri meccanismi parlamentari il ricordare che quell'Assemblea costituente di 450 deputati, venuti da diverse provincie, nuovi per la massima parte a pubblici affari, non illuminati da giornali politici o da comitati elettorali, abbia trovato in s? stessa tanta forza e tanta virt? da deliberare e votare, con utile effetto e con perfetta tranquillit?, un'intera legislazione politica, in un tempo minore di quello che oggi basterebbe appena per discutere un bilancio dei lavori pubblici.

Il Primo Console arriv? a Lione la sera dell'11 gennajo 1802. La Consulta vi era gi? radunata da un mese; egli s'era attardato in Parigi per dare le ultime spinte ai negoziati intrapresi coll'Inghilterra e che dovevano condurre alla posticcia pace d'Amiens. Arriv? come un trionfatore, come un sovrano. Era allora in tutta la forza del suo genio, al colmo della sua popolarit?. La campagna d'Italia, il riordinamento della Francia, la savia pace stipulata a Luneville avevano circondato il suo nome di un'aureola che pi? fulgida pot? sembrare di poi, non mai pi? serena n? pi? meritata. Aveva saputo domare l'anarchia senza elevarsi a tirannide, stravincere senza abusare della vittoria, ricostituire in due anni un paese, sfasciato da cos? lungo imperversare di guerre e di fazioni. Pochi uomini ricordava la storia, di cui l'ingegno avesse in s? breve tempo lasciata s? vasta orma. Onde la gratitudine toccava all'entusiasmo, e chi non amava, ammirava. Sei mesi dopo, la Francia gli avrebbe dato il Consolato a vita, e due anni dopo, l'Impero; ma fin d'allora il potere di Bonaparte non aveva altri limiti che la sua moderazione. Sventuratamente, questa doveva durare assai meno che il suo splendore.

La citt? di Lione aveva in quei giorni aspetto fantastico; Milano vi si era rovesciata, e i Francesi guardavano con simpatica meraviglia ad alcuni fra i nostri concittadini d'illustre nome, all'astronomo Oriani, al Cagnoli, al Moscati, al Bossi, pittore, al Longhi, incisore, ad Alessandro Volta, all'arcivescovo Filippo Visconti, che, vecchio di 82 anni, aveva superato le Alpi e non doveva pi? rivederle. Oltre ad essere provvisoriamente la capitale lombarda, Lione pareva quasi divenuta, per una settimana, anche la capitale della Francia. I prefetti e le autorit? di venti dipartimenti vi si trovavano raccolti ad aspettare l'arrivo del Primo Console. Una parte della guardia consolare v'era stata inviata da Parigi; la giovent? lionese aveva costituito per quella occasione un corpo di cavalleria d'onore dalle ricche armi e dalle brillanti uniformi. Generali e ministri erano accorsi da Parigi, da Milano, da Marsiglia; e pi? solenne di ogni spettacolo la vista dell'esercito d'Egitto, reduce in quei giorni dalla sfortunata epopea; laceri e gloriosi avanzi di Arcole, di Rivoli e delle Piramidi, arrivati a Lione in tempo da vedere nel pi? alto grado della potenza e dello splendore il generale che li aveva guidati a vincere alle foci del Nilo come alle sorgenti del Po.

In pochi giorni, col suo meraviglioso istinto d'affari, e sugli schiarimenti che otteneva dal Marescalchi, dall'Aldini, dal Melzi, dal Talleyrand, fu interamente edotto delle cose trattate e conchiuse, delle difficolt? che restavano ad appianare. V'era stata lunga e sorda lotta fra le idee che voleva applicare all'Italia il Talleyrand e quelle da cui non dipartivasi Francesco Melzi. Prevalsero le ultime che ottennero l'aperto suffragio del Primo Console. Il Talleyrand voleva Stato piccolo, costituzioni vecchie, principe fiacco; Melzi insisteva per istituzioni nuove, per ampio Stato governato da principe illustre. Il ministro cortigiano insinuava che Giuseppe Bonaparte sarebbe stato un egregio presidente della nuova Repubblica, e lo schietto cittadino rimbeccava con fine spirito: "l'existence des archiducs a toujours suivi, jamais pr?c?d? celle des rois dans les familles souveraines.,, Egli voleva il Primo Console a capo del suo paese, perch? in lui solo aveva trovato, fra la turba degli statisti contemporanei, concetti politici affini ai suoi e l'autorit? necessaria per farli prevalere. Non voleva uno Stato satellite che girasse intorno all'orbita del pianeta; poich? un uomo solo era grande e a tutti pareva necessario, voleva che quello, e non altri, assumesse, dopo la responsabilit? del creare, quella del dirigere e del mantenere.

Sicch? volse tutta l'influenza sua e quella de' suoi amici a far s? che la Consulta acclamasse il Primo Console a Presidente; e la Consulta, che gi? aveva designato nel Melzi il proprio candidato, misurando da quell'alto disinteresse la forza della sua convinzione, si pieg? unanime a quel desiderio e incaric? un Comitato speciale di esprimere a Bonaparte la preghiera dei rappresentanti italiani.

Fu nella solenne adunanza del 26 gennajo che lo scioglimento politico si annunci?.

La Consulta era completa. Il Primo Console v'intervenne come a seduta reale, accolto da grandi applausi, e and? a sedersi nella parte pi? elevata della sala, accompagnato dalla sua famiglia, dai ministri Talleyrand e Chaptal, da un gran numero di generali, da venti prefetti, da quattro consiglieri di Stato. Quando l'acclamato Presidente si alz? per parlare, nell'ampia sala non s'udiva un respiro. Si afferravano le parole, s'indagavano gl'intenti. Bonaparte parl? in lingua italiana, con pronuncia netta e vibrata. Il suo discorso, abilmente conciso e improntato di quella grandiosa semplicit? che distingueva il suo dir pubblico, toccava delicatamente molte corde e ne trattava altre con aspra franchezza. Si vedeva ch'egli s'era ricordato di parlare ad Italiani, ma di parlare in mezzo a Francesi.

Sulla questione capitale della Presidenza disse senza ambagi: "non ho trovato fra voi nessuno che avesse ancora abbastanza diritto sulla pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore ad ogni spirito di localit? e che avesse resi tanto grandi servigi alla patria, da potergli affidare la carica di Presidente.... mi sono quindi determinato ad aderire al vostro voto, e, finch? le stesse circostanze lo vorranno, io m'incaricher? del pensiero dei vostri affari.,,

Sul programma di governo, soggiungeva poi con sintesi sagace, e profonda: "voi non avete che leggi particolari ed avete bisogno di leggi generali; il vostro popolo non ha che costumi locali ed ? necessario che acquisti costumi nazionali; voi finalmente non avete armate e le potenze che potrebbero diventar vostre nemiche ne hanno di molto forti.... Ma voi avete tutto ci? che pu? produrlo; una popolazione numerosa, campagne fertili, e l'esempio che in tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo dell'Europa.,,

Francesco Melzi aveva quarantotto anni allorch? assumeva cos? alto incarico di governo frammezzo a cos? alte difficolt?. Avrebbe potuto dirsi nella pienezza delle sue facolt? morali e fisiche, se queste ultime non avessero gi? cominciato ad essere offese da frequenti attacchi di gotta.

Figlio del conte Gaspare e di Teresa d'Eril, damigella spagnuola del seguito della governatrice Rosa di Harrach, aveva appena 21 anni, quando Maria Teresa lo nomin? fra i decurioni municipali, tratta dalla grande riputazione che in paese s'era gi? levata di lui per l'ingegno pronto e l'amabile vivacit?. Era stato educato, come la massima parte dei patrizj d'allora, in un collegio di gesuiti, a Modena; ed aveva dovuto resistere, con sagacia e volont? maggiore degli anni, alle pressioni ed alle seduzioni di quei terribili educatori, che, indovinando le forti qualit? del loro allievo, avevano concepita la speranza di chiuderlo nel loro bruno sodalizio.

Nella giovent? milanese ottenne presto quella prevalenza che non isfugge all'ingegno, soprattutto quando ? sorretto dalla ricchezza. Era l'idolo delle riunioni gaje, l'oracolo delle adunanze pensose. Cognato di Pietro Verri, che aveva sposato in ultime nozze sua sorella Vincenza, era legato per mezzo suo a quel manipolo di preclari intelletti, che, ormai sul tramonto, si vedevano con soddisfazione rivivere in quel giovane forte, serio e gentile. Non era stato esente da un vizio, pur troppo caratteristico delle societ? eleganti, quello del giuoco; anzi vi si era abbandonato con una forza che ad alcuni amici pareva minacciosa pel suo avvenire. La nobilt? della sua indole doveva trionfare della bassa tentazione. Un giorno si trovava al verde, e si rec? a chiedere duemila scudi in prestito ad un amico in cui riponeva grande fiducia. L'amico glieli rifiut? nettamente. "Sarebbero pochi,, gli rispose "pel conte Melzi; sono troppi per un giuocatore.,, Il giovane fu cos? tocco della severa risposta che abbandon? le bische e non gioc? pi?.

Auspicj femminili lo trassero dalla vita brillante e spensierata dei circoli cittadini, per avviarlo a pi? vasti orizzonti. Primeggiava allora fra le gentildonne milanesi la marchesa Paola Castiglioni, colta e gentile Egeria di ogni Numa dell'epoca, la cui riputazione di eleganza, di bellezza e di spirito, consacrata nei serali convegni, travers? due generazioni per giungere ancora intera e vivace fino a quella che immediatamente ci ha preceduti.

L'indole tutta italiana del Melzi non si sform? al contatto dei ribollimenti francesi. Ch? anzi grave materia di esperienza e di studio trasse egli dallo spettacolo vivo di quella nazione, fra cui si elaborava tanta mole di novit?. E pur tenendo l'animo aperto alla seduzione per ci? che v'era in quei concetti di generoso e di grande, l'acuto senno ne misurava il pericolo e intravedeva gi?, dietro il fascino delle parole, la futura intemperanza delle cose.

Innamoratosi dei viaggi e del largo osservare, dopo la Francia percorse la Spagna, il Portogallo, sopratutto l'Inghilterra, studiando ed annotando costumi, istituzioni, uomini, arti, paesi. Torn?, come cinquant'anni dopo il conte di Cavour, ammiratore della costituzione inglese, e convinto non essere possibile ad una nazione acquistare ordini e forze di libert? senza il beneficio principalissimo dell'indipendenza, cui egli giudicava fin d'allora doversi indirizzare il desiderio e lo sforzo di quanti amavano possedere, come le altre nazioni, una patria.

Cos?, nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente idoneo a cose di Stato, Francesco Melzi aspettava gli eventi.

Quando apparvero, soverchiando d'un tratto ogni argine di dottrina e di ragione, non si sgoment?. Resistette alla fiumana demagogica come doveva resistere pi? tardi al torrente del cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perch? non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono, nel loro stile barocco "di mettere il capo nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel centro degli affari.,, Non era vero. Nessuno pi? del Melzi era schivo di chiedere ed assumere importanza politica. Pi? tardi fu anzi questo un difetto che il paese poteva a buon diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir male degli uomini virtuosi era pei viziosi il modo pi? sicuro e pi? spiccio di salire in grazia alle turbe e far loro dimenticare le proprie magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva; era una prova evidente del torto di quest'ultimo e della ragione dei primi. Cos? fu imprigionato, sbandito, richiamato.

Non era per? il Melzi tal uomo che dello sfregio a s? fatto tenesse broncio al paese. Onde, non appena la prevalenza degli uomini onesti cominci? a risorgere e seppe essere richiesti i suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli; e, come addetto ai Comitati di governo, come inviato diplomatico a Rastadt, come consigliere di Bonaparte a Mombello, come inviato a Parigi, come promotore e ordinatore della Consulta di Lione, sollecito in ogni occasione degli interessi e della dignit? del paese, ben presto riebbe quella fiducia e quella stima che i suoi concittadini non gli ritolsero poi per tutta la vita. Tanto ? vero che popolarit? durevole ed unicamente apprezzabile non si acquista col blandire ogni traviamento di moltitudini, per istrapparne un facile applauso, ma coll'uniformare sempre la propria condotta ai dettami di quella onesta coscienza, la quale allora solo ? fallace quando s'impaurisce o si fiacca per biasimi non meritati.

Tali erano i precedenti dell'uomo che il 7 febbraio 1802 entrava in Milano, per assumere, con istituzioni nuove, le redini di uno Stato, in cui tutto era sconvolto e tutto era da mutare e da rinnovare. Le accoglienze, com'era da aspettarsi, furono assai festose e sincere. Da un pezzo la Repubblica s'agitava nel vuoto; indispettita della larva di governo cattivo che possedeva; ignara se ne avrebbe avuto uno migliore; incerta fino agli ultimi giorni se dalla Consulta di Lione le sarebbero giunte fortune o delusioni.

"Quel contino se la caver? con onore,, aveva scritto Vittorio Alfieri, appena udita la nomina di Melzi a Vice-presidente. Ed era, pi? che il pensiero, la speranza di tutti; essendo tutti ansiosi di uscire dal lungo provvisorio e dalla lunga anarchia. Era inoltre confortato il sentimento pubblico dall'idea che questa volta l'omaggio suo non si volgeva ad uno spagnuolo, n? ad un francese, n? ad un tedesco, n? ad un russo. Erano dei secoli che un italiano non appariva pi? come capo, come guida politica di una cos? grossa e bella compagine di popolazioni italiane! Onde l'istinto nazionale si sentiva rialzato nella sua dignit? e si aprivano gli animi a speranze maggiori di maggiori compagini.

L'arte e la poesia celebravano a gara l'auspicato rinnovamento.

il mio Melzi, a cui rivola Della patria il des?o.

E il Melzi, serio e severo, perch? preoccupato della grave responsabilit?, entrava da Porta Vercellina, in una carrozza preceduta e seguita da brillante accompagnamento di magistrati, di militari, di popolo. Il generale Pino era nella carrozza con lui; il generale Murat era corso ad incontrarlo a capo dello stato maggiore; nell'ultimo posto, ed obliato da tutti, chiudeva umilmente il corteggio -- rappresentanza viva delle ironie della sorte -- quel generale Despinoy, che sei anni prima aveva trattato i milanesi con tanta impertinenza e che aveva fatto arrestare, con brutalit? soldatesca, Francesco Melzi.

Qui comincia il periodo dell'attivit? politica e della responsabilit? per l'uomo insigne che s'era fino allora mantenuto nei pi? facili confini del consiglio e della censura. E non ? piccola lode sua, non ? prova leggiera delle sue alte qualit? di Stato il poter dire che Melzi usc? con intatta, anzi con cresciuta riputazione, da questo periodo, che ? sempre cos? pericoloso e spesso cos? fatale per le ambizioni politiche.

Non ci ? dato poter qui giustificare questa asserzione. Per essere fedeli alle necessit? ed alle proporzioni del nostro studio, dobbiamo respingere da tutte le parti argomenti e fatti che ci si affollano innanzi alla mente; dobbiamo chiudere gli occhi por non vedere il periodo, per dimenticare la moltiplicit? degli ostacoli vinti, delle riforme cominciate, delle leggi votate, dei lavori compiuti; dobbiamo resistere alla tentazione di uscire dall'atmosfera dell'uomo per entrare in quella delle cose. Ed ? qui soprattutto che sentiamo l'insufficienza del metodo che ci siamo imposti: ? qu? che dobbiamo chiedere scusa ai lettori se la parola sar? impotente a condensare in un capitolo la materia di un libro e se a questa irta contraddizione fra lo spazio e l'intento ciascuno di essi creder? sacrificate quelle speciali rimembranze e quelle glorie speciali, -- militari, legislative, edilizie, -- onde s'? composta fra noi la ricca e simpatica tradizione dell'amministrazione italiana.

A questa ha presieduto per pi? di tre anni Francesco Melzi, rialzando veramente in ogni pubblica azienda quel concetto alto e morale che s'era perduto durante gli ultimi rivolgimenti, e mettendo le basi a quasi tutte le istituzioni che i nove anni successivi del Regno italico avrebbero potuto svolgere e perfezionare.

Il governo di Melzi fu veramente un complesso di uomini, rispettabili nella vita privata, capaci nella vita pubblica, pieni di zelo e di attivit? salutare. Bonaparte gli aveva dato fin da Lione due soli collaboratori, lo Spanocchi, Gran Giudice, magistrato di severa dottrina e d'incorruttibile probit?, e Diego Guicciardi, Segretario di Stato, amministratore sagace e ricco di espedienti, che delle persone e delle cose lombarde aveva conoscenza profonda e precisa.

Intorno a questo nucleo raccolse presto il Melzi gli altri elementi di cui aveva bisogno; e si ajut? di Carlo Verri e del Villa per gli affari interni, di Pietro Moscati per l'istruzione pubblica, di Prina e di Veneri per le finanze, di Bovara e di Giudici per gli affari del culto; all'importante dipartimento delle pubbliche costruzioni venne allora e dur? poi lunghi anni quel conte Paradisi, sotto la cui amministrazione furono compiute cos? gigantesche opere stradali ed idrauliche, ed alla cui scuola si educarono ai futuri prodigi tanti giovani illustri, fra cui la nostra generazione non pu? dimenticare Elia Lombardini e Pietro Paleocapa.

Gli erano dunque fieramente avversi tutti quegli elementi equivoci, che nel primo triennio e dopo la battaglia di Marengo avevano fatto sulle finanze pubbliche cos? turpi speculazioni. Il Sommariva, congedato con severa frase dal Melzi, ordiva intrighi a Parigi per isbalzarlo. Aveva tentato perfino di mettere contro di lui l'influenza ancora efficace di Giuseppina, facendole offrire dal suo complice Formiggini una collana del valore d'un milione. Giuseppina, onestissima malgrado la sua vanit?, respinse il dono, che sotto altre apparenze poteva ricordare il famoso episodio fra Maria Antonietta e il cardinale di Rohan. Ebbe minori scrupoli il Talleyrand, che ritenne, senza chiederne la provenienza, un orologio a brillanti del valore di ottantamila lire.

Questo intrigo poteva essere tanto pi? pericoloso in quanto s'ajutava di tutte le ostilit?, segrete o palesi, a cui la politica schiettamente italiana del Melzi dava pretesto. Giuseppe Bonaparte, che attribuiva all'opposizione sua di non essere Presidente della Repubblica Italiana, ostentava grandi accoglienze al Sommariva, che aveva sposato un'antica amante di Gian Giacomo Rousseau e che teneva in sua casa corte bandita per equivoci commensali, orpellando colle nuove ricchezze l'antica volgarit?. Fra i generali, avvezzi all'impunit? degli abusi, l'irremovibile severit? del Vice-presidente suscitava fieri lamenti. Se n'era fatto il pi? romoroso banditore Giuseppe Lechi, uomo altrettanto immorale quanto valoroso, non molto dissimile per torbida indole dal fratello Galeano, tiranno di Bormio. Il generale Marmont non era schivo dal prestar mano a queste corruttele, che venivano ad allacciarsi intorno al comandante supremo dell'esercito francese a Milano, Gioachino Murat; cuore onesto, ma debole, che dal suo grado militare e dalla sua stretta parentela col Primo Console traeva un certo disdegno d'essere in qualunque paese il secondo, e a cui non era difficile persuadere che gli spettasse esser primo.

Un pettegolezzo letterario, a cui questa coalizione d'interessi aveva saputo dare le proporzioni d'una congiura, complicava la situazione e accresceva gl'imbarazzi del Vice-presidente. Da Parigi venivano ordini fulminanti, richieste di processi contro Cicognara, contro Magenta, contro Teuli?, per alcune poesie d'un capitano Ceroni, che affettava ostilit? giacobine contro il governo del Primo Console. Il quale s'avviava gi?, per insensibile pendio, su quello sdrucciolo di despotismo violento, in fondo al quale doveva pochi anni dopo trovare la fine della sua grandezza. Scriveva al Melzi, ordinandogli di sfrattare dallo Stato una dama milanese, la signora Fossati, perch? teneva circolo serale di elementi non favorevoli al regime francese. E per queste minutaglie politiche si accalorava tanto da scrivere: "la faiblesse du Gouvernement ? Milan passe tout ce qu'il est possible de concevoir.,,

Melzi resistette a queste molteplici bufere con severa e tranquilla dignit?. "Le g?n?ral Murat,, scriveva al Primo Console "a couvert de son nom cette trame odieuse,,, e se ne appellava alla stessa sorella di Bonaparte, Carolina Murat, donna di maggior senno e di maggiore energia del marito.

Degli intriganti parigini scriveva col pi? grande disdegno e si meravigliava che presso le alte influenze del Governo avesse "le plus grand jeu la faction de l'ancien gouvernement qui est celle des voleurs.,,

Circa le violenze poi che Bonaparte imponeva o consigliava contro avversarj politici, rispondeva: "je crois fermement qu'il y aurait de la folie ? combattre les folies, les erreurs, les passions des hommes par la force, car la force leur donne un caract?re extr?mement plus dangereux par la r?action qu'elle provoque. Je crois ?galement qu'il est juste et n?cessaire de punir les actes ou faits qui portent un caract?re criminel. Toute ma conduite a ?t? r?gl?e sur cette distinction.,,

Non vi pare di veder qui riassunta con linguaggio preciso e liberale, fin dal 1802, quella famosa teoria del prevenire e del reprimere, che alcune ingenuit? dottrinarie considerano come un trovato di tempi cos? recenti?

Il Melzi chiudeva finalmente le sue corrispondenze, respingendo alteramente qualunque sospetto intorno alla sua lealt?, ed offrendo, come un primo ministro odierno, le sue dimissioni. "Comme il serait aussi injuste qu'absurde d'accuser ma loyaut?, ainsi il serait au-dessous de moi de descendre ? la justifier.... J'avais pu sacrifier mon existence et mon repos au bonheur de ma patrie; mais je n'ai ni le courage ni l'envie de sacrifier mon bonheur ? de viles intrigues.,,

Bonaparte, reso ai sentimenti nobili e giusti da questa fiera dignit? dell'amico suo, gli diede intera soddisfazione sopra ogni argomento. Cacci? da Parigi il Sommariva e i complici suoi, scrisse a Murat, biasimando la sua ostilit? contro Melzi e dicendogli: "vivez bien avec lui.,, Al Cicognara, al Magenta, al Teuli? restitu?, dopo poco tempo, libert? ed onori. Non accett? naturalmente le dimissioni offertegli, dicendogli anzi: "il est impossible qu'avec la confiance que je vous accorde, vous ?prouviez aucune tracasserie.,, E, avendogli anche pi? tardi, sotto un altro accesso di stanchezza e di gotta, ridomandate il Melzi le sue dimissioni, Bonaparte gli rispondeva con una delle sue frasi sovrane: "vous ?tes engag? dans la lice; il faut d?sormais que vous mouriez au milieu des hommes et des embarras du gouvernement des nations.,,

Di questa tempra alta e veramente liberale del Melzi si potrebbe trovare la traccia in ognuna delle sue lettere, in ognuna delle sue disposizioni di governo. Era un ingegno equilibrato e coerente, che non aveva nessun pregiudizio di tempi e in parecchie cose preludeva a progressi futuri.

Sollecito di cultura pubblica, incoraggiava di sussidj e di commissioni Ugo Foscolo, Francesco Soave, Andrea Appiani, Canova. Ordin? l'Esposizione annuale periodica di Brera; stabil? dodici pensioni pei giovani artisti che si recavano a Roma; destinava fondi dello Stato a incoraggiare la grandiosa pubblicazione dei Classici Italiani; sussidiava del proprio una splendida edizione dei celebri scritti militari del bolognese Francesco Marchi.

Delle grandi necessit? politiche poi aveva un sentimento alto e sicuro. Patrocinava in ogni occasione l'ingrandimento territoriale della Repubblica, la cui mostruosa conformazione, prima dell'annessione del Veneto, diceva fonte di gravi danni e pericoli. Agli ordinamenti militari poneva tutto il suo zelo, e fin dalla prima riunione del Corpo Legislativo, aveva scritto nel suo Messaggio, con intonazione affatto napoleonica: "Poich? le armate d'Europa riappresero il cammino d'Italia, ? pur forza sovvenirvi che a' suoi soldati apprese l'Italia un giorno le vie del mondo.,,

Dopo tre anni di un'amministrazione governata con tanta prudenza e tanto affetto, ecco un nuovo turbine che scende dalle Alpi, l'Impero.

Un giorno, Francesco Melzi ? invitato a recarsi senza indugio a Parigi dal Primo Console Presidente. La novit? della richiesta fa presagire gravissimo abboccamento. Parte, lasciando il governo al Gran Giudice, colla raccomandazione di consultare negli affari importanti il Moscati e il Guicciardi. Giunge a Parigi a tarda notte, ? subito condotto alla presenza del Console, e rimangono quattro ore in segreto colloquio. Quando ne usciva, la nuova rivoluzione politica era stabilita, la Repubblica Italiana diventava il Regno d'Italia, Napoleone I cingeva la sua corona e nominava Vicer? il suo figlio adottivo, il colonnello Eugenio Beauharnais.

? la terza fase del periodo italiano che ora incomincia: fase che ha usurpato, nella tradizione storica, tutta la gratitudine dovuta all'intero periodo, soltanto per quella fatale preferenza che l'uomo accorda sulle felicit? oneste e tranquille alle glorie tragiche ed alle romorose sventure.

Nulla si mutava in apparenza, tranne i nomi, gli spettacoli e le uniformi; in realt?, delle due basi fondamentali su cui fino allora il governo s'era fondato, la saviezza e l'energia, la prima cominciava ad affondarsi, e la seconda, abbandonata dalla sua compagna, assumeva sempre pi? uno solo degli aspetti sotto cui suole presentarsi, quello della violenza.

Ad un uomo, invecchiato negli affari e nelle difficolt? politiche, come Francesco Melzi, succedeva un giovane di 23 anni, inesperto degli uomini, voglioso di piaceri e di gloria, che, soverchiato dalla immensa grandezza del genitore, non si permetteva di discutere il menomo dei cenni suoi.

Giacch? questa fu veramente la differenza caratteristica fra la Repubblica e il Regno. Nella prima, agli ordini impensati, talvolta impetuosi del Presidente era efficace correttivo la prudente fermezza del Vice-presidente; nel secondo, le volont? imperiose e precipitose del Re erano aggravate dalla leggerezza e dalla inesperienza del Vicer?. L'equilibrio era rotto fra l'autorit? lontana e la saviezza vicina; questa spariva, quella cresceva; e gli eccessi napoleonici, spintisi, per la rottura dei freni, alla ricerca dell'universale e dell'impossibile, preparavano sordamente la riscossa dell'odio nelle popolazioni balestrate da cos? mobile tirannia.

Napoleone, divenuto imperatore, scese due volte ancora dalle Alpi a Milano; ma egli pure aveva subito la sua terza trasformazione. Non era pi? il generale Bonaparte, vivace, entusiasta, colla patria sul labbro e l'amore nel cuore; non era pi? il Primo Console, pensoso, gentile, prudente nel parlare e savio nell'operare; era un uomo ingrassato di corpo e irrigidito di animo, freddo, altiero, preoccupato di cerimonie e di etichette, insofferente di ogni contraddizione, duro cogli uomini, ineducato colle signore; il cui linguaggio era forza, la cui politica era forza; un uomo che credeva legge morale il suo capriccio, e giustizia la collera, e impertinenza la verit?, e felicit? del mondo la sua soddisfatta ambizione.

L'antico giacobino era imbarazzato sotto il manto imperiale. Lo portava talvolta con un fasto di cattivo gusto, talvolta se ne spogliava con soldatesca ruvidezza. Metteva la dignit? nell'essere brusco anzich? nell'essere cortese. Sentenziava sopra ogni materia, e sovente, su quelle di cui era digiuno, spropositava. Si fece incoronare con pompe teatrali, con isfoggio di carrozze dorate, di cavalli bianchi, di mantelli d'ermellino, di corone, di scettri, di globi d'oro. Obbligava i parroci a vegliare di notte, nel rigido inverno, sulle porte delle chiese, per incensarlo quand'egli passava in carrozza chiusa. Aveva sulle braccia l'Europa, il blocco continentale, la prigionia del Papa, e rimproverava la marchesa Busca, figlia del suo amico Serbelloni, perch? si era presentata un giorno alla sua Corte collo stesso abito che portava il d? prima.

Ci volevano questi ebbri furori per paralizzare i beneficj sorti dagli ordini precedenti e gli splendori che erompevano a scatti dal genio disordinato. Dal 1802 al 1814, la vita di Milano era stata grandiosa. Sentiva per la prima volta, da Lodovico il Moro in poi, gli effetti di una vera preminenza politica e civile. Era la capitale di un grande Stato, che negli ultimi anni comprendeva ventiquattro dipartimenti ed una popolazione aggirantesi intorno a sette milioni. Dopo tanti anni di vita umile, isolata, ora compressa, ora fanatica, ma sempre secondaria, il popolo milanese respirava in un ambiente largo, importante; vedeva i grandi personaggi passeggiare per le sue vie; si sentiva legato, per autorevoli solidariet?, coi grandi affari d'Europa. Lo spirito pubblico, vivo e intelligente, si metteva a livello de' nuovi destini. Elaborava uomini politici e generali d'esercito, che tenevano con onore il loro posto in quella meravigliosa generazione europea. La conversazione sociale e i discorsi popolari trovavano pascolo educativo in fatti nuovi e memorabili, che li svezzavano dall'antico pettegolezzo. Ora si vedeva aprire la via del Sempione, ora sorgevano le fondamenta dell'Arco di Piazza d'Armi, ora si metteva mano alla facciata del Duomo, ora si scavavano navigli e canali, a favore di Milano, di Pavia, di Mantova, di Brescia. Oggi era l'incoronazione di Napoleone, domani il matrimonio del Vicer?. Un giorno si discorreva dell'annessione al Regno delle provincie venete o marchigiane, un altro giorno del famoso decreto di Milano intorno al blocco continentale; poi le glorie dei nostri militari infiammavano d'entusiasmo; si udiva con dolore ed orgoglio che al Teuli? morto a Colberg l'esercito francese innalzava un monumento; s'era altieri che Napoleone avesse detto ad Aldini: "gl'Italiani ridiventeranno i primi soldati d'Europa.,, Splendidissime feste celebravano il ritorno dalle campagne germaniche dell'eroica divisione di Pino. E dal fondo della Spagna giungevano altre notizie del valore italiano, tenuto alto dal Palombini, dal Severoli, dal sergente Bianchini. Il principe Eugenio, non felice negli affari, presiedeva meglio alle feste e sosteneva bravamente le guerre. La sua Corte era il regno dell'eleganza e dello splendore; vi teneva uno scettro indisputato quella donna squisita di bellezza e di bont? che era la Vice-regina Amalia di Baviera; e intorno ad essa brillavano di splendori proprj alcune gentildonne universalmente ammirate; la marchesa Litta, la contessa Parravicini, la contessa Arese; apparve pi? tardi in quelle sale, e vi port? un profumo di fiera amabilit? quella gentile Teresa Casati-Confalonieri, predestinata ad essere di un cupo e pietoso dramma la vittima e l'eroina.

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